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venerdì 4 gennaio 2013

Vademecum cognitivo I. Perché la gente crede ciò in cui crede?

Le Penseur, Auguste Rodin 1902 (Musée Rodin, Paris. Fonte: Wikipedia, autore: Daniel Stockman).
Ultimo giro di boa prima della pubblicazione del mio volume, e ultime anticipazioni. A grande richiesta ho deciso di proporre un conciso vademecum su scienze cognitive e dintorni, rimodellando e semplificando alcuni estratti dal testo in modo tale da poter proporre un discorso generale sulla cognizione e i suoi rapporti con l'evoluzione. Il prossimo post (l'ultimo della serie di anticipazioni) sarà invece incentrato su alcuni aspetti salienti della psicologia evoluzionistica e dell'etologia cognitiva.
«Come è possibile che esista il cervello, un organo strutturato in modo da risolvere il problema di come sia possibile che esista un organo strutturato in modo da risolvere problemi? […] il problema deve essere qui, sulla Terra, e la soluzione al problema del problema deve essere anche lei qui, sulla Terra».
Michele Luzzatto, Preghiera darwinana [1]
ResearchBlogging.org
Nell'ambito della cognizione umana una delle domande più interessanti dalle quali partire è "come e perché la gente possa credere in ciò in cui crede". Le prime risposte dotate di validità scientifica (così come della possibilità di ripetibilità sperimentale dei risultati), e che non fossero mere speculazioni filosofiche, sono giunte dalle scienze cognitive e dalla psicologia evoluzionistica.
In questi due ambiti disciplinari l'analisi delle credenze, di tipo religioso e non, si è sovente distinta come un campo privilegiato per studiare o spiegare determinati meccanismi soggiacenti alla cognizione umana.

Un primo confronto tra scienze cognitive e psicologia evoluzionistica

Le scienze cognitive vengono normalmente divise tra classiche o computazionali, con l’accento posto sul funzionamento della mente in quanto sistema di elaborazione di dati, e post-classiche, ossia maggiormente incentrate sul rapporto tra corpo e ambiente e sull’interazione delle reti neurali [2]. Abbiamo fatto riferimento all'esistenza della psicologia evoluzionistica. Rimarchiamo subito una differenza essenziale tra l’approccio cognitivista e quello psicologico-evoluzionista: semplificando, le scienze cognitive tendono a considerare la religione come un effetto secondario (by-product) delle naturali capacità cognitive, mentre la psicologia evoluzionistica la ritiene un adattamento funzionale sottoposto e modellato dalla selezione naturale a favore degli ipotetici benefici a livello di cooperazione sociale. In realtà la questione è molto più complessa; le posizioni degli studiosi di entrambe le discipline possono talvolta convergere oppure allontanarsi a seconda dei casi specifici [3]. Ad ogni modo, nella storia recente delle due discipline la psicologia evoluzionistica si è distinta per un approccio talvolta avvertito come troppo deterministico e difficilmente verificabile [4], mentre le scienze cognitive hanno tentato di offrire una spiegazione della religione come effetto secondario che si è prestato ad una modellizzazione maggiormente euristica [5].
Gli ostacoli principali che venivano rimproverati al programma della psicologia evoluzionistica corrente erano due: la difficoltà di rendere conto di caratteristiche non adattative (o malamente adattative) e il riferimento costante ad una preistoria durante la quale tutti i comportamenti umani oggi noti erano (positivamente) adattativi (qui sorge un problema tautologico: in che modo provare che qualcosa in merito al comportamento non ha mai avuto una funzione specifica e/o specificamente selezionata?).

