Pagine

sabato 31 maggio 2014

Et voilà! Il coniglio dal cappello, ovvero a cosa fare attenzione quando si tratta di metodologia nella ricerca storica

«Venghino signori, venghino! Le mirabolanti imprese di magia, prestidigitazione e relativismo storico postmodernista!».
Ok, forse la didascalia originale non recitava proprio così...
Immagine originale datata 1899 e restaurata digitalmente dagli utenti trialsanderrors e Morn di Wikipedia.
ResearchBlogging.org
Alla fine del post precedente (se non l’avete letto, eccolo qui), ci eravamo lasciati pensando a come il modello di studio storiografico invocato dal gruppo delle Annales si possa considerare ipso facto una scienza. Secondo alcuni commentatori, la questione è fuori discussione già in partenza. Immanuel Wallerstein, ad esempio, ha descritto nel modo seguente il modello braudeliano di una storiografia scientifica:
«la storia per Braudel era una scienza. Non aveva timore del termine “scienza”, premesso che uno sia in grado di comprendere come vada fatta la scienza, ossia in relazione con i dati reali. Si deve procedere dalla teoria ai dati e poi di nuovo alla teoria. Si deve continuare ad andare avanti e indietro fino a che, alla fine, non ne esce fuori qualcosa di plausibile» [1].
Attenzione, però, perché plausibile non significa veritiero o empiricamente fondato. Limitarsi ad una immane raccolta di dati non equivale a sperare che il pattern plausibile emerga da sé, come il proverbiale coniglio dal cappello: quali sarebbero i criteri precisi per arginare il wishful thinking mediato dagli apriorismi epistemologici e metodologici o dai bias psicologici che tendono a confermare la propria visione dei dati? Non è detto che il proprio punto di vista sia quello giusto.

Prima delle Annales, in effetti, la storiografia in quanto disciplina accademica esaminava i dati e giudicava i fatti storici sulla base di criteri aprioristicamente monocausali. John Arnold, nel suo breve volume introduttivo alla concezione disciplinare della storia (o, per dirla altrimenti, un libro dedicato alla storia della storia), ha scritto che lo studio della mentalité tipico delle Annales «è sorto come una via di fuga dal senso comune che informava l’approccio della storia politica, il quale assumeva che i re, i consiglieri e i governanti decidessero sulla base delle medesime basi razionali dello storico» [2]. Ora, se c’è una cosa che le scienze cognitive hanno confermato e dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio è proprio la decostruzione del mito dell’agente sociale (economico o storico) che opera sulla base della scelta razionale. E fin qui non ci piove, con buona pace di chi ancora usa la rational choice theory come paravento per giustificare la legittimità razionale di particolari scelte ideologiche o teologiche. Così come è palese affermare (con il senno di poi) che la storiografia ottocentesca dei primordi, presa tra gli strascichi del romanticismo misticheggiante e l’invenzione (e il furore) delle identità nazionali, non fosse poi molto oggettiva – e d’altra parte si può discutere quanto quella disciplina in fasce fosse piuttosto una Geistwissenschaft, nella quale la revisione dei dati rimane confinata all’interno dell’arena dei dibattiti e delle discussioni tipicamente umanistiche, che una Naturwissenschaft, ossia una ricerca basata sulla verifica matematica dei dati empirici e sulla costruzione di modelli [3].

Il punto è che nel periodo press’a poco coevo alla svolta delle Annales (fondate nel 1929) ha cominciato a far presa un certo relativismo storico che ha considerato come un miraggio quell’oggettività cui aspirava la storiografia fin dalla sua nascita come disciplina accademica. Insomma, cercare il fatto accaduto ed asseverarne la veridicità sarebbero una fata morgana: esistono i documenti che descrivono i fatti, non i fatti stessi, irrintracciabili, né tantomeno la “verità oggettiva”. Forse l’esempio più eclatante è quello fornito dalla storia delle religioni la quale, dopo un promettente inizio sotto l’egida dell’analisi empirica dei dati, è scivolata velocemente verso un approccio metodologico che, secondo Luther H. Martin, si è tradotto nell’«assemblaggio di un corpus fenomenologico di dati culturali troncati e decontestualizzati, la cui temporalità è stata scartata a favore di affermazioni sulla presunta manifestazione di una sacra realtà sui generis» [4]. Se il documento attesta che il santo ha levitato, allora il santo ha levitato, e se viene descritto che lo sciamano ha proiettato il suo corpo spirituale nell’aldilà (qualunque cosa significhi), allora l’analisi deve riportare il dato filologicamente. Che poi questa filologia abbia rappresentato la breccia per l’ingresso nell’accademia di ogni sorta di fideismi criptote(le)ologici, o di simpatie per il paranormale, è oggi un fatto appurato [5]. In questo caso, il matrimonio entusiastico con quei bias cognitivi tipici del senso comune, e che la ricerca storiografica dovrebbe invece sforzarsi costantemente di arginare e controllare, continua ancora oggi – e non a caso la sottodisciplina storiografica è entrata in una crisi probabilmente irreversibile [6]. Per quanto sorprendente, questo è solo un caso storiografico tra i molti.

