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mercoledì 24 giugno 2015

Jurassic World: il monster movie che ci meritiamo, tra iperrealtà postmoderna e nostalgia riciclata

Jurassic World, pre-release poster. © Universal, 2014-2015. Fonte: Wired.co.uk.

ResearchBlogging.org 1993, ovvero il successo dei «dinosauri color verde-cacca»

Quando uno studente del paleontologo e storico della scienza Stephen Jay Gould andò a vedere Jurassic Park nel 1993, questi commentò che gli animali raffigurati nel film – e in particolare i Velociraptor – erano stati rappresentati con il «solito vecchio, scadente, color dinosauro verde-cacca» [1]. Nel riportare la notizia per la dotta recensione-fiume pubblicata sulla New York Review of Books, Gould notò che Spielberg aveva provato a sperimentare con manti e colorazioni più simili a quelle che ci aspetterebbe da dinosauri strettamente imparentati con gli uccelli, ma che la decisione alla fine era stata cassata a favore delle solite, antiquate colorazioni da rettili monocromatici [2]. Evidentemente, nonostante l’eliminazione della lingua sibilante da serpente che era stata donata ai Velociraptor, e che faceva bella mostra di sé nella prove girate per la nota scena dell’attacco in cucina [3], non si era disposti a fare un ulteriore passo in avanti per sbarazzarsi della cinematograficamente comoda ma del tutto fuorviante ofidiofobia, evidente nella pelle lucida e rettiliana dei famelici carnivori. Questo perché Spielberg aveva tracciato una linea di demarcazione tra la scienza e lo schermo, preferendo in caso di dubbio il secondo alla prima e pensando che dinosauri troppo colorati non sarebbero stati adatti per spaventare la gente [4].

Lo stesso è capitato con tutta una serie di licenze anatomiche – paleontologicamente disastrose – che hanno premiato lo spettacolo a discapito del contenuto scientifico: le star carnivore del film si sono viste variamente afflitte da mancato tegumento aviano, gorgiere e veleni, dimensioni e forme alterate, labbra e smorfie mammaliane, bizzarre inferenze neuroftalmologiche (“Non ci vede se non ci muoviamo”, dice un sicurissimo paleontologo Alan Grant al trafelato dinosaurofilo Tim Murphy di fronte al Tyrannosaurus rex [5]), pronazioni del polso impossibili da realizzare in vita ma utilissime per aprire le porte, e quant’altro. Il cinema ha le sue regole, e Spielberg ha adattato la realtà per venire incontro alle esigenze strutturali della sceneggiatura, sfruttando abilmente la nuova immagine dinamica dei dinosauri che proveniva dalla Dinosaur Renaissance, il movimento paleontologico che mirava a svecchiare ed aggiornare l’immagine stereotipata dei dinosauri come animali a sangue freddo. Contestualizzando le esigenze di copione, si comprende anche che all’epoca la fauna carismatica di dinosauri era effettivamente ridotta all’osso e arcinota da decenni (l’olotipo di Tyrannosaurus rex era stato descritto nel 1905), cosa che ha contribuito a rendere un pugno di dinosauri icone leggendarie, ma che ha anche spinto le menti dietro al progetto di Jurassic Park verso la spettacolarizzazione effettistica per impressionare lo spettatore di fronte ad animali ormai comuni e già noti.

Ma nessuna delle stravaganti migliorie di trucco, parrucco e belletto ha impedito al film di Spielberg di diventare quella pietra miliare nella storia del cinema che è diventata. Perché c’era un secondo, forte messaggio dietro alle potenti e dinamiche immagini rappresentate sullo schermo: Jurassic Park ha rappresentato un salto di qualità senza pari per i dinosauri del grande schermo, promossi da mero supporto per monster movie a personaggi carismatici, dinamici, con schemi cognitivi propri (specialmente per il Tyrannosaurus rex) e al centro di una complessa metariflessione filosofica sui rapporti tra scienza, industria e spettacolo [6]. Senza considerare che era pur sempre il 1993 e, se aggiungiamo al mix degli ingredienti la realizzazione degli strabilianti effetti speciali digitali, tutto poteva essere compreso e scusato dal punto di vista filmografico, persino il colore «verde-cacca».

Dal parrucchino alla politica del “niente piume”

Flash forward. Nel 2004, tre anni dopo l’uscita del capitolo artisticamente meno riuscito della trilogia di Jurassic Park, orfano di Crichton e realizzato da Joe Johnston, il paleontologo Robert T. Bakker lamentava l’aggiunta posticcia di un «parrucchino da roadrunner» nei nuovi e colorati Velociraptor presentati da Johnston (il roadrunner è il cuculide Geococcyx californianus, reso immortale da Beep Beep dei cartoni animati di Wile E. Coyote). Bakker aveva compreso però le difficoltà nel realizzare in modo efficace il piumaggio aviano secondo la tecnologia digitale disponibile all’epoca, e preconizzava che eventuale compito del quarto episodio sarebbe stato quello di mettere in mostra un convincente – e scientificamente più corretto – tegumento aviano [7]. Una previsione che, purtroppo, si è rivelata assai infelice. Undici anni dopo, con un laconico tweet, il regista Colin Trevorrow – ricevuta l’investitura e il nulla osta da Spielberg in veste di produttore – annuncia che non ci sarebbero state piume nel nuovo episodio del franchise, intitolato Jurassic World (2015).

