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venerdì 14 giugno 2013

La scienza è un’operazione sociale: Why Religion Is Natural and Science Is Not di Robert N. McCauley #6

Robert N. McCauley, Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford-New York 2011.
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Il quinto punto delle conclusioni del volume di Robert McCauley (come al solito, per le puntate precedenti cliccate qui: 1, 2, 3, 4, 5) contiene probabilmente le considerazioni storiografiche più importanti del volume. In sintesi, 
La scienza è un’operazione eminentemente sociale.
Come già accennato in precedenza, la scienza ovvia alle limitazioni cognitive individuali tramite la sua organizzazione sociale [1]; al contrario dell’idea cartesiana (e largamente condivisa dai media e dai non addetti ai lavori) del pensatore singolo come «una mente isolata, individuale, considerata indipendentemente dalle sue connessioni con il corpo […] e [intenta] ad estrarre inferenze deduttive dai principi teorici» [2], la scienza è un processo sociale – e solo in quanto processo sociale condiviso nel tempo e nello spazio, composto da ricercatori e studiosi, può in buona parte rimediare al fatto che gli studiosi individualmente «dimenticano cose, hanno a che fare con euristiche cognitivamente naturali (ma fallaci), fanno errori nei loro ragionamenti, preferiscono le proprie teorie rispetto a quelle degli altri (e cercano le evidenze di conseguenza) e sono suscettibili all’intrusione delle disposizioni maturativamente cognitivi della mente» [3]. Di fatto, le storie della scienza incentrate su pochi grandi uomini che hanno fatto il corso della storia della ricerca, per quanto utili e in buona parte veritiere, non riflettono il fatto che quelle figure (specie nel passato, talvolta dei veri giganti sulle cui spalle hanno costruito e visto più lontano altri studiosi) hanno interagito con altri studiosi, hanno corretto o modificato le loro ipotesi sulle base di proposte avanzate da terzi, e che le loro idee sono state da subito passate al vaglio dell’analisi di altri studiosi interessati a verificarle, falsificarle o aggiornarle [4].

Il problema della presenza della scienza nelle società del passato, dunque, è subordinato ai seguenti punti basilari:
  1. La società deve permettere la libera indagine e la libera critica riguardo al modo di funzionamento del mondo e l’esposizione pubblica di tali posizioni;
  2. La società deve sostenere il riconoscimento pubblico dell’importanza di tale pratica, in particolar modo a livello dei decisori politici [5].
I due casi storici che McCauley ripercorre brevemente sono quelli della Cina antica e del mondo islamico medievale. Nel primo caso, benché la Cina abbia goduto di una considerevole conoscenza tecnologica, in taluni periodi persino superiore a quella europea, sono mancate le necessarie condizioni sociali (come il riconoscimento di uno spazio pubblico di libera ricerca) e politiche (sotto le dinastie Sung e Ming, ad esempio, si è privilegiata per gli impiegati statali una preparazione letteraria che non conteneva pressoché nulla di scientifico – i decisori politici non hanno quindi favorito o sostenuto lo sviluppo di discussioni pubbliche) [6].
Nel secondo caso, invece, la questione è forse più complessa. Il retaggio culturale greco per quanto riguarda la filosofia, la matematica e i lavori scientifici, è stato ripreso e persino ampliato e corretto là dove i testi antichi non avevano descritto opportunamente i fatti empirici. Come interpretare allora l’esistenza di un appoggio statale sotto forma di protezione politica, nonché di istituzioni ove condurre ricerche (come osservatori astronomici e ospedali), a fronte di una mancata istituzionalizzazione della ricerca scientifica nel mondo islamico medievale? I problemi che hanno impedito uno sviluppo della ricerca scientifica risiedono innanzitutto in un intreccio contingente di ordine politico-religioso. Ospedali e osservatori erano perlopiù luoghi edificati sulla base di convenzioni e sovvenzioni religiose – pertanto si configuravano come enti ove vigeva l’osservanza di una cornice religiosa, che imponeva giocoforza limiti e vincoli all’attività di ricerca: «la possibilità di stabilire istituti scientifici indipendenti o di incorporare altre branche della scienza (oltre alla matematica e all’astronomia) all’interno di una qualunque forma di educazione religiosamente autorizzata è stata raramente presa in seria considerazione, se mai lo fosse stata in precedenza» [7]. In secondo luogo l’oralità è sempre stata considerata epistemicamente più rilevante ai fini di un’educazione conforme a precetti coranici – ma è del tutto inadatta alla ricerca scientifica. La pedagogia nella madrasa, basata sull’apprendimento mnemonico del Corano e di altri testi religiosi, non facilita la critica di quei testi: «Il tempo e lo sforzo dedicati alla memorizzazione dei testi, siano essi religiosi o scientifici, non lascia molto tempo, energia o motivazione per l’esplorazione delle critiche delle posizioni sostenute in quei testi. È improbabile che la gente che ha investito migliaia di ore della propria vita a memorizzare vari testi si dimostri un pubblico ricettivo nei confronti della critica di quegli stessi testi» [8]. L’ultimo punto riguarda il saltuario e contingente appoggio politico fornito da patroni che spesso hanno offert oa pensatori e studiosi la necessaria protezione dai «meno curiosi e meno tolleranti guardiani dell’ortodossia islamica» [9]. Il risultato di ciò è stato, nelle parole che McCauley riprende da Toby Huff, che «“alla fine, lo sviluppo delle scienze naturali nel mondo islamico ha trovato un punto d’arresto tra il XIII e il XIV secolo”» [10].