Patternicity, Agenticity credenze

Limitiamoci per il momento al contesto cognitivo. In questo ambito,
«le credenze religiose si innescano su alcune esperienze che, nella vita quotidiana, tutti possono aver provato, fedeli e infedeli. Meccanismi cognitivi ed emotivi condivisi generano quelle [possono essere chiamate] “esperienze prereligiose”. Si tratta di tutte quelle esperienze in cui noi ci domandiamo se l’uomo possa avere un destino trascendente» [6].
La concezione di un «destino trascendente» (ovvero, la continuità della mente e della personalità in assenza del corpo) si basa in primo luogo sull’assunzione naturale (ma fallace) del dualismo corpo/mente (anima) [7], derivata da esperienze quotidiane come i sogni o determinate istanze neurofisiologiche. Se si vuole andare in profondità il primo nodo da sciogliere è invece la definizione stessa del “credere” (ad esempio nel caso citato, basare una serie di convincimenti sulla credenza nel dualismo tra mente/anima e corpo), ossia il fare affidamento su (e seguire incondizionatamente) fatti o convinzioni, senza pretendere necessariamente una verifica sulla quale poter basare la fiducia concessa, sospendendo il giudizio sull’attendibilità dell’eventuale convinzione o delle testimonianze in merito, oppure scartando le prove discordanti [8]. Quella che segue è la definizione di credenza proposta da Justin L. Barrett e da Jonathan A. Lanman: la credenza è
«lo stato di un sistema cognitivo che considera vera un’informazione (non necessariamente in forma proposizionale o esplicita) per la generazione di ulteriori pensiero e comportamento» [9].
La credenza così definita può essere classificata in due tipologie: riflessiva e intuitiva. La prima è il frutto della riflessione su certi fatti o argomenti, o dell’accettazione dell’autorità di qualcuno (non ha importanza ora la verifica fattuale o scientifica di tali credenze). La seconda «giung[e] automaticamente, non richied[e] un’attenta ponderazione e sembr[a] sorgere istantaneamente» [10]. Un processo che si compone dunque di un’azione inconscia (o automatica) che ha alle spalle la medesima evoluzione biologica e che, semplificando al limite consentito, si spiegherebbe con il reperire schemi soggiacenti e carichi di significato attraverso l’associazione di più elementi (quale che sia il significato, o la veridicità, risultante dall’unione di questi elementi: dal rilevare la presenza di un predatore nascosto nella foresta al credere all’esistenza degli alieni) e l’attribuzione di intenzionalità ad agenti esterni e naturali (o sovrannaturali).
Queste peculiarità cognitive sono state sinteticamente etichettate da Michael Shermer come patternicity, ossia la «tendenza a trovare schemi (patterns) carichi di significato in un contesto di disturbo significativo o insensato» [11], una propensione cognitiva non limitata agli esseri umani [12], e agenticity, ossia la «tendenza ad infondere i pattern con significato, intenzione e agency (o agentività)» [13]. Si tratta di impostazioni naturali dei meccanismi cognitivi, già presenti fin dall’infanzia [14]. Curiosamente, il processo cognitivo di riconoscimento di agenti si attiva anche in assenza di entità reali: come ha sintetizzato in modo efficace l’antropologo Pascal Boyer facendo riferimento ad uno studio di J.L. Barrett [15],
«in una specie che si è evoluta avendo a che fare simultaneamente con prede e predatori, il costo di falsi positivi (vedere agenti quando non ci sono) è minimo, se siamo in grado di abbandonare rapidamente queste maldestre intuizioni. Al contrario, il costo relativo alla mancata rilevazione di agenti quando sono realmente presenti (siano essi predatori o prede) può essere molto alto. In questo senso, i nostri sistemi cognitivi funzionano sul principio “meglio salvi che dispiaciuti” che conduce all’ipersensibilità del meccanismo di rilevamento dell’azione di un agente [Hyperactive Agency Detection Device, o HADD]» [16].
Data la propensione a creare falsi positivi riguardo all’attribuzione dell’intenzionalità di agenti intorni a noi, questo meccanismo non farebbe differenza nel valutare le prove a carico dell’esistenza di agenti sovrannaturali, nell’attribuire volontà ad un computer in panne oppure nell’identificare in un rumore (avvertito o reale) qualcuno che fa qualcosa nel cuore della notte. Come questo e altri pattern cognitivi interagiscano nell’ambito dinamico e sociopolitico delle realtà religiose, in particolare come collante nelle diverse connotazioni dell’organizzazione sociale, è argomento di indagine della cognitive science of religion (o CSR) [17].
Tutti questi meccanismi intervengono poi nella diffusione delle idee culturali. Sembra dimostrato sperimentalmente che, nella diffusione storica di contenuti e argomenti di carattere mitico-religioso, gli elementi minimamente controintuitivi inseriti in un contesto intuitivo (ossia contenenti alcune violazioni specifiche e categoriali delle aspettative intuitive riguardo ai domini di conoscenza, o il trasferimento di una caratteristica di un dominio ad un altro – ad esempio, un animale che parla o un parto miracoloso), hanno probabilmente favorito (e continuano a farlo) la memorizzazione e la trasmissione continua di racconti, prodigi, mitologie e credenze di qualunque tipo [18].
Anche se in realtà il quadro d’insieme offerto dalla ricerca cognitivista è più vasto e articolato, la cornice offerta rappresenta una sintesi sufficiente per orientarsi nei processi fondamentali che modellano ciò che noi comprendiamo della realtà – e il modo in cui la comprendiamo.

