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lunedì 28 gennaio 2013

Guest post: Perché esistono gli altri? Rifessioni sull'evoluzione di Andrea Cau

Sono felice di presentare ai lettori una riflessione sui concetti basilari dell'evoluzione scritta da Andrea Cau, naturalista, paleontologo e gestore del blog Theropoda. L'illustrazione che potete ammirare qui sotto è invece un'opera inedita di Fabio Manucci (blog Agathaumas), e rappresenta un'originale interpretazione (paleo)artistica dei concetti delineati nel post.
A entrambi vanno i miei più sinceri ringraziamenti.

Buona lettura!

Metapode, di Fabio Manucci, 2013 (per una variazione sul tema si rimanda a questo link).
La forma generale è basata su una ricostruzione scheletrica di Acanthostega. Dal lato sinistro del busto si diramano arti anteriori diversificati per funzione, simili per struttura; dall'alto verso il basso, rispettivamente: un'ala di pipistrello, la zampa di una rana e la pinna di un cetaceo. La morfogenesi autonoma dell'arto destro riguarda un topo. La coda suggerisce un'unica origine; coda e radici filogenetiche (espanse in un cladogramma in fieri) proseguono oltre i confini dell'immagine, ad indicare la continuità evolutiva in un senso e nell'altro (origini e future radiazioni). I crani fossili alla base illustrano figurativamente la vastità di linee morte o fantasma e, pertanto, le possibilità evolutive contingenti rimaste inesplorate.
«Siamo tutti legati in un’unica rete»
Charles Robert Darwin, taccuini giovanili, 1837 [1]

Ognuno di noi è unico ed irripetibile.
Questo fatto, tradotto in concetto, fonda il linguaggio umano, che nella parola “io”, il simbolo del soggetto autoreferente, trae il suo primissimo postulato di operatività. Ma senza un “noi”, l'io umano non può esistere. Animale eusociale, Homo sapiens si distingue dalla maggioranza degli altri animali altamente sociali per il fatto di essere contemporaneamente un “noi” ed un “non-voi”. In breve, l'uomo è un asociale sociale. Diamo così scontata questa commistione di contraddizioni, la contingenza irripetibile dell'io e la necessità del noi, che per migliaia di anni il quesito fondamentale di quale sia l'origine di questi due simboli non è stato mai affrontato, se non in forme vaghe e poco consapevoli delle implicazioni. Perché esistono gli “altri”, così simili eppure diversi da ognuno di noi? E perché, pur nella nostra irrisolvibile unicità, che ottusamente si ripiega costantemente su sé stessa, ogni qual volta ci soffermiamo sui fondamenti del “noi”, scopriamo che esso è enormemente più vasto dell'io?

Per oltre due millenni, il pensiero occidentale ha dedotto la dicotomia “io-noi” partendo dall'io. Se l'io esiste, e se è unico ed irripetibile, invariante e inscindibile, allora deve esiste un Io Assoluto dal quale tutti gli “io” particolari traggono la loro essenza di unicità. La diversità tra gli individui è stata quindi interpretata come “accidentale”, contaminazione e corruzione materiale di una purezza iperuranica che trova nell'Uno la sua manifestazione più astratta. Se estendiamo questo modo di ragionare alla descrizione della Natura, otteniamo l'interpretazione fissista del mondo biologico. Le specie sono invarianti, “io” astratti di cui ogni individuo è solamente una manifestazione accidentale, una lieve deformazione corrotta dal mondo fisico, un effetto secondario ed effimero, una “variazione sul tema”. Conseguenza di questa visione della diversità naturale, è l'idea che tra due specie non possa esistere alcun individuo “intermedio”, poiché è inconcepibile che esso sia “manifestazione” di un vacuum tra due entità fisse separate. Qualora esista, esso è un ibrido sterile, un bastardo, un errore vivente, marchiato dall'infamia di non poter generare altra vita. Eppure, questa concezione della natura, così intuitiva, ovviamente palese, e così rispondente alle nostre intime istanze egocentriche e centripete verso l'unicità, è solo una delle alternative possibili con cui l'ancestrale dicotomia tra io e noi può essere risolta.
Esiste una seconda versione, ed è quella che parte dal noi per dedurre l'io, quella che assume la “variazione” come fondamentale, ed il “tema” come mera astrazione del fondamento. Apparentemente meno intuitivo, forzato ed imposto arbitrariamente, questo rovesciamento dei ruoli è però straordinariamente fecondo. La conseguenza più radicale di questa seconda concezione è che ogni “io” che non sia incontrovertibilmente atomico è solamente una sommatoria di “noi”. Ogni individuo è un aggregato di cellule, appartiene ad una popolazione, che a sua volta è parte di una specie, specie che è parte di una sequenze di forme che mutano nel tempo la loro rappresentatività nell'ambiente.
Possibile che le “specie”, che sono state introdotte proprio per la loro palese unicità, solidità, concretezza, inscindibilità ed inmiscibilità, siano poco più che nebulosi aggregati, se non, terribile a dirsi, dei meri contenitori fondati su criteri arbitrari?

La specie è un concetto, e come tale è vincolato al sistema che lo produce, elabora e utilizza. La mente umana ha dei limiti intrinseci, di portata, capacità, sensibilità e potenza. Le specie nascono all'interno del mondo concettuale possibile alla mente umana. Ma tale mondo, proprio perché rappresentazione, non comprende la totalità dei fenomeni osservabili. Eppure, tale “concetto” è estremamente affidabile, fintanto che lo si applica al contesto in cui è stato elaborato. Fuori da tale contesto, il concetto viene meno, perde di potenza e di affidabilità, requisiti fondamentali per uno strumento. Se introduciamo i tempi geologici, le specie entrano in crisi, e si risolvono nello stesso modo con cui le loro sotto-unità elementari si riducevano a “variazione sul tema”, esattamente come gli individui apparivano effimeri e secondari manifestazioni di entità più ampie.
In analogia con la specie, anche la storia è un concetto vincolato al contesto in cui è stato elaborato. La storia, come serie di cause ed effetti riconoscibili ed interpretabili, “funziona” soltanto quando applicata alla scala temporale in cui la mente umana è, per sua natura, capace di funzionare. La storia ha senso tra i secondi e i secoli, sfuma e sbiadisce ai confini di tale intervallo, perde senso qualora la dimensione dei fenomeni si allontani ulteriormente dal confortante livello del mesomondo.
Specie e storia, assieme, formano la Storia Naturale. Eppure, paradossalmente, la Storia Naturale, nella sua struttura fondamentale, “esiste” soprattutto oltre quei limiti originari di specie e storia in cui agisce la vita umana. Pertanto, è necessario un diverso sistema di concetti per affrontare pienamente la Storia Naturale.
La teoria dell'evoluzione darwiniana è, ad oggi, il solo sistema teorico che affronti in modo soddisfacente la Storia Naturale. L'avversione verso il darwinismo che persiste in alcuni ambiti culturali è, almeno in parte, legata al fatto che esso affronti con successo ambiti nei quali le tradizionali categorie dell'io, la storia e la specie, falliscono. E con quel fallimento, decadono tutte le pretese di universalità ed esaustività che ogni sistema (più o meno) filosofico fondato sull'astrazione dell'Io (l'Uno, L'Eterno e l'Essere) ha arrogato per buona parte della storia del pensiero occidentale.
La Teoria Darwiniana si basa su cinque teorie distinte ma connesse, sulle quali a sua volta si articola una struttura tricuspidata, un triangolo, che definisce modi e mezzi del divenire nella Storia Naturale. A differenza di larga parte delle concezioni del mondo “io-centriche”, nate come astrazione convalidata dall'immediatezza, il darwinismo è un'elaborazione non immediata supportata da una amplissima base empirica. Proprio perché così controintuitivo, il sistema darwiniano ha dovuto attendere che l'accumulo delle prove fosse sufficientemente massivo da erumpere in virtù della sua stessa mole. Non è possibile rigettare tutte e quante le prove del darwinismo, dalla zoologia, biogeografia, genetica, anatomia comparata, paleontologia, antropologia, ecologia, fisiologia e tassonomia, senza produrre obiezioni a tale argine e contraddizioni più pesanti delle stesse prove che si vorrebbe rimuovere. Negare ciò, quando non è capziosamente frutto di una deliberata negazione della documentazione scientifica, è ormai considerato irrazionale al pari della negazione della meccanica dei quanti o della relatività generale.

