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domenica 15 dicembre 2013

La cultura, il lato oscuro della tabula rasa e l'antidarwinismo antropologico

Wikipedia, immagine dell'utente Petr Adam Dohnálek
ResearchBlogging.orgDopo una lunga pausa, motivata da progetti che presto (spero) avrò il piacere di discutere in questa sede, ripartiamo in medias res con un post dedicato alla nozione umanistica della mente umana come pagina bianca sulla quale vengono scritte ex novo la cultura e l'apprendimento.
Questa tesi sulla mente, detta tabula rasa (ossia la tavoletta di cera sulla quale i romani scrivevano e riscrivevano dopo averla raschiata), è diventata il «modello standard delle scienze sociali», secondo la definizione degli psicologi evoluzionisti John Tooby e Leda Cosmides [1], ed è stata adottata in particolare dagli antropologi sociali e culturali. L'ottica della tabula rasa, che traccia le sue radici nel pensiero filosofico aristotelico e in quello di John Locke e che è stata analizzata a fondo da Steven Pinker [2], ritiene che «poiché gli esseri umani possono trasmettere informazioni tra gli individui attraverso qualsiasi comunicazione simbolica, essi sono liberi da qualunque vincolo naturale e si differenziano essenzialmente dagli altri animali, i quali trasmettono l’informazione perlopiù, se non completamente, in modo genetico» [3]. Secondo l'efficace sintesi offerta da Maurice Bloch e Dan Sperber e che qui seguiamo, in breve, gli esseri umani non sarebbero «per nulla vincolati o influenzati dall’hardware cerebrale geneticamente ereditato» [4], i cui contenuti invece risulterebbero il puro prodotto di processi storico-culturali. La diffusione di questo modello si deve innanzitutto a un rifiuto, senza possibilità di dialogo, delle impostazioni funzionaliste ed evoluzioniste della primissima antropologia accademica prima e della sociobiologia poi, e in seconda battuta dal convergente emergere di un cambiamento di paradigma epistemologico-disciplinare impostato sul profondo relativismo postmodernista delle incomparabili costruzioni culturali umane.

Cerchiamo di andare a ritroso nella storia del lato umanistico dello studio antropologico. Il modello adottato in origine – e poi giustamente rifiutato a causa degli espliciti risultati razzisti che hanno piagato la ricerca antropologica ed etnografica grosso modo per tutta la prima metà del Novecento [5] – era quello di un evoluzionismo non darwiniano bensì ortogenetico e/o spenceriano-bergsoniano, secondo cui l’evoluzione coinciderebbe sic et simpliciter con la lotta per la sopravvivenza del più adatto, con il progresso inteso nei termini di continuo e assoluto miglioramento e con un grado di complessità crescente (più o meno esplicitamente ed escatologicamente indirizzato verso Homo sapiens). Nella seconda metà del Novecento, l'antidarwinismo culturale si è però rivelato utile a livello disciplinare anche come argine nei confronti delle “just-so stories (“storie proprio così”) tipiche dell'iper-determinismo genetico coltivato dalla primissima sociobiologia, per cui tutti i comportamenti, anche quelli come il dominio sociale aggressivo e androcentrico, l'odio nei confronti degli estranei/stranieri, ecc., vengono invariabilmente considerati come adattamenti ad hoc in vista della massimizzazione della fitness degli individui.
Richard Milner ha recentemente sintetizzato le note critiche di Stephen Jay Gould in merito alle just-so stories sociobiologiche, secondo le quali questa peculiare tipologia di racconti evoluzionistici appare profondamente inficiata da almeno tre fallacie argomentative:
  • la ricerca iperselezionista di tratti positivamente adattativi non rende conto del fatto che molti tratti possono essere neutrali, ovvero non avere alcun valore adattativo caratteristico;
  • la «plausibilità logica della proposta adattativa non è un sostituto della raccolta di sufficienti evidenze a sostegno»;
  • infine, le ricostruzioni adattative basate sull’ascendente progressione evolutiva verso un adattamento perfetto sono del tutto errate, poiché «ogni organismo è il prodotto di una storia speciale e unica, e noi solitamente non abbiamo modo di conoscere quanto gli adattamenti del passato [evolutivo] si armonizzassero con gli ambienti passati» – non c’è modo quindi di ritenere un adattamento precedente come meno perfetto [6].
Anche se per motivi di spazio non possiamo soffermarci sul tema (materiale per un altro post), va da sé che non era certamente necessario rifiutare in blocco tutta la disciplina biologico-evoluzionista per arginare la diffusione di quel tipo di determinismo sociobiologico. Sarebbe bastato un maggiore spirito scientifico-cognitivista che permettesse di chiarire che quei comportamenti possono comunque essere cognitivamente bypassati poiché, nelle parole di Telmo Pievani, «più che un catalogo di “soluzioni” per problemi adattativi preesistenti, le facoltà mentali rappresentano, come aveva suggerito Darwin, una riserva di riadattamenti potenziali» [7]. Purtroppo, come dimostrato da una serie di casi (ricordiamo en passant la nota disputa antropologica tra Mead e Freeman), non era facile opporsi a un contesto disciplinare in cui si ritenevano le condizioni sociali più potenti di qualunque possibile vincolo biologico radicato nel tempo profondo dell'evoluzione[8].
A monte di tutto resisteva insomma il fraintendimento secondo cui evoluzione significava “progresso” indefinito, competitivo tout court o teleologicamente orientato secondo criteri razzisti. In questo senso, nelle discipline umanistiche sussiste ancora un malinteso terminologico che risale alle scuole classiche dell’antropologia evoluzionistica. Già Claude Lévi-Strauss aveva però ben presente la profonda differenza, ancora oggi così spesso fraintesa, che passa tra il “darwinismo” spenceriano e l’evoluzionismo di Darwin: «i due fondatori dell’evoluzionismo sociale, Tylor e Spencer, elaborano e pubblicano la loro dottrina prima dell’Origine delle specie o senza aver letto quest’opera. Anteriore all’evoluzionismo biologico, teoria scientifica, l’evoluzionismo sociale si riduce troppo spesso ad una mascheratura pseudoscientifica di un vecchio problema filosofico […]» [9].