La scienza come impresa controintuitiva

Ora, mentre il mito e le credenze religiose sono controintuitive rispetto alle conquiste della conoscenza scientifica, la scienza lo è rispetto al funzionamento normale della cognizione. La differenza è che le basi del pensiero religioso sono cognitivamente intuitive, mentre i criteri per l’indagine scientifica sono complessi e vanno (talvolta faticosamente) appresi. Da ciò consegue anche la fragilità della ricerca scientifica, che deve essere sostenuta dalle istituzioni in modo continuo [19]. È scontato affermare che il geocentrismo appaia evidente senza un ragionamento critico e una precisa educazione e attenzione scientifica. Valga l’aneddoto riportato da Maurizio Ferraris e riguardante uno «studente tolemaico» [20] presentatosi per sostenere un esame universitario di filosofia. Costui, a quanto riporta il filosofo, sembrava ignorare del tutto i contenuti della rivoluzione copernicana. Ferraris allora gli domanda «“Secondo lei, è la Terra che gira intorno al Sole o il Sole che gira intorno alla Terra?”» e la risposta, giunta dopo aver guardato alla finestra e averci «pensato un po’» è stata la seguente:
«“È il Sole che gira intorno alla Terra”. Lo diceva con il tono di dire “non ha gli occhi per vedere?” Era un caso spontaneo di fisica ingenua: lo studente non sapeva niente di niente (quasi un record) e descriveva il mondo a partire da quello che vedeva» [21].
La mente difatti funziona attraverso «vincoli cognitivi che riflettono la storia naturale della nostra specie» [22]. A questi vincoli non ci si può sottrarre (si pensi alle illusioni ottiche: il fatto di capire che cosa avviene e dove sta il trucco non ci impedisce di continuare a percepire quella specifica illusione). In compenso, quei vincoli possono essere studiati e compresi.
Come si sono riflessi tali vincoli sull’organizzazione e la trasmissione del sapere? Esiste tutta una serie di credenze ingenue (ossia, intuitivamente naturali ma perlopiù non sostenute dall’evidenza) che vanno dalla fisica alla psicologia e che rappresentano modi condivisi e fissati di rappresentare il mondo e la realtà. La “psicologia ingenua”, ad esempio, è la quotidiana e naturale (che non vuol dire autentica) spiegazione delle cose in base al senso comune, basata su determinate attribuzioni di stati mentali ad agenti esterni e sul criterio di somiglianza [23]. Allo stesso modo esistono una “biologia ingenua” (ad esempio la somiglianza dei parenti) e una “fisica ingenua” (ad esempio la solidità degli oggetti). Ci sono ovviamente altri criteri generali che soggiacciono all’organizzazione e al funzionamento delle credenze (religiose e non) oltre a quelli elencati, tra i quali si distinguono la diminuzione dell’ansia dovuta alla cognizione della morte, la presenza di riti particolari e di un’autorità morale. Ad ogni modo, si tratta di principi che vanno ancorati ad una prospettiva storica e sociale: tali criteri, in determinate circostanze, possono anche essere avvertiti come fortemente ansiogeni dalla comunità che condivide le medesime credenze [24].
In conclusione, mentre il mito e le credenze religiose sono controintuitive rispetto alle conquiste della conoscenza scientifica, la scienza lo è rispetto al funzionamento naturalmente intuitivo della cognizione (si ricordi la distinzione fissata da Barrett e Lanman). I criteri per l’indagine scientifica sono naturali anch’essi, ma meno immediati: la ricerca scientifica è una
«modalità pragmaticamente efficace per spiegare fenomeni e risolvere problemi ricorrendo all’invenzione di modelli astratti della realtà, da sottoporre a esperienze controllate» [25], 
contraddistinta da rigore metodologico e dei criteri di definizione, sperimentazione, procedure di verifica, revisione del lavoro, diffusione dei risultati, ripetibilità dei risultati ottenuti (o, nel caso della ricerca paleontologica, conferma di determinate retrodizioni), rapporto e interazione tra spiegazione nomologica e contingenza storica, ecc. È quindi scontato affermare che il geocentrismo appaia evidente senza un ragionamento critico e una precisa educazione e attenzione scientifica: lo «studente tolemaico» dell’esempio citato ci ricorda l'azione di questi vincoli cognitivi per quanto riguarda la comprensione del mondo che ci circonda.