Triangolo attativo; immagine di Andrea Cau. La didascalia contenuta nella summa di Stephen J. Gould recita: «Il classico diagramma triangolare per raffigurare le cause fondamentali della forma come funzionali (adattamenti immediati alle circostanze attuali), storiche (ereditate per omologia, quale che sia la base dell'origine ancestrale) e strutturali, ovvero derivanti come conseguenza fisica di altri caratteri o direttamente della natura delle forze fisiche che agiscono sui materiali biologici. Tutti i vertici possono produrre tratti attativi di grande utilità per l'organismo» [2].
Una volta riconosciuto il valore delle innumerevoli (e continuamente aggiornate) prove a sostegno del darwinismo, ci si può addentrare nel sistema tricuspidato della teoria, per esplorarne la variegata geografia.
Entriamo nel Triangolo dal suo vertice più famoso e frainteso, quello Funzionale. Esso è l'ambito di studio della selezione naturale, un termine sovente malinteso, al quale è stata purtroppo associata una qualche forma di “intenzione” e di “attiva partecipazione” al processo evolutivo. In realtà, la selezione naturale è solamente un termine contratto per esprimere il “successo differenziale di entità capaci di generare una numerosa discendenza simile al progenitore”. Tutti quei fattori che aumentano la probabilità che un organismo generi prole a sua volta capace di procreare sono, per definizione, parte della selezione naturale. Non occorre mistificare e demonizzare questo fenomeno che, alla fine, è solamente una mera conseguenza del fatto che gli organismi generano una discendenza numerosa, la quale essendo molto simile, ma non identica, al proprio genitore, tenderà a sua volta a generare prole numerosa. Per quanto “mero effetto” della riproduzione così come avviene negli organismi sulla Terra, la selezione naturale è un processo capace di produrre una grandissima gamma di strutture, comportamenti e interazioni. Proprio perché la più famosa e “potente” delle forze evolutive, la selezione naturale ed i suoi effetti sono stati il tema principale della letteratura biologica dell'ultimo secolo.
Ma l'evoluzione non si risolve solamente nella selezione naturale, per quanto potente e pervasiva essa sia. Se ci allontaniamo dal Vertice Funzionale e ci portiamo verso il centro della metaforica triade, abbiamo due scelte (che sono, va sottolineato bene, sopratutto scelte metodologiche di indagine, non “mondi” distinti dell'unico processo evolutivo): da un lato, abbiamo il Vertice Strutturale, nel quale sono preponderanti tutti quei fattori di natura non-funzionale e non direttamente plasmati dalla selezione naturale, ma che nondimeno concorrono al processo evolutivo. Il Vertice Strutturale è il dominio dei processi di costruzione degli organismi (embriogenesi), è il fulcro da cui partono i vincoli di natura fisica e chimica che incanalano e frenano la potenziale esuberanza della selezione naturale. Ad esempio, il fatto che gli animali acquatici abbiano sovente una forma idrodinamica è un prodotto della selezione naturale (il successo differenziale, protratto nel tempo, di individui con quella forma in quell'ambiente, rispetto ad individui con forme alternative), ma il motivo per cui tale forma sia proprio quella fusiforme e non altre è prima di tutto un vincolo strutturale di natura fisica (le leggi dell'idrodinamica).
Infine, e l'ho collocato in fondo solamente perché è il mio ambito preferito, abbiamo il Vertice Storico, ovvero, l'insieme dei fattori che influenzano l'evoluzione in virtù delle contingenze storiche ereditate dagli organismi. Il Vertice Storico è il dominio della sistematica, dato che noi classifichiamo gli organismi in base alle somiglianze derivanti dalla comune discendenza da antenati dotati di tali somiglianze, e non per attributi di natura funzionale (per questo, ad esempio, classifichiamo i delfini come mammiferi, e non come squali, nonostante che, nella forma del corpo, un delfino ricordi più uno squalo che un bovino). Il vincolo storico è la causa di moltissimi attributi degli organismi, altrimenti “poco chiari”. Noi abbiamo cinque dita nelle mani non per un qualche “vantaggio” intrinseco che quel numero di dita conferisce alla specie umana, ma solamente perché quel carattere è stato ereditato, senza mutare, ininterrottamente per 300 milioni di anni, in animali nostri antenati, che durante questo lunghissimo intervallo di tempo hanno vissuto in ambienti con condizioni funzionali e strutturali spesso molto diverse tra loro. Può essere che in origine, quell'attributo sia stato plasmato dalla selezione naturale, ma la sua presenza oggi nei nostri corpi è prima di tutto un vincolo storico, un'eredità di qualcosa comparso molto indietro nel passato. Al tempo stesso, è interessante constatare come la struttura scheletrica della mano abbia una geometria che allude a vincoli fisico-strutturali. Questo esempio dimostra che ogni prodotto dell'evoluzione è una sintesi di fattori provenienti dai tre vertici dell'unico triangolo.
Come accennato prima, difatti, i tre vertici non sono ambiti slegati ed indipendenti bensì coesistono e si influenzano a vicenda: l'Evoluzione è, infatti, il continuo avvicendarsi e mescolarsi di fattori storici, strutturali e funzionali, ogni volta con modi e importanza differenti a seconda delle condizioni. Per questo, non è possibile comprendere ed apprezzare l'evoluzione se non si ha piena consapevolezza della sua natura tricuspidata, della commistione inscindibile di fattori strutturali “atemporali” dovuti all'invarianza delle leggi della fisica e della chimica a cui ogni organismo deve sempre sottostare, di fattori funzionali adattativi che “premiano” gli individui con il maggior successo riproduttivo in quel preciso momento e luogo, e di fattori storici, di eredità pre-esistenti che incanalano e indirizzano lungo determinati percorsi il destino evolutivo di ogni specie.

Tornando alla domanda iniziale, perché esistono gli “altri”, così simili eppure diversi da ognuno di noi? Perché ognuno di noi è imparentato ad ogni altra forma di vita, in quanto tutti prodotti da un processo di diversificazione comune (primo vertice), intrinseco alla struttura del codice genetico comune (secondo vertice), il quale, data la sua non-riconducibilità diretta dalle leggi della chimica, deve essere stato ereditato da un ancestrale progenitore comune (terzo vertice).

[1] C.R. Darwin, Taccuini 1836-1844 [Taccuino Rosso, Taccuino B, Taccuino E, , ed. it. a cura di Telmo Pievani, Prefazione di Niles Eldredge, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 218 (ed. or. integrale: Paul H. Barrett, Peter J.Gautrey, Sandra Herbert, David Kohn e Sydney Smith [eds.], Charles Darwin’s Notebooks, 1836-1844: Geology, Transmutation of Species, Metaphysical Enquiries, Cornell University Press, Ithaca 1987).
[2] Stephen J. Gould, La struttura della teoria dell’evoluzione, ed. it. a cura di T. Pievani, Codice edizioni, Torino 2003, p. 1311 (ed. orig. The Structure of Evolutionary Theory, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge-London 2002).

domenica 13 gennaio 2013

Vademecum cognitivo III. Cognizione, evoluzione e etologia cognitiva

Discontinuità tra "uomo e "animali"? No, grazie.
Il cerchio rosso segnala il pensiero te(le)ologico che un anonimo lettore ha ritenuto di dover immortalare (a matita) sulla copia di un libro in prestito bibliotecario dalla Biblioteca Civica Centrale locale: tutta la filogenesi fino a Homo neanderthalensis è costituita da "animali", mentre H. sapiens si fregia del titolo di "Adamo". Il libro, clamorosamente frainteso dall'anonimo lettore, è il seguente: Niles Eldredge e Ian Tattersall, I miti dell'evoluzione umana, Boringhieri, Torino 1984, pp.  166-167 (ed. orig. The Myths of Human Evolution, Columbia University Press, New York 1982).
Ultimo appuntamento con le anticipazioni dal mio libro. Dopo esserci brevemente occupati dei punti fondamentali delle scienze cognitive, e aver passato in rassegna pro e contra della psicologia evoluzionistica, cerchiamo questa volta di offrire qualche spunto in merito all'etologia cognitiva. Riprendiamo là dove il nostro discorso ci aveva portati, ossia da alcuni preconcetti che ristagnano in determinati ambiti cognitivisti; dopo aver brevemente considerato i giudizi (infelici) di Piattelli Palmarini e Fodor, questa volta trattiamo alcuni dei corollari antidarwiniani delle tesi di Merlin Donald.
L’ultima sezione comprende invece un richiamo ad una maggiore integrazione delle scienze cognitive umane con una prospettiva evoluzionistica e con l’etologia cognitiva. È necessario uscire dall’impasse di un solipsismo cognitivista antropocentrico, promuovere lo studio di un più solido backgroud paleontologico e paleoantropologico ed estendere il confronto cognitivo alle culture animali sulla base dei criteri dell’etologia cognitiva, che rappresenta a tutt’oggi
«una delle supreme sfide scientifiche del nostro tempo ed esige da noi il massimo sforzo di indagine inventiva e critica» (da Donald R. Griffin, Menti animali, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 335. [ed. or. Animal Minds, The University of Chicago Press, Chicago 1992]).
Nel campo delle scienze cognitive, fuori dalla cornice del tempo profondo nulla ha senso. 
Buona lettura! 

P.S.: Mi limito ad aggiungere due chiarimenti banali, ma senz'altro necessari, sui preconcetti ideologici diffusi nelle discipline trattate in questa serie di post. Innanzitutto, la ricerca sulla cognizione umana, come tutte le scienze biologiche, non è esente da infiltrazioni ideologiche o te(le)ologiche. Riguardo alla lista dei preconcetti più diffusi si possono almeno citare l'agenda dichiaratamente decentrata sul versante teologico della cosiddetta neuroteologia, e le interpretazioni cognitiviste spiccatamente apologetiche (secondo posizioni riassumibili grosso modo come segue: “comprendiamo il mondo in questo modo perché un’intelligenza superiore ci ha creati così / ha condotto da sempre l’evoluzione per giungere a noi / ha agito in modo da intervenire nella storia evolutiva per farci così / ha fatto sì che noi avessimo le capacità cognitive per rilevare la sua presenza nel mondo, altrimenti non rilevabile”). Entrambi i casi sono ben lontani dall’ambito della ricerca scientifica, ma rischiano di confondere lo studioso e ancor di più il lettore interessato. Nondimeno, la presenza di tali pregiudizi aprioristici non inficia il modello sperimentale e scientifico di base della ricerca cognitivista.
In secondo luogo, se pure rileviamo che la psicologia evoluzionistica classica incontra una serie di problemi (in particolare nella formulazione di storie adattazioniste ad hoc), ciò non legittima alcuna opera di demolizione e ricostruzione a piacere del concetto di evoluzione, allo scopo di modellare quest'ultimo sulla base della propria idea personale di come avrebbe avuto luogo l'evoluzione della mente umana preistorica. Accorgersi dell'esistenza di tali problemi non autorizza nemmeno la critica sterile e filosofica del concetto di evoluzione (come hanno fatto invece Piattelli Palmarini e Fodor). Piuttosto, la presenza di tali ostacoli dovrebbe incentivare la ricerca di una migliore comprensione del paradigma evoluzionistico contemporaneo e promuovere una maggiore integrazione con la biologia evoluzionistica e con la Sintesi moderna (o Sintesi estesa) dell'evoluzionismo.