Dopo la seconda metà del Novecento l’esplosione del modello post-strutturalista ha condotto alla diffusione intellettuale del variegato ambito postmodernista, i cui sviluppi più estremi hanno condotto a interpretare la scienza come lo strumento privilegiato dall’Occidente per gestire le relazioni di potere con il mondo intero, e l’immagine degli scienziati è diventata quella di agenti profondamente condizionati dai vincoli sociali e dalla cultura loro contemporanea. Lo studio scientifico del dato storico e la lezione delle Annales sono così naufragati.
Certo, anche nella scienza sono possibili manomissioni ideologiche, teologiche, fideistiche o politiche più o meno palesi, ma rendersi conto degli errori umani (anche di quelli commessi dagli scienziati, soggetti come tutti gli esseri umani a errori di valutazione) e, di conseguenza, decostruire e correggere le manipolazioni intenzionali non vuol però dire che la scienza sia da rifiutare tout court, come vorrebbero invece certe frange intellettuali postmoderniste. La sociologia della scienza, ossia il ritenere che le idee nascono e si diffondono in un determinato contesto sociale che le vincola e le veicola, è ormai un dato acquisito nelle analisi storiografiche, ma non si può sminuire il fatto che la maggior parte del post-strutturalismo umanistico abbia colpevolmente condotto agli eccessi questa tematizzazione, arrivando a ritenere tutta la scienza come una creazione intellettuale condizionata e perciò ontologicamente discutibile, non veritiera o del tutto superflua, e revisionando o negando la validità analitica degli schemi storiografici (e scientifici).

Ora, la revisione dei dati e dei modelli acquisiti non è solo legittima ma necessaria; senza scomodare Popper e Kuhn (per ora), si può semplicemente affermare che la revisione non deve travalicare i confini delle prove documentarie valutate con raziocinio scientifico (ossia, controllando i bias psicologici impliciti cui tutti, bene o male, siamo soggetti) e ricordando, come ha affermato Carl Sagan, che affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie. Le quali, spesso e volentieri, mancano. Volere ardentemente che un determinato fatto abbia avuto luogo, anteponendo fede o apriorismi ideali e ideologici ai dati che si possiedono, non equivale a inverarlo! Come ha scritto Eva Cantarella a proposito dell’ipotesi di Marjia Gimbutas in merito ad un (idilliaco) matriarcalismo preistorico eurasiatico, «[…] la storia non è fatta di desideri. È scritta su documenti, su prove, o quantomeno su indizi, molti e concomitanti. Che nella fattispecie, purtroppo, sembrano insufficienti» [7].

Invece, molto più di quanto non abbia fatto il relativismo storico precedente, la breccia aperta dal postmodernismo si è rivelata difficilmente sanabile. Tutto questo, come hanno notato Michael Shermer e Alex Grobman in un volume lodevolmente impegnato nella demolizione scientifica dei fallaci presupposti epistemologici propugnati dai negazionisti della Shoah, è stato il “terreno di coltura” dei negazionismi storiografici più deleteri e vergognosi, dello scetticismo umanistico nei confronti della scienza (prendiamo solo la sconcertante diffusione dell’antivaccinismo) e del credito intellettuale concesso a quelle che altrimenti sarebbero pseudostorie e vaneggiamenti fanta-cospirazionisti senza diritto di cittadinanza nel sapere accademico [8]. Il quadro si è fatto molto confuso, e nel calderone postmodernista c’è finito tutto e il contrario di tutto.