A causa di questo equivoco, e nonostante l’ammonimento di Lévi-Strauss, mentre la biologia evoluzionistica impostata sul programma di ricerca darwiniano continuava a scoprire e a evidenziare i pattern della storia evolutiva del pianeta Terra – e pertanto a tracciare confini sempre più precisi anche delle nozioni di “cultura”, umana e no – il côté umanistico dell’antropologia diventava impenetrabile a qualunque discorso scientifico-biologico e impermeabile rispetto alle possibilità di innestare un più fecondo dialogo interdisciplinare. In pratica, si è proceduto all’eliminazione di tutto quanto poteva richiamare un quadro “evolutivo/evoluzionistico”, senza fare alcuna distinzione tra modelli ideologici e falsificati e programmi di ricerca scientifici e verificati.
Il risultato è che ancora oggi, come hanno scritto Bloch e Sperber, «Sembra essere presente in molti antropologi sociali e culturali una sorta di orrore sacro nei confronti di qualsiasi suggestione che comporti un fattore genetico per la spiegazione di quanto ritenuto antropologicamente significativo. Ciò colpisce particolarmente nell’area della parentela, data la sua importanza sia da un punto di vista culturale che biologico. Questo orrore si spiega [storiograficamente] in parte per il fatto che gli approcci “biologici” sono stati spesso conniventi con vari tipi di razzismo e anche per il frequente e basilare fraintendimento della complessità dei dati culturali e del significato della storia nei sistemi culturali umani da parte dei molti che hanno intrapreso tali percorsi» [10]. Per quanto riguarda la cosiddetta “accusa razzista” all'evoluzione rimandiamo a ciò che abbiamo già annotato in questo post.
Invece, dall’altra parte della spiegazione, per semplificare, emerge un’accusa anacronistica e francamente disonesta. In breve, l’allontanamento delle discipline umanistiche dalle scienze biologiche ha sfruttato il seguente inganno intellettuale: la biologia evoluzionistica sarebbe antidemocratica perché (geneticamente e/o deterministicamente) contraria al ruolo positivo svolto dell'educazione nella formazione degli individui. Una visione errata e profondamente semplicistica che ignora la complessa storia della ricerca disciplinare (che da decenni ha accolto lo studio dell'aspetto cooperativo accanto a quello competitivo) [11], e che, come sintetizza Peter Singer, si basa storicamente su quell’«errore comprensibile, ma fatale, […] consistito nel fatto di [aver] accett[ato] le tesi della destra, a cominciare dall’idea che la lotta darwiniana per l’esistenza corrispondesse a quella visione della natura suggerita dalla memorabile (e predarwiniana) frase di Tennyson “Nature, red in tooth and claw” (la natura dai denti e dagli artigli rossi di sangue)» [12].

Alla fine, il modello antropologico della tabula rasa è andato in crisi di fronte alle scoperte sperimentali provenienti dalla psicologia dello sviluppo (per cui «l’acquisizione delle conoscenze da parte del bambino è guidata da disposizioni cognitive specifiche per dominio» [13] – vedremo nei prossimi post il significato di queste scoperte), dalla comparazione con l’etologia cognitiva, che sta chiarendo i pattern cognitivo-comportamentali e sociali in comune con i primati non-umani [14], e dal fatto che la genetica popolazionale ha divelto con forza qualunque velleitaria e distorta lettura razzista dei dati antropologico-evolutivi: come ha sintetizzato Guido Barbujani, «in Africa c’è più diversità che in qualunque altro continente, e spesso le differenze genetiche fra popolazioni africane sono grandi quanto quelle fra popolazioni di continenti diversi. Le varianti geniche che troviamo in Europa e in Asia sono sottoinsiemi delle varianti africane più qualche allele che, con ogni probabilità è comparso in tempi relativamente recenti […]» [15]. Quest'ultimo punto sembra trovare conferme anche da recenti analisi linguistiche, per cui, a quanto risulterebbe, non è solamente la diversità genotipica a ridursi progressivamente man mano che ci si allontana dal continente africano, ma anche la ricchezza dei fonemi che compongono le lingue. Si tratta di un fenomeno noto in genetica come effetto del fondatore in serie o seriale (serial founder effect), ossia la perdita di parte della diversità genetica durante la colonizzazione delle terre emerse a partire da ristrette popolazioni di esseri umani usciti dall’Africa [16].
E da ultimo, come ha icasticamente annotato Pinker, l’idea stessa di tabula rasa, invece di porsi come baluardo della libertà democratica, ha più spesso rivelato il suo lato oscuro, ossia il «vuoto che presupponeva nella natura umana è stato più che volentieri riempito dai regimi totalitari, e essa non ha fatto nulla per impedire i genocidi [...]. Il suo corollario, il Buon selvaggio, invita a disprezzare i principi della democrazia [...]. Ci rende ciechi sulle nostre debolezze cognitive e morali. E, di fronte a problemi che richiedono interventi, fa prevalere stupidi dogmi sulla ricerca di soluzioni praticabili» [17].