Un antidarwinismo latente? Cognizione ed evoluzione secondo Donald 

ResearchBlogging.org
I preconcetti assolutizzanti basati su quella che è considerata come l’inarrivabile architettura neurale dell'organizzazione cerebrale umana sono purtroppo ben rappresentati in una parte delle scienze cognitive. Un esempio eloquente lo fornisce, ad esempio, l’opera di Merlin Donald, il quale proprio sulla base dei suddetti apriorismi si è spinto fino a mettere in dubbio
«l’attuale collocazione [dell’uomo] nell’ambito della cronologia del processo evolutivo»,
cioè tra i primati, e ha persino giudicato
«un errore tassonomico assurdo e grossolano lo schema di classificazione che ha privilegiato gli aspetti anatomici e sminuito l’importanza della mente» [1].
Tutto ciò è insostenibile da un punto di vista scientifico, paleontologico e genetico e rimane discutibile anche da un punto di vista cognitivo; d’altra parte l’autore si è chiamato fuori dai modelli scientifici verificabili nel momento stesso in cui ha affermato che
«l’universo darwinistico è troppo angusto per comprendere l’umanità» [2].
Il giudizio di Donald è inoltre strumentale ad un’interpretazione «essenzialmente animistica» espressa dai manufatti paleolitici, associati a quelli di altre «documentate culture dell’età della pietra» [3], probabilmente sottintendendo quelle attuali: non siamo poi lontani dalla scala naturæ dell’antropologia evoluzionistica vittoriana. Mantenere quella scala naturæ sostituendo ad una divinità le funzioni cognitive e il cervello umano tout court segna inequivocabilmente il confine invisibile tra autocelebrazione ideologica e scienza.
Attenzione però, perché anche se critichiamo il rifiuto di una scala assoluta di “miglioramenti” a favore di un’indagine che valuti l’adozione di schemi di variabilità complessa, ciò non vuol dire che un incremento delle capacità cognitive, e un cambiamento quantitativo nelle espressioni materiali delle potenzialità cognitive, non possano aver avuto luogo in un passato più risalente. In questo senso vale la pena citare la concezione di Steven Mithen relativa ad una maggiore fluidità nel processo modulare dei dati, che rifiuta l’incapsulamento rigido originariamente proposto da Fodor. Secondo questa proposta, le miriadi di moduli rigidamente separati avrebbero contraddistinto i primati nel passato filogenetico, mentre la peculiarità della cognizione di Homo sapiens sussisterebbe invece in uno shift continuo e in una costante interazione (magari anche solo a livello di intensità) tra diverse capacità tecniche, linguistiche e motivazionali [4]. Porre in essere ingenue e superflue critiche all’evoluzione è invece sinonimo di pigrizia intellettuale.

«Etnografia della cultura in specie non-umane»

Purtroppo, anche senza scendere nel campo specifico dell’analisi neurologica, lo studio scientifico delle capacità cognitive riflette ancora due orientamenti contrapposti, uno “cartesiano” e uno “darwiniano”, secondo l’efficace distinzione operata dal primatologo Cristophe Boesch, dei quali il primo opera in gran parte al di fuori dei paradigmi scientifici e assolutizza le capacità del cervello umano rispetto agli ineludibili rapporti tra ambiente, nicchie ecologiche ed evoluzione delle abilità cognitive [5]. Fatte salve le palesi caratteristiche distintive della cultura e della cognizione umana, non è più sostenibile un’alterità dell’uomo rispetto non solo alle antropomorfe [6] ma alle altre scimmie (e anche agli animali in generale), tant’è vero che ormai è possibile parlare, come ha fatto Boesch, di una «etnografia della cultura in specie non-umane» [7]. 
L’indagine sulla cognizione umana, sia essa applicata alla religione o meno, deve pertanto coltivare le relazioni interdisciplinari con lo studio dell’evoluzione del senso estetico e del senso estetico animale [8], con l’etologia cognitiva, con la comparazione dei modelli umani con la cognizione, la coscienza e la moralità degli altri animali [9]. Al contrario di quanto possano far credere certe tesi te(le)ologiche, non esiste alcuna discontinuità tra “uomo” e “animali”:
«Non c’è però nessun momento in cui si possa dire: “È qui che c’è stata la separazione”, nessun grande momento di conversione sulla strada di Damasco, che abbia reso, d’un tratto, umani i non umani» [10], 
ma solo un’accumulazione graduale di caratteristiche particolari che hanno dato come risultato contingente ciò che siamo oggi – parallelamente, altre caratteristiche hanno reso altri animali, nostri parenti filogenetici più o meno vicini, quello che sono oggi. 

Zoomorfizzazione: scimpanzé, cascate e temporali 

Tralasciamo per il momento i noti casi di comunicazione, apprendimento e problem-solving relativi a pappagalli cenerini, corvi, delfini e polpi e concentriamoci sui nostri parenti prossimi. La celebre primatologa Jane Goodall, che ha seguito e studiato per più di quarant’anni alcune comunità di scimpanzé in Africa, ha di recente riaffermato in un’intervista quanto segue: 
«gli scimpanzé mettono spesso in atto manifestazioni ritmiche incredibili, simili alla danza, quando giungono nei pressi di una cascata situata nelle montagne [a Gombe, in Tanzania] che precipita per circa venticinque metri su un greto sassoso e produce un frastuono roboante. Il loro pelo si rizza, quindi iniziano a ondeggiare anche per venti minuti. Qualche volta succede che finiscono per mettersi seduti a osservare l’acqua, e si vedono i loro occhi seguire il flusso della cascata. Se potessero parlare tra loro delle sensazioni che scatenano queste manifestazioni – che penso debbano somigliare a meraviglia o timore reverenziale – la cosa si potrebbe facilmente trasformare in una forma di religione, di adorazione degli elementi» [11]. 
Stewart Guthrie suggerisce che determinate manifestazioni emotive messe in atto in particolari condizioni dagli scimpanzé (ad es. durante un temporale o, come abbiamo visto, di fronte ad una cascata), siano inquadrabili come corrispettivo dell’antropomorfismo, inteso dallo studioso come «[…] risultato di una strategia [“involontaria e perlopiù inconscia”] della percezione» (si pensi alla pareidolia) [12]. 

Guthrie etichetta questo fenomeno come «zoomorfizzazione» cognitiva (e in nuce già religiosa) degli elementi esterni:
«In quanto minacciose, queste performance hanno origine dall’interpretazione del temporale da parte degli scimpanzé come un elemento vivo, che può essere scacciato allo stesso modo dei babbuini, dei leopardi e di altri scimpanzé […]. Se la religione è antropomorfismo, allora l’analogia nel mondo animale è lo zoomorfismo: l’attribuzione di caratteristiche animali a ciò che non è animale» [13]. 
Occorre però fare attenzione a semplificazioni eccessive e imprecise: le antropomorfe non sono “antenati” dell’uomo allo stato attuale, come residui primitivi o, peggio ancora, «fossili viventi». Già Darwin aveva messo in guardia dal comune errore di ritenere le scimmie attuali come antenati diretti dell’uomo:
«Non dobbiamo cadere nell’errore di supporre che il primitivo progenitore di tutto il ceppo degli scimmiadi [sic], incluso l’uomo fosse identico, o anche strettamente somigliante, a qualche scimmia superiore o inferiore esistente» [14].
Le antropomorfe hanno, come noi H. sapiens e tutti gli esseri viventi, una loro storia, frutto di contingenze evolutive, che condividiamo per la maggior parte, ma da comprendere coevolutivamente con il loro ambiente. Gli scimpanzé (i nostri parenti più prossimi, con i quali condiviamo più del 98% del codice genetico; il 99,9999997% della nostra storia evolutiva è condiviso con le antropomorfe africane) [15] non sono nostri antenati diretti. Condividiamo un comune antenato la cui origine è rintracciata geneticamente e paleontologicamente grosso modo a 6-7 milioni di anni fa; lo studio comparato del comportamento e delle capacità cognitive può fornire preziosi indizi sul nostro passato condiviso.

Conclusioni 

Si dice spesso che, in quanto taxon, siamo unici; non è vero. Non siamo stati soli. La stessa specie attuale del genere Homo non è che il frutto di una recente contingenza storica; in precedenza l’unicità di una sola specie di ominide/ominine non trova riscontro nella documentazione fossile. In questa moltitudine di «diversamente sapiens», secondo l’incisiva definizione di Telmo Pievani [16], non esiste una direzione evolutiva o culturale prestabilita (e ciò vale per noi come per l’intero regno animale), un “albero” orientato al presente culturalmente condizionato dalla Storia (con la maiuscola), ma piuttosto un cespuglio evolutivo formato da 
«molte pre-istorie con la minuscola, la cui trama era composta da una molteplicità di forme umane conviventi: ciascuna con propri adattamenti e riadattamenti specifici, con un universo cognitivo, emotivo e comunicativo probabilmente diverso, con abitudini e abilità figlie di percorsi storici cugini in territori ed ecosistemi differenti» [17]. 
Il discorso integrativo tra espressioni cognitive e empatico-simboliche e traduzione filogenetica è perciò assai complesso e articolato (come stabilire le stesse griglie di valutazione, per forza di cose antropocentriche?), irriducibile ad un unico punto di vista, ma di certo non può prescindere dall’analisi delle espressioni cognitive negli Homininae estinti (deducibili in vario modo a partire dai resti fossili e archeologici) e, soprattutto, dai nostri più vicini parenti filogenetici viventi [18]. 