Pensiamo all’intreccio nefasto tra le legittime e necessarie rivendicazioni dei diritti politico-sociali e le ideologie più retrograde (come quelle creazioniste e negazioniste). Le idee dell’antropologo nativo statunitense Vine Deloria Jr. rappresentano bene questo filone: secondo Deloria la creazione divina attestata nelle mitologie locali confermerebbe la presenza delle popolazioni native sul suolo americano da sempre (dove avrebbero convissuto con i dinosauri) e, dato che le mitologie sono tutte ugualmente valide, la scienza occidentale sarebbe una mitologia come le altre [9]. Chiaro, c’è dietro tutta una disgustosa pagina di sopraffazione, sterminio e conquista, ma perché reagire confondendo il doveroso impegno sociale con la negazione della scienza? Alan Sokal, citando un altro lavoro, ha commentato nel migliore dei modi possibili: «Non c’è nulla di veritiero, saggio, umano» nel garbuglio intenzionale dell’avversione contro ogni forma di ingiustizia e di oppressione con «l’ostilità verso la scienza e la razionalità (che è nonsense)» [10]. Ancora, la frangia più antiscientista del femminismo postmodernista ha reagito contro il maschilismo che ancora funesta la società occidentale affermando che la scienza sarebbe uno strumento di dominio androcentrico e niente di più (ne avevamo parlato qui qualche tempo fa). Richard Dawkins ha condensato bene l’eventuale risposta nei seguenti termini: «No, la ragione e la logica non sono strumenti maschili di oppressione, e ipotizzare che lo siano è un’offesa alle donne» [11]. Infine, si prenda il modello di Jared Diamond che recupera e aggiorna l’intuizione braudeliana e della scuole delle Annales riguardo all’analisi dei vincoli fisico-geografici e la riadatta in chiave ecologico-evoluzionista, evitando la trappola dell’essenzialismo e puntando sulla contingenza storica [12]. Anche qui, l’accusa postmodernista si è scagliata contro il determinismo ambientale (che negli ambiti storiografici dominati dall’idea della tabula rasa risuona nella stessa nota negativa che connota il determinismo genetico, come ha correttamente sintetizzato Massimo Pigliucci [13]), fino a raggiungere la veemenza spropositata di una recensione all’ultimo libro di Diamond intitolata con uno sconcertante turpiloquio [14], e ove le tesi di Diamond vengono retoricamente rilette (e distorte) alla luce della giustificazione scientifica della disuguaglianza mondiale imposta dal dominio borghese. Senza la minima pretesa di fornire contro-argomentazioni scientificamente valide (tra parentesi, la domanda non è come diamine sia possibile che un editoriale accademico venga intitolato con un insulto ad personam, quanto cosa può succedere quando si adottano i criteri delle pubblicazioni scientifiche per adornarsi del prestigio intellettuale senza però avere alcuna padronanza del processo di revisione).

Ovviamente il quadro descritto è una collazione generalizzante e discontinua di esempi non edificanti (e di certo anche il modello di analisi di Diamond non è del tutto esente da critiche, benché su di un livello scientificamente fondato [15]). Come dicevamo altrove, l’autocritica scaturita dal post-strutturalismo è stata un toccasana contro molti vieti preconcetti diffusi nel mondo umanistico per auctoritas imposta, per accondiscendente fiducia o per inerte pigrizia. Il decostruzionismo ha anche fornito gli strumenti intellettuali per smascherare le strategie di potere che si instaurano tra dominanti e dominati, per mettere a nudo certi schemi sociali relativi alla gestione dei rapporti di forza intellettuale e per disarmare le rivendicazioni metafisiche di determinate correnti ideologiche che possono infiltrarsi anche nella ricerca accademica. Il decostruzionismo, specialmente nell’analisi letteraria, si è poi rivelato utile per effettuare un’operazione di reverse engineering sui documenti del passato che possediamo: non sempre la realtà descritta nei documenti può essere presa per buona così come ci è stata tramandata, ma può essere stata manipolata intenzionalmente o inconsciamente. Quindi anche nel relativismo storiografico c’è certamente qualcosa da salvare.

Ma allora, qual è il rapporto corretto tra storia, ciò che è accaduto nel passato, e storiografia, ossia la descrizione di quanto è accaduto, e in quale modo è possibile superare la dicotomia tra pretesa di oggettività assoluta e relativismo degli agenti storici?
Questa volta la risposta è più facile e immediata, perché ci viene in soccorso uno schema sintetico prodotto da Shermer e Grobman, che riportiamo di seguito:
  1. «La storia esiste sia all’interno della mente degli storici che al di fuori di essa;
  2. «Gli storici scoprono e descrivono il passato, esattamente allo stesso modo in cui gli scienziati della natura scoprono e descrivono i fenomeni naturali;
  3. «Gli storici (e gli scienziati della natura) possono scoprire e descrivere una determinata frazione del passato tramite i dati che hanno a disposizione;
  4. «Poiché gli storici, come gli altri esseri umani, non possono liberarsi dai pregiudizi, il problema diventa la qualità e la quantità del pregiudizio. Con che metodi e con quali testimonianze gli scienziati – storici o sperimentali – giungono a particolari conclusioni? E in quale contesto culturale? Con i fondi di chi?
  5. «Dato il presupposto scientifico di fondo secondo cui tutti gli effetti nell’universo hanno una causa anche gli eventi incerti del passato devono avere una struttura causale;
  6. «Riconosciuta la natura oggettiva della scoperta e la natura soggettiva della descrizione, gli storici possono scoprire e descrivere questa struttura causale;
  7. «Il mestiere degli storici consiste nel presentare il passato come un’interpretazione provvisoria di “cosa effettivamente è avvenuto”, in base alle prove attualmente a disposizione, in maniera molto simile a ciò che fanno gli scienziati della natura con le prove del mondo naturale» [16].
A garanzia dell’eptalogo che dovrebbe adornare l’ingresso di ogni dipartimento universitario di storia che si rispetti (nelle cui aule troppo spesso risuonano interpretazioni apodittiche e just-so stories tautologiche) sta la valutazione scientifica della convergenza delle prove (o, se preferite la terminologia utilizzata dal filosofo della scienza William Whevell, “concordanza di induzioni”), che non è altro che la medesima tecnica impiegata da tutti gli altri scienziati che si occupano del passato per dimostrare che un dato avvenimento ha avuto luogo, quando è accaduto e in quale modo si è svolto [17].
Ferma tutto un momento! Allora esistono altri scienziati che si occupano del passato? Forse possono aiutarci con l’annosa questione delle previsioni basate su calcoli scientifici! Forse sì, e ce ne occuperemo nel prossimo post.