[1] Michele Luzzatto, Preghiera darwinana, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008, pp. 15-16.
[2] Alfredo Paternoster, Introduzione alla filosofia della mente, Laterza, Roma-Bari 2010 (2002), pp. 26-47, 121-139. Sulle scienze cognitive classiche si rimanda alla silloge presentata in Massimo Piattelli Palmarini, Le scienze cognitive classiche: un panorama, a cura di Nicola Canessa e Alessandra Gorini, Einaudi, Torino 2008, pp. 25-29, 306-307.
[3] Un’interessante prospettiva che media e integra scienze cognitive e psicologia evoluzionistica è in Robert N. McCauley, Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford-New York 2011.
[4] David J. Buller, Adapting Minds: Evolutionary Psychology and the Persistent Quest for Human Nature, The Massachusetts Institute of Technology Press, Cambridge 2005; Maurizio Cardaci, Psicologia evoluzionistica e cognizione umana, il Mulino, Bologna 2012, pp. 173-195. Una difesa della psicologia evoluzionistica è reperibile in Richard Sosis, The Adaptationist-Byproduct Debate on the Evolution of Religion: Five Misunderstandings of the Adaptationist Program, in «Journal of Cognition and Culture», 9, 2009, pp. 315-332.
[5] Cfr. Ilkka Pyysiäine e Marc Hauser, The Origins of Religion: Evolved Adaptation or By-Product?, in «Trends in Cognitive Sciences», 14, 3, March 2010, pp. 104-109; Pascal Boyer, Religion, Evolution, and Cognition, in «Current Anthropology», 45, 3, June 2004, pp. 430-433 (recensione dei seguenti volumi: Scott Atran, In Gods We Trust: The Evolutionary Landscape of Religion, Oxford University Press, Oxford-New York 2002; David Sloan Wilson, Darwin’s Cathedral: Evolution, Religion, and the Nature of Society, The University of Chicago Press, Chicago 2002).
[6] Paolo Legrenzi, Credere, il Mulino, Bologna 2008, p. 36.
[7] Cfr. Richard Dawkins, L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere, Mondadori, Milano 2011, p. 179 (2007 1 ed.; ed. or. The God Delusion, Bantam Press, London 2006), pp. 179-182.
[8] Cfr Justin L. Barrett, The Relative Unnaturalness of Atheism: On Why Geertz and Markússon Are Both Right and Wrong, in «Religion», 40, 2010, pp. 169-172; p. 170.
[9] Justin L. Barrett e Jonathan A. Lanman, The Science of Religious Belief, in «Religion», 38, 2008, pp. 109-124; p. 110.
[10] J.L. Barrett, Why Would Anyone Believe in God?, AltaMira Press, Walnut Creek 2004, p. 2.
[11] Michael Shermer, The Believing Brain: From Spiritual Faiths to Political Convinctions. How We Construct Beliefs and Reinforce Them as Truths, Robinson, London 2012, p. 70 (ed. or. The Believing Brain: From Ghosts and Gods to Politics and Conspiracy. How We Construct Beliefs and Reinforce Them as Truths, Times Books-Henry Holt & Co., New York 2011).
[12] Per esempi e bibliografia cfr. M. Shermer, The Believing Brain, cit., pp. 73-78.
[13] Ivi, p. 102.
[14] Sul rapporto tra teleologia istintiva nei bambini (o “teleologia promiscua”, poiché si riferisce indiscriminatamente ad oggetti animati e inanimati) e giustificazione teleologica in età adulta (che può essere richiamata in causa in particolari condizioni) cfr. rispettivamente Deborah Kelemen, Functions, Goals and Intentions: Children’s Teleological Reasoning About Objects, in «Trends in Cognitive Sciences», 12, 1999, pp. 461-468, e ead. e Evelyn Rosset, The Human Function Compunction: Teleological Explanation in Adults, in «Cognition», 111, 1, 2009, pp. 138-143. Sull’insegnamento della religione ai bambini da parte degli adulti spunti interessanti sono contenuti in R. Dawkins, L’illusione di Dio, cit.