[1] Merlin Donald, L’evoluzione della mente, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 441. Cfr. inoltre ivi, p. 420 (Garzanti, Milano 19961, 20042; ed. or. Origins of the Modern Mind: Three Stages in the Evolution of Culture and Cognition, Harvard University Press, Cambridge 1991). 
[2] Ivi, p. 441.
[3] M. Donald, The Roots of Art and Religion in Ancient Material Culture, in Colin Renfrew e Iain Morley (eds.), Becoming Human: Innovation in Prehistoric Material and Spiritual Culture, Cambridge University Press, Cambridge 2009, pp. 95-103; p. 101.
[4] Cfr. Robert N. McCauley, Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford-New York 2011, pp. 92-93.
[5] Cristophe Boesch, The Ecology and Evolution of Social Behavior and Cognition in Primates, in Jennifer Vonk e Todd K. Shackelford (eds.), The Oxford Handbook of Comparative Evolutionary Psychology, Oxford University Press, Oxford-New York 2012, pp. 485-503. Bozza accessibile on line tramite il sito dell’autore: <http://www.eva.mpg.de/primat/staff/boesch/publications.html>.
[6] Paul Ehrlich, Le nature umane. Geni, Culture e prospettive, ed. it. a cura di T. Pievani, Codice edizioni, Torino 2005, pp. 85-201 (ed. or. Human Natures: Genes, Cultures, and the Human Prospect, Island Press, Washington 2000); C. Boesch, Away From Ethnocentrism and Anthropocentrism: Towards a Scientific Understanding of “What Makes Us Human”, in «Behavioral and Brain Sciences», 33, 2-3, 2010, pp. 86-87.
[7] C. Boesch, From Material to Symbolic Cultures: Culture in Primates, in Jaan Valsiner (ed.), The Oxford Handbook of Culture and Psychology, Oxford University Press, Oxford-New York 2012, pp. 677-692. Bozza accessibile on line tramite il sito dell’autore: <http://www.eva.mpg.de/primat/staff/boesch/publications.html>.
[8] Lorenzo Bartalesi, Estetica evoluzionistica. Darwin e l’origine del senso estetico, Carocci, Roma 2012.
[9] Donald R. Griffin, Menti animali, Bollati Boringhieri, Torino 1999 (ed. or. Animal Minds, The University of Chicago Press, Chicago 1992); sulla moralità si rimanda a rimandare alla breve descrizione di alcuni casi, e alle relative bibliografie cit., in Sam Harris, Il paesaggio morale. Come la scienza determina i valori umani, Einaudi, Torino 2012, pp. 213-214 (ed. or. The Moral Landscape: How Science Can Determine Human Values, The Free Press, New York 2010), e in T. Pievani, L’evoluzione della morale, in «Le Scienze. Edizione italiana di Scientific American», 526, giugno 2012, pp. 64-71.
[10] Robin Dunbar, La scimmia pensante. Storia dell’evoluzione umana, il Mulino, Bologna 2009, p. 211 (ed. orig. The Human Story: A New History of Mankind’s Evolution, Faber & Faber, London 2004).
[11] Jane Goodall, Jane della giungla, intervista condotta da Kate Wong, in «Le Scienze. Edizione italiana di Scientific American», 510, Febbraio 2011, pp. 64-67; p. 66 (pubbl. orig. come Jane of the Jungle, in «Scientific American», 303, 6, Dec. 2010). Sulle capacità e sulle interazioni altruistiche delle antropomorfe cfr. Vittorio Girotto, Dèi, morali e giustizie, in Girotto, Vittorio, Pievani, Telmo e Giorgio Vallortigara, Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin, Codice edizioni, Torino 2008, pp. 113-129; pp. 121-127. Per evitare di idealizzare troppo gli scimpanzé (così come ci si dovrebbe astenere dall’idealizzazione radicale dei comportamenti umani) cfr. Ian Tattersall, Il cammino dell’uomo. Perché siamo diversi dagli altri animali, Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 35-41 (Garzanti, Milano, 19981 e 20042; ed. orig. Becoming Human: Evolution and Human Uniqueness, Harcourt Brace, New York 1998).
[12] Stewart Guthrie, Faces in the Clouds: A New Theory of Religion, Oxoford University Press, Oxford-New York 1993, p. v; dello stesso autore cfr. l’importante e precursore art. intitolato A Cognitive Theory of Religion [and Comments and Reply], pubblicato in «Current Anthropology», 21, 2, Apr., 1980, pp. 181-203.
[13] S. Guthrie, Faces in the Clouds, cit., p. 202.
[14] Charles Robert Darwin, L’origine dell’uomo, Newton Compton, Roma 1990, p. 181 (1972 1a ed.; ed. orig. The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex, John Murray, London 1871). Cfr. Giulio Barsanti, Una lunga pazienza cieca. Storia dell’evoluzionismo, Einaudi, Torino 2005, p. 279.
[15] I. Tattersall, Il cammino dell’uomo, cit., p. 101.
[16] Telmo Pievani, La vita inaspettata. Il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011, p. 44.
[17] Ivi, p. 47.
[18] Cfr. Dean Falk, Lingua madre. Cure materne e origini del linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 152-161 (ed. or. Finding Our Tongues: Mothers, Infants and the Origins of Language, Perseus/Basic Books, New York 2009).

Artt. indicizzati in Research Blogging:

Guthrie, S. (1980). A Cognitive Theory of Religion Current Anthropology, 21 (2), 181-203 DOI: 10.1086/202429
Boesch C (2010). Away from ethnocentrism and anthropocentrism: towards a scientific understanding of "what makes us human". The Behavioral and brain sciences, 33 (2-3), 86-7 PMID: 20550734

lunedì 7 gennaio 2013

Vademecum cognitivo II. Lineamenti di psicologia evoluzionistica

Immagine: Mr_Pipo_02_Mind, da Wikipedia. Autore: Nevit
Il secondo post del “vademecum cognitivo” (qui la prima parte dedicata alle scienze cognitive) estratto, riadattato e sintetizzato dal mio libro (ultime fasi: si decide la copertina!). Questa volta presento un panorama (in termini molto generali) incentrato sulla psicologia evoluzionistica. Dato che la sezione finale sull’etologia cognitiva esondava dall’alveo dei contenuti del post ho deciso di spostare il testo in eccesso in un terzo post, da pubblicare a breve.

Buona lettura!

Post scriptum: questo post è dedicato a Andrea Cau del blog Theropoda, che ha avuto la pazienza, due anni e mezzo or sono, di spiegarmi con precisione e attenzione dove avessi sbagliato nella mia interpretazione riguardo al ruolo della storia nell'evoluzione. Nonostante il mio background di interessi scientifici, ero rimasto abbagliato da alcuni infondati pregiudizi dettati dall'accademia umanistica universitaria, e non ho difficoltà ad affermare di aver sostenuto all'epoca posizioni perlopiù imprecise. Come già ricordato altrove in questo blog, nel caso del mio giudizio in merito alle posizioni di Piattelli Palmarini e Fodor (delle quali ci occupiamo più sotto), ero incappato nel «pregiudizio dell’autorità», così definito da Michael Shermer: «la tendenza ad assegnare valore alle opinioni di un’autorità, specialmente nella valutazione di qualcosa di cui sappiamo molto poco» (da The Believing Brain: From Spiritual Faiths to Political Convinctions. How We Construct Beliefs and Reinforce Them as Truths, Robinson, London 2012, p. 323).
Ma la ricerca personale è anche fatta di errori e di sviste e, per fortuna, di lunghi studi, di approfondimenti e di chiarimenti; così va la scienza. Come ha notato Gilberto Corbellini,
«[…] i primi scienziati sperimentali erano consapevoli che, riportando anche gli esperimenti che non avevano avuto successo, ottenevano l’effetto di stabilire la loro credibilità come uomini obiettivi e umili […]. Dove i fallimenti resi pubblici confermano sia i limiti umani degli attori sia il potere degli spettatori nel controllare la reputazione dei protagonisti. […] La vulnerabilità degli attori e la loro trasparenza rispetto a pubblici fallimenti instillano fiducia nel sistema. Al contrario di quanto accade nei sistemi totalitari, che non possono permettersi di dimostrarsi incapaci in qualcosa» [da Scienza, quindi democrazia, Einaudi, Torino 2011, p. 37].
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Moduli e selezione