[1] Tooby, John e Leda Cosmides, The Psychological Foundations of Culture, in Barkow, Jerome H.; Cosmides, Leda e John Tooby (eds.), The Adapted Mind: Evolutionary Psychology and the Generation of Culture, Oxford University Press, Oxford-New York 1992 , pp. 19-136 (cit. in Sperber, Dan e Lawrence Hirschfeld, The Cognitive Foundations of Cultural Stability and Diversity, in «Trends in Cognive Science», 8, 1, January, pp. 40-46, 2004, p. 40).
[2] Pinker, Steven, Tabula rasa. Perché non è vero che gli uomini nascono tutti uguali, Mondadori, Milano 2006 (ed. orig. The Blank Slate: The Modern Denial of Human Nature, Viking, New York 2002; Penguin Books, London 2003)
[3] Bloch, Maurice e Dan Sperber, Kinship and Evolved Psychological Dispositions: The Mother’s Brother Controversy Reconsidered, in «Current Anthropology», 43, 5, Dec., 2002, pp. 723-748; p. 725.
[4] Ibidem.
[5] Biondi, Gianfranco e Olga Rickards, L’errore della razza. Avventure e sventure di un mito pericoloso, Carocci, Roma 2011
[6] Milner, Richard, s.v. “Just-so” Stories, in id. (ed.), Darwin’s Universe: Evolution from A to Z, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2009, p. 252
[7] Pievani, Telmo, Introduzione alla filosofia della biologia, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 222 (2005).
[8] Cfr. Singer, Peter, Una sinistra darwiniana. Politica, evoluzione e cooperazione, Edizioni di Comunità, Torino 2000, p. 33 (ed. orig. A Darwinian Left: Politics, Evolution and Cooperation, Weidenfeld & Nicholson, London 1999).
[9] Lévi-Strauss, Claude, Razza e storia, in id., Razza e storia e altri studi di antropologia, a cura di P. Caruso, Einaudi, Torino 1967, pp. 99-141; p. 109 (riprodotto anche in id., Razza e storia. Razza e cultura, Einaudi, Torino 2002; ed. or. del testo Race et histoire, UNESCO, Paris 1952, riprodotto in id., Race et histoire, Gallimard, Paris 1987, 2006).
[10] Bloch e Sperber, Kinship and Evolved Psychological Dispositions, cit., p. 746.
[11] Cfr. ad es. Martin A. Nowak con Roger Highfield, Supercooperatori. Altruismo ed evoluzione: perché abbiamo bisogno l’uno dell’altro, Codice edizioni, Torino 2012 (ed. or. Supercooperators: Altruism, Evolution, and Why We Need Each Other, Free Press, New York- London 2011).
[12]  Singer, Una sinistra darwiniana, cit., p. 19. Cit. di Alfred Tennyson da In Memoriam A.H.H. (1849).
[13] Sperber e Hirschfeld, The Cognitive Foundations of Cultural Stability and Diversity, cit., p. 40.
[14] Ibi: 44.
[15] Barbujani, Guido, L’invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana, Bompiani, Milano 2008, p. 127 (2006).
[16] Atkinson, Quentin D., Phonemic Diversity Supports a Serial Founder Effect Model of Language Expansion from Africa, in «Science», 332, 15 April, 2011, pp. 346-349.
[17] Pinker, Tabula rasa, cit., p. 515.

Artt. indicizzati in Research Blogging:
Sperber D., & Hirschfeld L.A. (2004). The cognitive foundations of cultural stability and diversity. Trends in cognitive sciences, 8 (1), 40-6 PMID: 14697402
Bloch, M., & Sperber, D. (2002). Kinship and Evolved Psychological Dispositions: The Mother’s Brother Controversy Reconsidered. Current Anthropology, 43 (5), 723-748 DOI: 10.1086/341654 Atkinson, Q.D. (2011). Atkinson, Quentin D., Phonemic Diversity Supports a Serial Founder Effect Model of Language Expansion from Africa. Science, 332 (6027), 346-349 DOI: 10.1126/science.1199295

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