La situazione europea era per certi versi peggiore dei due casi storici citati, almeno fino all’avvento di due casi particolari: la riscoperta e la traduzione dei testi greci tramite il mondo arabo e la nascita delle università come istituzioni indipendenti, i cui curricula hanno costituito i prodromi dell’insegnamento scientifico e nel contempo hanno fornito le credenziali appropriate per coloro i quali intendevano dedicarsi alle scienze naturali. Le università hanno inoltre contribuito, sul lungo periodo, «all’esclusione delle pseudoscienze e delle pratiche occulte come l’astrologia, la magia e l’alchimia dall’educazione formalmente sancita» [11]. La ricerca empirica che si diffuse poi nella cultura europea tra XVII e XVIII secolo e.v., recuperando e superando il livello di indagine a tutto campo che fu già perseguito nella Grecia antica, «trasformò l’Europa dal luogo remoto e impermeabile alle innovazioni che era nel principale centro della vita intellettuale del pianeta» [12]. La fondazione di accademie scientifiche nazionali (la Royal Society nel 1660 e l’Académie Royale des Sciences nel 1666) per la libera discussione e la condivisione interna degli studi e la cooperazione sovranazionale tra studiosi (in particolare dell’Inghilterra, della Francia e della Repubblica delle Sette Province Unite – che sarebbe diventata poi l’Olanda), rendono chiara l’interazione di due elementi indispensabili: benché le ostilità tra studiosi abbia talvolta costellato la storiografia della scienza (in particolare durante i confronti bellici tra gli stati dai quali provenivano gli studiosi), è stata solamente la cooperazione a rendere possibile lo sviluppo della scienza (si pensi ai dati astronomici confermati e verificati da osservazioni ripetute tra località diverse sul globo terrestre, oppure all’osservazione e lo studio di esemplari provenienti da ogni parte del mondo per la biologia e la zoologia) [13].
La competizione, ovviamente, è un elemento chiave per lo sviluppo della scienza, e dalla competizione possono nascere le frodi e le manipolazioni dei dati. Ma, e questo è forse uno dei punti più importanti del capitolo conclusivo, la scienza ad oggi si è dimostrata uno strumento migliore per regolare la competizione (surclassando il modello bancario e capitalistico di concorrenza: «gli scienziati hanno imparato molto tempo fa ciò che i capitalisti e i banchieri, in particolare, non sembrano essere stati mai in grado di apprendere, ossia che la competizione deve essere regolata con attenzione per assicurare trasparenza e correttezza all’interno del mercato, sia esso commerciale o scientifico») e per controllare l’onestà interna della ricerca («[…] c’è sempre virtualmente un altro membro della comunità scientifica pronto a verificare e, nel caso, a smascherare i malfattori. […] Nessun’altra istituzione, nemmeno la giurisprudenza, è maggiormente impegnata nel garantire l’integrità del controllo interno. Tutte le evidenze suggeriscono che la scienza faccia un lavoro migliore riguardo al monitoraggio interno di qualunque altra istituzione pubblica della storia umana») [14]. I mezzi per attuare questo continuo autocontrollo, e che abbiamo già ricordato in precedenza, sono i seguenti: replicabilità dei risultati sperimentali, revisione paritaria (peer review), revisione cieca o a doppio cieco (ove l’identità dell’autore della ricerca viene nascosta ai revisori – e viceversa – per evitare di incorrere in pregiudizi potenzialmente nocivi per la revisione), disponibilità pubblica delle ricerche e degli apparati scientifici [15]. Una volta pubblicato lo studio diventerà oggetto di indagine, di scrutinio e di verifica da parte di altri studiosi – e così via.

I punti fondamentali della moderna ricerca scientifica possono dunque essere così sintetizzati:
  1. condivisione;
  2. diffusione;
  3. critica;
  4. verifica;
  5. cooperazione;
  6. autocontrollo interno delle norme di condotta (volto allo smascheramento di eventuali frodi).
continua...

[1] Robert N. McCauley, Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford-New York 2011, p. 269.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Ivi, p. 270.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p. 271 (cfr. Toby E. Huff, The Rise of Early Modern Science: Islam, China and the West, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1993, pp. 308-309).
[7] Ibidem.
[8] Ivi, p. 272.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem (cit. da T.E. Huff, The Rise of Early Modern Science, cit., p. 168).
[11] Ivi, p. 278.
[12] Ivi, p. 273.
[13] Ibidem.
[14] Tutte le citt. da ivi, p. 274.
[15] Ibidem.

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