Il modello modulare proposto da Jerry Fodor (ossia una descrizione della struttura mentale nella quale determinati moduli sono deputati all’elaborazione di dati in modalità fisse e piuttosto rigide) occupa un ruolo centrale nella rivoluzione cognitiva successiva agli anni ’60 del Novecento. In sostanza, ha risposto all’esigenza di operare nel campo del funzionamento della mente (appannaggio storico della filosofia) con uno strumento scientifico.
Eppure questa sua idea, con tutti i corollari che conseguono, risale nella sua formulazione originaria ai primi anni ’80 del secolo scorso. Molte caratteristiche che componevano il quadro fodoriano sono state modificate o superate; spesso però la continua attenzione bloccata sul modello di base (in parte superato) e il ristagno di determinati punti di vista in tutto o in parte erronei hanno arrestato lo sviluppo e il confronto interdisciplinare. Tra i luoghi diventati comuni (anche all’interno del campo di studio) citiamo, ad esempio, la confusione terminologica riguardante l’uso spaziale del termine "modulo" all’interno delle zone cerebrali (la modularità sarebbe piuttosto una funzione e non una unità spaziale da identificare “topograficamente” nell’organo cerebrale) [1].
Buona parte dell’attuale psicologia evoluzionistica sembra difatti scontrarsi ancora con alcuni limiti concettuali e metodologici rilevanti [2]. Questo vale per la codificazione di un numero circoscritto e universalmente diffuso di meccanismi cognitivi per l’elaborazione dei dati e la risoluzione dei problemi che soggiacciono ai comportamenti umani, adattativamente filtrati dalla selezione naturale. In particolare, nella storiografia dei modelli psicologico-evoluzionistici si è visto all’opera quello che Stephen J. Gould e il genetista Richard Lewontin, in un celebre articolo risalente alla fine degli anni Settanta, hanno definito come
«un programma di ricerca che ha le sue radici in una nozione resa popolare da A.R. Wallace e A. Weismann (ma non […] da Darwin [il quale propendeva per un approccio pluralista. N.d.A.]) verso la fine del XIX secolo: quella della quasi onnipotenza della selezione naturale a forgiare le forme organiche e il migliore dei mondi possibili. Questo programma», 
continuano i due autori,
«considera la selezione naturale talmente potente e le costrizioni su di essa così poche, che la produzione diretta dell’adattamento attraverso il suo operato diviene la causa principale di tutte le forme organiche, delle funzioni e dei comportamenti» [3].
Non si può fare a meno di evidenziare che, proprio da una prospettiva evoluzionistica, la mente in generale non appare bloccata in moduli autonomi, ma rappresenta al meglio una «predisposizione flessibile all’apprendimento in contesti evolutivi diversi» [4], ossia, nelle parole di Telmo Pievani,
«più che un catalogo di “soluzioni” per problemi adattativi preesistenti, le facoltà mentali rappresentano, come aveva suggerito Darwin, una riserva di riadattamenti potenziali» [5]. 
La critica più comune rivolta nei confronti della psicologia evoluzionistica del passato recente è stata che i moduli che sono specifici per dominio (ossia, che trattano pacchetti di dati distinti anche all’interno della medesima facoltà; ad esempio la percezione dei volti è differente rispetto a quella del colore, ecc.) [6] non riuscirebbero a spiegare l’apprendimento di funzioni e azioni del tutto nuove: secondo il modello classico, solo input specifici possono essere elaborati in un particolare modulo.
Esisterebbe invece, come notano H. Clark Barrett e Robert Kurzban sulla scorta di Dan Sperber, una differenza tra input propri e reali:
«gli stimoli che incontrano i criteri del dispositivo [modulare] possono nondimeno essere elaborati, anche se non erano presenti nell’ambiente ancestrale [di origine]» [7].
Così, l’atto di guidare un’automobile può fare affidamento sui sistemi per evitare urti con altri oggetti, mentre i sistemi strategici di cognizione sociale possono essere ingaggiati durante le partite a scacchi e la distinzione differenziale degli oggetti esterni in quanto utensili o soggetti animati può essere utilizzata per identificare le parole e leggere [8].
Lo stesso Fodor ha ammesso i problemi della sua modellizzazione ideale [9]: quel tipo peculiare di modularità non avrebbe potuto spiegare che una parte piuttosto contenuta dei processi mentali. Altri psicologi evoluzionisti (tra cui, ad esempio, John Tooby e Leda Cosmides) hanno perciò proposto che, contrariamente alla tesi fodoriana per cui la modularità si ritiene essere limitata ai soli sistemi periferici (come la vista), una gran parte (o la totalità, a seconda dell’interpretazione) dei sistemi di elaborazione di dati della mente potrebbe essere di fatto modulare. Ad oggi sono stati proposti come rappresentanti di una “modularità massiva”: il rilevamento di impostori; il ragionamento; il linguaggio; la teoria della mente (che permette di adottare un atteggiamento intenzionale nei confronti di altri agenti); l’orientamento nello spazio; i sistemi emotivi quali paura, disgusto, gelosia, ecc.; il riconoscimento dei volti, ecc. [10]. Il concetto di modularità massiva presuppone l’esistenza di dozzine o centinaia di circuiti neurali distinti, che nel loro insieme mediano tutte le attività cognitive principali, ognuna delle quali si è evoluta per fronteggiare determinate attività dell’ambiente preistorico [11].
Nella sintesi offerta da Barrett e Kurzban tale punto di vista, che rifiuta l’annoso dibattito tra sostenitori delle conoscenze innate (geneticamente determinate) ed emergenza durante lo sviluppo, abbraccia invece la teoria dei sistemi di sviluppo (ovvero lo studio delle interazioni causali tra geni e ambiente nello sviluppo dal gamete all’organismo maturo) e afferma che, a differenza di un fraintendimento assai diffuso nella letteratura critica del passato recente, la modularità non equivale al determinismo genetico [12]. Anche se permangono i punti critici della psicologia evoluzionista, si tratta di una prospettiva euristicamente più promettente.

Gli errori di Fodor (e di Piattelli Palmarini)