[15] Il riferimento è a J.L. Barrett, Exploring the Natural Foundations of Religion, in «Trends in Cognitive Science», 4, 1, 2000, pp. 29-34.
[16] Pascal Boyer, Why Do Gods and Spirits Matter After All?, in Ilkka Pyysiäinen e Veikko Anttonen (eds.), Current Approaches in the Cognitive Science of Religion, Continuum, London-New York 2002, pp. 68-92; p. 76. Nell’art. intitolato What’s HIDD’n in the HADD?, in «Journal of Cognition and Culture», 7, 3-4, 2007, pp. 341-353, Anders Lisdorf ha proposto, sulla base di precise istanze neurofisiologiche, di identificare piuttosto un «meccanismo iperattivo di rilevamento dell’intenzionalità» (Hyperactive Intentionality Detection Devide, o HIDD).
[17] Cfr. Joseph Bulbulia, The Cognitive and Evolutionary Psychology of Religion, in «Biology and Philosophy», 19, 2004, pp. 655-686; Luther H. Martin, Religion and Cognition, in Hinnells, John R. (ed.), The Routledge Companion to the Study of Religion, Routledge, Abingdon-New York, 2005, pp. 473-488.
[18] Cfr. l’efficace panoramica offerta in Anders Lisdorf, The Spread of Non-Natural Concepts: Evidence from the Roman Prodigy Lists, in «Journal of Cognition and Culture», 4, 1, 2004, pp. 151-173; pp. 150-154.
[19] Su questi temi è fondamentale R.N. McCauley, Why Religion Is Natural and Science Is Not, cit., un compendio esauriente sul rapporto tra scienza e religione dal punto di vista della cognizione.
[20] Maurizio Ferraris, Imbarbarimento del salotto derridiano, in id., Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a partire da Jacques Derrida, Bompiani, Milano 2010a, pp. 80-97; p. 89.
[21] Ivi, p. 90.
[22] P. Legrenzi, Prima lezione di scienze cognitive, cit., p. 43.
[23] Vittorio Girotto, Difficile da capire: scienza e senso comune, in Girotto, Vittorio, Pievani, Telmo e Giorgio Vallortigara, Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin, Codice edizioni, Torino 2008, pp. 39-61; pp. 49-51.
[24] Cfr. P. Boyer, Religious Thought and Behaviour As By-products of Brain Function, in «Trends in Cognitive Sciences», 7, 3, March 2003, pp. 119 -124, passim. Si veda anche Tomas Rees, Do traditional Chinese death beliefs increase superstition and anxiety about death?, in <http://epiphenom.fieldofscience.com/2012/12/do-traditional-chinese-death-beliefs.html>, 4 dicembre 2012.
[25] Gilberto Corbellini, Scienza, quindi democrazia, Einaudi, Torino 2011, p. xiv.

Artt. indicizzati in Research Blogging:

Sosis, R. (2009). The Adaptationist-Byproduct Debate on the Evolution of Religion: Five Misunderstandings of the Adaptationist Program Journal of Cognition and Culture, 9 (3), 315-332 DOI: 10.1163/156770909X12518536414411
Pyysiäinen I, & Hauser M (2010).The origins of religion: evolved adaptation or by-product? Trends in cognitive sciences, 14 (3), 104-9 PMID: 20149715
Boyer, P. (2004). Religion, Evolution, and Cognition. Current Anthropology, 45 (3), 430-433 DOI: 10.1086/420914
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