[1] Wallerstein 2009: 169-170.
[2] Arnold 2000: 99.
[3] Shermer e Grobman 2002: 60.
[4] Martin 2012: 156.
[5] Coyne 2014.
[6] Martin 2012: 166; Martin e Wiebe 2012.
[7] Cantarella 2010: 21.
[8] Shermer e Grobman 2002: 64.
[9] Cfr. Shermer, Grobman 2002: 309; Sokal 2010: 108-109.
[10] Sokal 2010: xv, nota n. 13; cit. da Albert 1996: 69.
[11] Dawkins 2002: 175.
[12] Pievani 2014: 215-234.
[13] Pigliucci 2010: 50.
[14] Correia 2013. Il libro è Diamond 2014.
[15] Pievani 2014: 219.
[16] Shermer e Grobman 2002: 68-69.
[17] Ibi: 70.

Albert, Michael. (1996). Science, Postmodernism and the Left. Z magazine (9) 7-8: 64-69

Arnold, John. (2000). History: A Very Short Introduction. Oxford: Oxford University Press

Cantarella, Eva. (2010). Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia. Milano: Feltrinelli (1a ed. 1996)

Correia, D. (2013). F**k Jared Diamond Capitalism Nature Socialism, 24 (4), 1-6 DOI: 10.1080/10455752.2013.846490

Coyne, Jerry. (2014). Science is Being Bashed by Academics Who Should Know Better. New Republic, April 3. http://www.newrepublic.com/article/117244/jeffrey-kripals-anti-materialist-argument-promotes-esp

Dawkins, Richard. (2002). L’arcobaleno della vita. La scienza di fronte alla bellezza dell’universo. Milano: Mondadori (1a ed. 2001; ed. orig. 1998. Unweaving the Rainbow: Science, Delusion and the Appetite for Wonder. Boston: Houghton Mifflin)

Diamond, Jared. (2013). Il mondo fino a ieri. Cosa possiamo imparare dalle società tradizionali? Torino: Einaudi (ed. orig.  2012. The World until Yesterday: What Can We Learn from Traditional Societies? New York: Viking Press)

Martin, Luther H. (2014). The Future of the Past: The History of Religions and Cognitive Historiography. Deep History, Secular Theory Deep History, Secular Theory: Historical and Scientific Studies of Religion. Boston- Berlin: De Gruyter, 343-357 DOI: 10.1515/9781614515005.343 (1a ed. (2012). Religio. Revue pro religionistiku. (XX) 2: 155-172)

Martin, L.H., & Wiebe, D. (2012). Religious Studies as a Scientific Discipline: The Persistence of a Delusion. Journal of the American Academy of Religion, 80 (3), 587-597 DOI: 10.1093/jaarel/lfs030

Pievani, Telmo. (2014). Evoluti e abbandonati. Sesso, politica, morale: Darwin spiega proprio tutto? Torino: Einaudi

Pigliucci, Massimo. (2010). Nonsense on Stilts: How to Tell Science from Bunk. Chicago-London: The University of Chicago Press

Shermer, Michael e Alex Grobman. (2002). Negare la storia. L’olocausto non è mai avvenuto: chi lo dice e perché. Roma: Editori Riuniti (ed. orig. 2000. Denying History: Who Says the Holocaust Never Happened and Why Do They Say So? Berkeley-Los Angeles-London: University of California Press).

Sokal, Alan. (2010). Beyond the Hoax: Science, Philosophy and Culture. Oxford-New York: Oxford University Press (1a ed. 2008).

Wallerstein, Immanuel. (2009). Braudel on the Longue Durée: Problems of Conceptual Translation. Review (Fernand Braudel Center) (32) 2: 155-170

Nessun commento:

Posta un commento