Come si traduce questo complicato quadro per lo studioso interessato all’argomento? Documentarsi significa impegnarsi maggiormente per approfondire il dibattito corrente ed eludere i cul-de-sac imposti dall’aderenza dogmatica alle posizioni modulari [13], evitando di limitarsi ad azzerare l’intero contesto biologico-evoluzionistico per disfarsi di una cosa ritenuta fastidiosa (ma senza accorgersi di gettare via ciò che è fondamentale), come sembra abbia fatto Fodor. Difatti, una certa insoddisfazione dello studioso nei confronti degli esiti euristici della sua proposta modulare ha recentemente trovato espressione in una serie di critiche all’evoluzionismo tout court. Il caso è interessante, perché denuncia come una conoscenza sui generis del contesto evoluzionistico (e soprattutto della complessità delle varie interazioni storico-biologiche) possa tradursi in improprie generalizzazioni extra-disciplinari.
Un paio di anni fa Fodor ha dato alle stampe un volume scritto insieme a Massimo Piattelli Palmarini, intitolato Gli errori di Darwin [14]. In questo libro, i due autori tentano di subordinare interamente il mutamento biologico ai meri vincoli fisico-matematici (e genetici) dello sviluppo biologico degli organismi [15], come peraltro già fece D’Arcy W. Thompson (citato nel loro libro, ma senza mai fare diretti e precisi riferimenti alle pagine della sua fondamentale opera Crescita e forma, pubblicata nel 1917) [16]. Per quanto sia necessario dire che nessuno dei due autori neghi o contesti l’evoluzione, Piattelli Palmarini e Fodor ipotizzano che di fronte a ciò che essi reputano l’impossibilità di fornire cornici teoriche falsificabili per la selezione naturale e l’adattamento, sarebbe più corretto limitare tout court l’evoluzionismo ad una serie di narrazioni storiche ex post [17]. Essi ritengono che le «spiegazioni adattamentiste», ossia relative a discendenza con mutazioni più selezione naturale, applicate all’evoluzione da parte delle scuole neodarwiniste, non possano spiegare la teoria dell’evoluzione in quanto sistema “nomologico”.
Quello espresso da Piattelli Palmarini e Fodor è un giudizio piuttosto infelice, perché non solo sembra ancora avere come orizzonte di riferimento il fisicalismo determinista delle leggi fisiche, ma non considera l’epistemologia, il quadro delle scienze biologico-evoluzioniste e il modo con il quale procede la ricerca scientifica. Ora, il neodarwinismo (o più correttamente Sintesi Moderna) è un modello risalente alla metà del Novecento, e da allora è stato costantemente aggiornato, riadattato e integrato [18], rendendo perciò vano qualunque anacronistico tentativo di critica (segnaliamo in particolare lo sviluppo della Evolutionary Developmental Biology, in sigla Evo-Devo, la contingenza dei vincoli storici di Stephen J. Gould, la critica costruttiva dei concetti evoluzionistici di “adattamento” e “pre-adattamento” di Gould e Elisabeth S. Vrba, la doppia gerarchia e ai livelli biologici interagenti di Niles Eldredge, la complessità sistemica di Susan Oyama, l’interpenetrazione costruttiva fra organismi e ambienti di Lewontin, ecc.). È altrettanto necessario rilevare che Fodor e Piattelli Palmarini sbagliano obiettivo delle loro invettive, in quanto ciò a cui si rivolgono non sembra essere tanto l’evoluzionismo corrente, nella sua formulazione più vasta all’interno del paradigma evoluzionistico contemporaneo, ma quella particolare conformazione teorica che si affida sovente al determinismo panselezionista, più o meno limitante, già stigmatizzato nella citazione ricordata di Gould e Lewontin.
Non è compito del presente post la confutazione passo a passo dei vari fraintendimenti che animano il testo o riassumere tutti gli aggiornamenti più o meno recenti apportati al paradigma evoluzionistico [19]. Ci limitiamo a notare il ruolo della retrodizione nello studio della biologia evoluzionistica (ossia, predizioni basate sul metodo scientifico e rintracciate in conseguenze già accadute nel passato, con ripercussioni testabili sul presente): come ha scritto Niles Eldredge,
«noi prediciamo pattern di storia evolutiva che dovremmo scoprire se le nostre congetture sulla natura dei processi evolutivi sono corrette» [20].
Queste parole rappresentano una delle migliori risposte ai dubbi espressi, nel passato recente, sullo statuto epistemologico dell’evoluzione anche in ambito scientifico-filosofico; si pensi ad esempio al giudizio inizialmente formulato da Karl Popper (1902-1994), comunque riveduto e corretto in un secondo tempo (un fatto a cui solitamente viene dato poco risalto, preferendo invece la pars destruens popperiana) [21].
In conclusione, come ha sagacemente notato H.C. Barrett, mentre Piattelli Palmarini e Fodor elaboravano le loro spropositate critiche filosofiche alla selezione naturale,
«i batteri intorno al mondo continuavano ad evolvere la resistenza agli antibiotici. […] Credo che il mondo sarebbe un posto migliore se i batteri leggessero più filosofia» [22].
[1] H. Clark Barrett e Robert Kurzban, Modularity in Cognition: Framing the Debate, in «Psychological Review», 113, 2006, pp. 628-647; p. 641.
[2] Cfr. Telmo Pievani, Introduzione alla filosofia della biologia, Laterza, Roma-Bari 2010 (2005 1a), in part. pp. 217-222; David J. Buller, Adapting Minds: Evolutionary Psychology and the Persistent Quest for Human Nature, The Massachusetts Institute of Technology Press, Cambridge 2005.
[3] Gould, Stephen J. e Richard Lewontin, I pennacchi di San Marco e il paradigma di Pangloss. Critica del programma adattazionista, tr. it. di Marco Ferraguti, disponibile on line presso Piccola Biblioteca on line (www.einaudi.it), Einaudi, Torino 2001, pp. 1-28; p. 6 (art. pubbl. orig. come The Spandrels of San Marco and the Panglossian Paradigm: A Critique of the Adaptationist Programme, in «Proceedings of the Royal Society of London B», 205, 1979, pp. 581-598).
[4] T. Pievani, Introduzione alla filosofia della biologia, cit., p. 222 (l’autore fa qui riferimento a Paul E. Griffiths, What Emotions Really Are: The Problem of Psychological Categories, The University of Chicago Press, Chicago 1997).
[5] Ibidem.
[6] Maurizio Cardaci, Psicologia evoluzionistica e cognizione umana, il Mulino, Bologna 2012, p. 98.
[7] H. Clark Barrett e Robert Kurzban, Modularity in Cognition: Framing the Debate, in «Psychological Review», 113, 2006, pp. 628-647; p. 635.
[8] Ibidem.
[9] Cfr. J. Fodor, La mente non funziona così. La portata e limiti della psicologia computazionale, Laterza, Roma-Bari 2001 (ed. or. The Mind Doesn’t Work That Way: The Scope and Limits of Computational Psychology, The Massachusetts Institute of Technology Press, Cambridge 2000).
[10] H.C. Barrett e R. Kurzban, Modularity in Cognition, cit., p. 630.
[11] Cfr. M. Cardaci, Psicologia evoluzionistica e cognizione umana, cit., passim.
[12] H.C. Barrett e R. Kurzban, Modularity in Cognition, cit., p. 639.
[13] Seguire i presupposti fodoriani, senza riferimenti ulteriori alla letteratura cognitivista e psicologico-evoluzionistica, può condurre alla comprensione che i moduli formulati secondo norme non conformi alle tesi fodoriane originarie possano apparire «intrinsecamente contradditor[i], perché non hanno il livello di determinatezza necessario per poter essere tradotte in dispositivi meccanici»; in Felice Cimatti, Il possibile e il reale. Il sacro dopo la morte di Dio, Codice edizioni, Torino 2009, p. 21, nota n. 48. Il rischio, come nota l’autore, è proprio quello di incorrere in un potenziale vicolo cieco: «Ma se un modulo non è simulabile da un computer, allora non è un modulo, e se non è un modulo cade l’analogia mente-computer, e con essa tutta l’impostazione delle scienze cognitive».
[14] M. Piattelli Palmarini e J. Fodor, Gli errori di Darwin, Feltrinelli, Milano 2010 (ed. or. What Darwin Got Wrong, Farrar, Straus and Giroux, New York 2010).
[15] Ivi, p. 47.
[16] Cfr. ivi, pp. 89, 91 e 98. Per un inquadramento generale del pensiero di Thompson si rimanda a Stephen J. Gould, D’Arcy Thompson and the Science of Form, in «New Literary History», 2, 2, Winter 1971, pp. 229-258.
[17] M. Piattelli Palmarini e J. Fodor, Gli errori di Darwin, cit., pp. 185 e 209.
[18] Per approfondire si rimanda a Massimo Pigliucci e Gerd B. Müller (eds.), Evolution: The Extended Synthesis, The Massachusetts Institute of Technology Press, Cambridge 2010 e Telmo Pievani, An Evolving Reseach Programme: The Structure of Evolutionary Theory from a Lakatosian Perspective, in Aldo Fasolo (ed.), The Theory of Evolution and Its Impact, Springer-Verlag, Berlin 2011, pp. 211-228.
[19] Una revisione critica del volume si può leggere in Paul Myers, Fodor and Piattelli-Palmarini Get Everything Wrong, presso Pharyngula, 23 febbraio 2010. Due recensioni esaustive sono: Massimo Pigliucci, A Misguided Attack on Evolution, in «Nature», 464, 18 March 2010, pp. 353-354 e T. Pievani, Darwin, la terza via dell’evoluzione, in «Corriere della sera», 23 marzo 2010, p. 31. Ci limitiamo a segnalare l’analisi sul rapporto tra «prevedibilità invariabile» e «singolarità contingente» nelle scienze naturali, e nella paleontologia in particolare, presente in Stephen J. Gould, La struttura della teoria dell’evoluzione, ed. it. a cura di Telmo Pievani, Codice edizioni, Torino 2003, pp. 1666-1680 (cit. a p. 1672) (ed. orig. The Structure of Evolutionary Theory, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge-London 2002). Per motivi di spazio rimandiamo inoltre a Niles Eldredge, Ripensare Darwin. Il dibattito alla Tavola Alta dell’evoluzione, Einaudi, Torino 1999 (ed. orig. Reinventing Darwin: The Great Debate at the High Table of Evolutionary Theory, John Wiley & Sons, New York 1995) e Sean B. Carroll, Infinite forme bellissime. La nuova scienza dell’Evo-Devo, Codice edizioni, Torino 2006 (ed. orig. Endless Forms Most Beautiful: The New Science of Evo Devo and the Making of the Animal Kingdom, W.W. Norton & Co., New York 2005).
[20] Niles Eldredge, Le trame dell’evoluzione, a cura di T. Pievani, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, p. 252, nota n. 13 (ed. or. The Pattern of Evolution, W.H. Freeman & Co., New York 1999).
[21] Frank J. Sonleitner, What Did Karl Popper Really Say About Evolution?, in «Creation/Evolution», 6, 2, Summer 1986, pp. 9-14.
[22] H.C. Barrett, The Wrong Kind of Wrong: A Review of What Darwin Got Wrong by Jerry Fodor and Massimo Piatelli-Palmarini, in «Evolution and Human Behavior», 32, 201, pp. 76-78; p. 78.

Artt. indicizzati in Research Blogging:
Barrett HC, & Kurzban R (2006). Modularity in cognition: framing the debate. Psychological review, 113 (3), 628-47 PMID: 16802884
Gould, S. (1971). D'Arcy Thompson and the Science of Form New Literary History, 2 (2) DOI: 10.2307/468601
Pievani, T. (2012). An Evolving Research Programme: The Structure of Evolutionary Theory from a Lakatosian Perspective. In Fasolo, Aldo (ed.), The Theory of Evolution and Its Impact, Springer-Verlag, Berlin, 211-228 DOI: 10.1007/978-88-470-1974-4_14
Pigliucci, M. (2010). A misguided attack on evolution Nature, 464 (7287), 353-354 DOI: 10.1038/464353a
Sonleitner, Frank J. (1986). What Did Karl Popper Really Say About Evolution? «Creation/Evolution Journal», 6 (2), 9-14
Barrett, H. Clark. (2011). The Wrong Kind of Wrong: A Review of What Darwin Got Wrong by Jerry Fodor and Massimo Piatelli-Palmarini. «Evolution and Human Behavior», (32), 76-78
Gould, S., & Lewontin, R. (1979). The Spandrels of San Marco and the Panglossian Paradigm: A Critique of the Adaptationist Programme Proceedings of the Royal Society B: Biological Sciences, 205 (1161), 581-598 DOI: 10.1098/rspb.1979.0086

venerdì 4 gennaio 2013

Vademecum cognitivo I. Perché la gente crede ciò in cui crede?

Le Penseur, Auguste Rodin 1902 (Musée Rodin, Paris. Fonte: Wikipedia, autore: Daniel Stockman).
Ultimo giro di boa prima della pubblicazione del mio volume, e ultime anticipazioni. A grande richiesta ho deciso di proporre un conciso vademecum su scienze cognitive e dintorni, rimodellando e semplificando alcuni estratti dal testo in modo tale da poter proporre un discorso generale sulla cognizione e i suoi rapporti con l'evoluzione. Il prossimo post (l'ultimo della serie di anticipazioni) sarà invece incentrato su alcuni aspetti salienti della psicologia evoluzionistica e dell'etologia cognitiva.
«Come è possibile che esista il cervello, un organo strutturato in modo da risolvere il problema di come sia possibile che esista un organo strutturato in modo da risolvere problemi? […] il problema deve essere qui, sulla Terra, e la soluzione al problema del problema deve essere anche lei qui, sulla Terra».
Michele Luzzatto, Preghiera darwinana [1]
ResearchBlogging.org
Nell'ambito della cognizione umana una delle domande più interessanti dalle quali partire è "come e perché la gente possa credere in ciò in cui crede". Le prime risposte dotate di validità scientifica (così come della possibilità di ripetibilità sperimentale dei risultati), e che non fossero mere speculazioni filosofiche, sono giunte dalle scienze cognitive e dalla psicologia evoluzionistica.
In questi due ambiti disciplinari l'analisi delle credenze, di tipo religioso e non, si è sovente distinta come un campo privilegiato per studiare o spiegare determinati meccanismi soggiacenti alla cognizione umana.

Un primo confronto tra scienze cognitive e psicologia evoluzionistica

Le scienze cognitive vengono normalmente divise tra classiche o computazionali, con l’accento posto sul funzionamento della mente in quanto sistema di elaborazione di dati, e post-classiche, ossia maggiormente incentrate sul rapporto tra corpo e ambiente e sull’interazione delle reti neurali [2]. Abbiamo fatto riferimento all'esistenza della psicologia evoluzionistica. Rimarchiamo subito una differenza essenziale tra l’approccio cognitivista e quello psicologico-evoluzionista: semplificando, le scienze cognitive tendono a considerare la religione come un effetto secondario (by-product) delle naturali capacità cognitive, mentre la psicologia evoluzionistica la ritiene un adattamento funzionale sottoposto e modellato dalla selezione naturale a favore degli ipotetici benefici a livello di cooperazione sociale. In realtà la questione è molto più complessa; le posizioni degli studiosi di entrambe le discipline possono talvolta convergere oppure allontanarsi a seconda dei casi specifici [3]. Ad ogni modo, nella storia recente delle due discipline la psicologia evoluzionistica si è distinta per un approccio talvolta avvertito come troppo deterministico e difficilmente verificabile [4], mentre le scienze cognitive hanno tentato di offrire una spiegazione della religione come effetto secondario che si è prestato ad una modellizzazione maggiormente euristica [5].
Gli ostacoli principali che venivano rimproverati al programma della psicologia evoluzionistica corrente erano due: la difficoltà di rendere conto di caratteristiche non adattative (o malamente adattative) e il riferimento costante ad una preistoria durante la quale tutti i comportamenti umani oggi noti erano (positivamente) adattativi (qui sorge un problema tautologico: in che modo provare che qualcosa in merito al comportamento non ha mai avuto una funzione specifica e/o specificamente selezionata?).

Patternicity, Agenticity credenze

Limitiamoci per il momento al contesto cognitivo. In questo ambito,
«le credenze religiose si innescano su alcune esperienze che, nella vita quotidiana, tutti possono aver provato, fedeli e infedeli. Meccanismi cognitivi ed emotivi condivisi generano quelle [possono essere chiamate] “esperienze prereligiose”. Si tratta di tutte quelle esperienze in cui noi ci domandiamo se l’uomo possa avere un destino trascendente» [6].
La concezione di un «destino trascendente» (ovvero, la continuità della mente e della personalità in assenza del corpo) si basa in primo luogo sull’assunzione naturale (ma fallace) del dualismo corpo/mente (anima) [7], derivata da esperienze quotidiane come i sogni o determinate istanze neurofisiologiche. Se si vuole andare in profondità il primo nodo da sciogliere è invece la definizione stessa del “credere” (ad esempio nel caso citato, basare una serie di convincimenti sulla credenza nel dualismo tra mente/anima e corpo), ossia il fare affidamento su (e seguire incondizionatamente) fatti o convinzioni, senza pretendere necessariamente una verifica sulla quale poter basare la fiducia concessa, sospendendo il giudizio sull’attendibilità dell’eventuale convinzione o delle testimonianze in merito, oppure scartando le prove discordanti [8]. Quella che segue è la definizione di credenza proposta da Justin L. Barrett e da Jonathan A. Lanman: la credenza è
«lo stato di un sistema cognitivo che considera vera un’informazione (non necessariamente in forma proposizionale o esplicita) per la generazione di ulteriori pensiero e comportamento» [9].
La credenza così definita può essere classificata in due tipologie: riflessiva e intuitiva. La prima è il frutto della riflessione su certi fatti o argomenti, o dell’accettazione dell’autorità di qualcuno (non ha importanza ora la verifica fattuale o scientifica di tali credenze). La seconda «giung[e] automaticamente, non richied[e] un’attenta ponderazione e sembr[a] sorgere istantaneamente» [10]. Un processo che si compone dunque di un’azione inconscia (o automatica) che ha alle spalle la medesima evoluzione biologica e che, semplificando al limite consentito, si spiegherebbe con il reperire schemi soggiacenti e carichi di significato attraverso l’associazione di più elementi (quale che sia il significato, o la veridicità, risultante dall’unione di questi elementi: dal rilevare la presenza di un predatore nascosto nella foresta al credere all’esistenza degli alieni) e l’attribuzione di intenzionalità ad agenti esterni e naturali (o sovrannaturali).
Queste peculiarità cognitive sono state sinteticamente etichettate da Michael Shermer come patternicity, ossia la «tendenza a trovare schemi (patterns) carichi di significato in un contesto di disturbo significativo o insensato» [11], una propensione cognitiva non limitata agli esseri umani [12], e agenticity, ossia la «tendenza ad infondere i pattern con significato, intenzione e agency (o agentività)» [13]. Si tratta di impostazioni naturali dei meccanismi cognitivi, già presenti fin dall’infanzia [14]. Curiosamente, il processo cognitivo di riconoscimento di agenti si attiva anche in assenza di entità reali: come ha sintetizzato in modo efficace l’antropologo Pascal Boyer facendo riferimento ad uno studio di J.L. Barrett [15],
«in una specie che si è evoluta avendo a che fare simultaneamente con prede e predatori, il costo di falsi positivi (vedere agenti quando non ci sono) è minimo, se siamo in grado di abbandonare rapidamente queste maldestre intuizioni. Al contrario, il costo relativo alla mancata rilevazione di agenti quando sono realmente presenti (siano essi predatori o prede) può essere molto alto. In questo senso, i nostri sistemi cognitivi funzionano sul principio “meglio salvi che dispiaciuti” che conduce all’ipersensibilità del meccanismo di rilevamento dell’azione di un agente [Hyperactive Agency Detection Device, o HADD]» [16].
Data la propensione a creare falsi positivi riguardo all’attribuzione dell’intenzionalità di agenti intorni a noi, questo meccanismo non farebbe differenza nel valutare le prove a carico dell’esistenza di agenti sovrannaturali, nell’attribuire volontà ad un computer in panne oppure nell’identificare in un rumore (avvertito o reale) qualcuno che fa qualcosa nel cuore della notte. Come questo e altri pattern cognitivi interagiscano nell’ambito dinamico e sociopolitico delle realtà religiose, in particolare come collante nelle diverse connotazioni dell’organizzazione sociale, è argomento di indagine della cognitive science of religion (o CSR) [17].
Tutti questi meccanismi intervengono poi nella diffusione delle idee culturali. Sembra dimostrato sperimentalmente che, nella diffusione storica di contenuti e argomenti di carattere mitico-religioso, gli elementi minimamente controintuitivi inseriti in un contesto intuitivo (ossia contenenti alcune violazioni specifiche e categoriali delle aspettative intuitive riguardo ai domini di conoscenza, o il trasferimento di una caratteristica di un dominio ad un altro – ad esempio, un animale che parla o un parto miracoloso), hanno probabilmente favorito (e continuano a farlo) la memorizzazione e la trasmissione continua di racconti, prodigi, mitologie e credenze di qualunque tipo [18].
Anche se in realtà il quadro d’insieme offerto dalla ricerca cognitivista è più vasto e articolato, la cornice offerta rappresenta una sintesi sufficiente per orientarsi nei processi fondamentali che modellano ciò che noi comprendiamo della realtà – e il modo in cui la comprendiamo.

La scienza come impresa controintuitiva

Ora, mentre il mito e le credenze religiose sono controintuitive rispetto alle conquiste della conoscenza scientifica, la scienza lo è rispetto al funzionamento normale della cognizione. La differenza è che le basi del pensiero religioso sono cognitivamente intuitive, mentre i criteri per l’indagine scientifica sono complessi e vanno (talvolta faticosamente) appresi. Da ciò consegue anche la fragilità della ricerca scientifica, che deve essere sostenuta dalle istituzioni in modo continuo [19]. È scontato affermare che il geocentrismo appaia evidente senza un ragionamento critico e una precisa educazione e attenzione scientifica. Valga l’aneddoto riportato da Maurizio Ferraris e riguardante uno «studente tolemaico» [20] presentatosi per sostenere un esame universitario di filosofia. Costui, a quanto riporta il filosofo, sembrava ignorare del tutto i contenuti della rivoluzione copernicana. Ferraris allora gli domanda «“Secondo lei, è la Terra che gira intorno al Sole o il Sole che gira intorno alla Terra?”» e la risposta, giunta dopo aver guardato alla finestra e averci «pensato un po’» è stata la seguente:
«“È il Sole che gira intorno alla Terra”. Lo diceva con il tono di dire “non ha gli occhi per vedere?” Era un caso spontaneo di fisica ingenua: lo studente non sapeva niente di niente (quasi un record) e descriveva il mondo a partire da quello che vedeva» [21].
La mente difatti funziona attraverso «vincoli cognitivi che riflettono la storia naturale della nostra specie» [22]. A questi vincoli non ci si può sottrarre (si pensi alle illusioni ottiche: il fatto di capire che cosa avviene e dove sta il trucco non ci impedisce di continuare a percepire quella specifica illusione). In compenso, quei vincoli possono essere studiati e compresi.
Come si sono riflessi tali vincoli sull’organizzazione e la trasmissione del sapere? Esiste tutta una serie di credenze ingenue (ossia, intuitivamente naturali ma perlopiù non sostenute dall’evidenza) che vanno dalla fisica alla psicologia e che rappresentano modi condivisi e fissati di rappresentare il mondo e la realtà. La “psicologia ingenua”, ad esempio, è la quotidiana e naturale (che non vuol dire autentica) spiegazione delle cose in base al senso comune, basata su determinate attribuzioni di stati mentali ad agenti esterni e sul criterio di somiglianza [23]. Allo stesso modo esistono una “biologia ingenua” (ad esempio la somiglianza dei parenti) e una “fisica ingenua” (ad esempio la solidità degli oggetti). Ci sono ovviamente altri criteri generali che soggiacciono all’organizzazione e al funzionamento delle credenze (religiose e non) oltre a quelli elencati, tra i quali si distinguono la diminuzione dell’ansia dovuta alla cognizione della morte, la presenza di riti particolari e di un’autorità morale. Ad ogni modo, si tratta di principi che vanno ancorati ad una prospettiva storica e sociale: tali criteri, in determinate circostanze, possono anche essere avvertiti come fortemente ansiogeni dalla comunità che condivide le medesime credenze [24].
In conclusione, mentre il mito e le credenze religiose sono controintuitive rispetto alle conquiste della conoscenza scientifica, la scienza lo è rispetto al funzionamento naturalmente intuitivo della cognizione (si ricordi la distinzione fissata da Barrett e Lanman). I criteri per l’indagine scientifica sono naturali anch’essi, ma meno immediati: la ricerca scientifica è una
«modalità pragmaticamente efficace per spiegare fenomeni e risolvere problemi ricorrendo all’invenzione di modelli astratti della realtà, da sottoporre a esperienze controllate» [25], 
contraddistinta da rigore metodologico e dei criteri di definizione, sperimentazione, procedure di verifica, revisione del lavoro, diffusione dei risultati, ripetibilità dei risultati ottenuti (o, nel caso della ricerca paleontologica, conferma di determinate retrodizioni), rapporto e interazione tra spiegazione nomologica e contingenza storica, ecc. È quindi scontato affermare che il geocentrismo appaia evidente senza un ragionamento critico e una precisa educazione e attenzione scientifica: lo «studente tolemaico» dell’esempio citato ci ricorda l'azione di questi vincoli cognitivi per quanto riguarda la comprensione del mondo che ci circonda.

[1] Michele Luzzatto, Preghiera darwinana, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008, pp. 15-16.
[2] Alfredo Paternoster, Introduzione alla filosofia della mente, Laterza, Roma-Bari 2010 (2002), pp. 26-47, 121-139. Sulle scienze cognitive classiche si rimanda alla silloge presentata in Massimo Piattelli Palmarini, Le scienze cognitive classiche: un panorama, a cura di Nicola Canessa e Alessandra Gorini, Einaudi, Torino 2008, pp. 25-29, 306-307.
[3] Un’interessante prospettiva che media e integra scienze cognitive e psicologia evoluzionistica è in Robert N. McCauley, Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford-New York 2011.
[4] David J. Buller, Adapting Minds: Evolutionary Psychology and the Persistent Quest for Human Nature, The Massachusetts Institute of Technology Press, Cambridge 2005; Maurizio Cardaci, Psicologia evoluzionistica e cognizione umana, il Mulino, Bologna 2012, pp. 173-195. Una difesa della psicologia evoluzionistica è reperibile in Richard Sosis, The Adaptationist-Byproduct Debate on the Evolution of Religion: Five Misunderstandings of the Adaptationist Program, in «Journal of Cognition and Culture», 9, 2009, pp. 315-332.
[5] Cfr. Ilkka Pyysiäine e Marc Hauser, The Origins of Religion: Evolved Adaptation or By-Product?, in «Trends in Cognitive Sciences», 14, 3, March 2010, pp. 104-109; Pascal Boyer, Religion, Evolution, and Cognition, in «Current Anthropology», 45, 3, June 2004, pp. 430-433 (recensione dei seguenti volumi: Scott Atran, In Gods We Trust: The Evolutionary Landscape of Religion, Oxford University Press, Oxford-New York 2002; David Sloan Wilson, Darwin’s Cathedral: Evolution, Religion, and the Nature of Society, The University of Chicago Press, Chicago 2002).
[6] Paolo Legrenzi, Credere, il Mulino, Bologna 2008, p. 36.
[7] Cfr. Richard Dawkins, L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere, Mondadori, Milano 2011, p. 179 (2007 1 ed.; ed. or. The God Delusion, Bantam Press, London 2006), pp. 179-182.
[8] Cfr Justin L. Barrett, The Relative Unnaturalness of Atheism: On Why Geertz and Markússon Are Both Right and Wrong, in «Religion», 40, 2010, pp. 169-172; p. 170.
[9] Justin L. Barrett e Jonathan A. Lanman, The Science of Religious Belief, in «Religion», 38, 2008, pp. 109-124; p. 110.
[10] J.L. Barrett, Why Would Anyone Believe in God?, AltaMira Press, Walnut Creek 2004, p. 2.
[11] Michael Shermer, The Believing Brain: From Spiritual Faiths to Political Convinctions. How We Construct Beliefs and Reinforce Them as Truths, Robinson, London 2012, p. 70 (ed. or. The Believing Brain: From Ghosts and Gods to Politics and Conspiracy. How We Construct Beliefs and Reinforce Them as Truths, Times Books-Henry Holt & Co., New York 2011).
[12] Per esempi e bibliografia cfr. M. Shermer, The Believing Brain, cit., pp. 73-78.
[13] Ivi, p. 102.
[14] Sul rapporto tra teleologia istintiva nei bambini (o “teleologia promiscua”, poiché si riferisce indiscriminatamente ad oggetti animati e inanimati) e giustificazione teleologica in età adulta (che può essere richiamata in causa in particolari condizioni) cfr. rispettivamente Deborah Kelemen, Functions, Goals and Intentions: Children’s Teleological Reasoning About Objects, in «Trends in Cognitive Sciences», 12, 1999, pp. 461-468, e ead. e Evelyn Rosset, The Human Function Compunction: Teleological Explanation in Adults, in «Cognition», 111, 1, 2009, pp. 138-143. Sull’insegnamento della religione ai bambini da parte degli adulti spunti interessanti sono contenuti in R. Dawkins, L’illusione di Dio, cit.
[15] Il riferimento è a J.L. Barrett, Exploring the Natural Foundations of Religion, in «Trends in Cognitive Science», 4, 1, 2000, pp. 29-34.
[16] Pascal Boyer, Why Do Gods and Spirits Matter After All?, in Ilkka Pyysiäinen e Veikko Anttonen (eds.), Current Approaches in the Cognitive Science of Religion, Continuum, London-New York 2002, pp. 68-92; p. 76. Nell’art. intitolato What’s HIDD’n in the HADD?, in «Journal of Cognition and Culture», 7, 3-4, 2007, pp. 341-353, Anders Lisdorf ha proposto, sulla base di precise istanze neurofisiologiche, di identificare piuttosto un «meccanismo iperattivo di rilevamento dell’intenzionalità» (Hyperactive Intentionality Detection Devide, o HIDD).
[17] Cfr. Joseph Bulbulia, The Cognitive and Evolutionary Psychology of Religion, in «Biology and Philosophy», 19, 2004, pp. 655-686; Luther H. Martin, Religion and Cognition, in Hinnells, John R. (ed.), The Routledge Companion to the Study of Religion, Routledge, Abingdon-New York, 2005, pp. 473-488.
[18] Cfr. l’efficace panoramica offerta in Anders Lisdorf, The Spread of Non-Natural Concepts: Evidence from the Roman Prodigy Lists, in «Journal of Cognition and Culture», 4, 1, 2004, pp. 151-173; pp. 150-154.
[19] Su questi temi è fondamentale R.N. McCauley, Why Religion Is Natural and Science Is Not, cit., un compendio esauriente sul rapporto tra scienza e religione dal punto di vista della cognizione.
[20] Maurizio Ferraris, Imbarbarimento del salotto derridiano, in id., Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a partire da Jacques Derrida, Bompiani, Milano 2010a, pp. 80-97; p. 89.
[21] Ivi, p. 90.
[22] P. Legrenzi, Prima lezione di scienze cognitive, cit., p. 43.
[23] Vittorio Girotto, Difficile da capire: scienza e senso comune, in Girotto, Vittorio, Pievani, Telmo e Giorgio Vallortigara, Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin, Codice edizioni, Torino 2008, pp. 39-61; pp. 49-51.
[24] Cfr. P. Boyer, Religious Thought and Behaviour As By-products of Brain Function, in «Trends in Cognitive Sciences», 7, 3, March 2003, pp. 119 -124, passim. Si veda anche Tomas Rees, Do traditional Chinese death beliefs increase superstition and anxiety about death?, in <http://epiphenom.fieldofscience.com/2012/12/do-traditional-chinese-death-beliefs.html>, 4 dicembre 2012.
[25] Gilberto Corbellini, Scienza, quindi democrazia, Einaudi, Torino 2011, p. xiv.

Artt. indicizzati in Research Blogging:

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