Pare che Trevorrow abbia ritenuto essenziale la fedeltà morfologica degli animali ai modelli del primo film, sancendo nel contempo il ritorno al «solito vecchio, scadente, color dinosauro verde-cacca» e sconfessando le pur minime innovazioni del lungometraggio di Johnston [8]. Il successo imprevisto del quarto episodio lascia intendere che la coloratissima guida bakkeriana ai dinosauri di Jurassic Park di cui parlavamo a queste coordinate, sia destinata a restare chiusa nel cassetto ancora per lungo tempo. E il problema dell’assenza di piume è solamente l’ultimo di una lunga lista di errori anatomici, in parte ereditati dai primi film, che hanno sollevato le critiche di molti paleontologi e specialisti che hanno visto il nuovo film [9].

Anteponendo la continuità morfologica dei dinosauri con quelli del primo film al problema dell’aggiornamento scientifico, Trevorrow ha di fatto avallato l’ambiguità di uno zoo preistorico aperto appositamente per vedere degli animali percepiti – e venduti – come reali, ma popolato da ricostruzioni che sono tutto fuorché reali o plausibili. Certo, l’escamotage lo offre il personaggio del genetista Henry Wu nle film stesso, quando dice chiaramente che nel parco nulla è mai stato reale ed è tutto ricostruito ad uso e consumo dello spettacolo, cogliendo uno spunto caro a Crichton e già presente nel primo romanzo (anche se nel romanzo si spingeva per animali più docili e mansueti). Come ha notato con sagacia Brandon Kempner, qui si consuma il paradosso dell’iperrealtà, ipotizzata dal filosofo Jean Baudrillard (1929-2007) e incarnata appieno dai dinosauri del franchise di Jurassic Park, a partire dai romanzi stessi:
«[…] Crichton ci consegna animali che non sono mai esistiti. Per dirla nei termini di Baudrillard: il raptor ricoperto di scaglie è un esempio dell’iperreale. Non è nient’altro che un’immagine, un’invenzione degli esseri umani. A dispetto delle sue intenzioni, Crichton ha creato qualcosa di assolutamente irreale. Che cos’altro avrebbe potuto fare? A meno di non andare indietro nel tempo fino a 65 milioni di anni fa, dobbiamo accontentarci di ricreare i dinosauri in modo creativo e inaccurato. La crisi, tuttavia, risiede nel modo in cui crediamo a quelle immagini. Che cos’è che la gente ama veramente, la realtà – i fossili – o le immagini spettacolari? Penso che la risposta sia abbastanza chiara: amiamo le immagini» [10].
Peraltro, esattamente come la prosa di Baudrillard abbonda di riferimenti pseudoscientifici che non hanno alcun valore [11] se non quello, peraltro discutibile, di sfruttamento del gergo scientifico per ammantarsi di prestigio letterario [12], ci si può domandare cosa resti di un parco popolato da simili animali, una volta decostruito e spogliato della postmoderna iperrealtà delle sue attrazioni.

La grande paura degli OGM assassini

Ad un certo punto nel film, Trevorrow propone un’interessante benché fugace riflessione sull’esplosione della cultura dei social network dominata dal selfie e dalla condivisione spasmodica che inghiotte tutto per dimenticare immediatamente, immortalata nella scena metacinematografica del mosasauro che divora uno squalo bianco (no, il mosasauro non era un dinosauro). Ecco che, dopo un decennio di apertura, il parco ha perso la sua portata spettacolare, e la gente assuefatta all’incredibile quotidiano della Rete (poco importa quanto reale possa essere), pare essersi disaffezionata alle attrazioni offerte dallo zoo preistorico. Per ovviare alla diminuzione dei visitatori e rialzare il fattore “wow!” del parco viene quindi deciso di produrre ibridi genetici miscelando DNA di diversi animali potenzialmente letali. Segue la solita fuga infernale del mostro assassino, cui si è giunti sfruttando il frusto luogo comune degli scienziati incoscienti, manipolati dal potere finanziario o “pazzi”, pronti a vendersi per denaro in nome di una ricerca alla Frankenstein. Poco importa se, come hanno catturato in modo brillante Dario Bressanini e Beatrice Mautino nel loro recentissimo Contro natura, è dai tempi della conferenza tenutasi nel febbraio del 1975 ad Asilomar (California) che una serie di accordi e misure preventive sono in atto proprio per evitare simili exploit, rivelando nel contempo la “coscienza sociale” di genetisti e biotecnologi sensibili alle «possibili implicazioni ambientali, sociali e sanitarie delle proprie ricerche. Emergeva così un’immagine del ricercatore lontana mille miglia dallo stereotipo caro a molti romanzi di fantascienza […]» [13]. Nulla di tutto ciò nel franchise dedicato al parco preistorico più famoso del mondo. Una volta intrapresa la strada della produzione di soggetti iperreali, la creazione di mostri potenzialmente assassini è il passo più naturale – e il più stupido – da compiere: la strage del primo parco, esplicitamente citata nel film, non pare aver insegnato nulla agli investitori. Altro che fare affidamento sulle elucubrazioni reazionarie del caosologo Ian Malcolm (alter ego di Crichton), che infiorettano le pagine dei due romanzi e delle rispettive trasposizioni cinematografiche; durante la visita al parco sarebbe stato meglio avere a portata di mano il libretto sulle tre leggi della stupidità umana di Carlo M. Cipolla [14].

Scherzi a parte, ci si può domandare quale senso abbia dover re-immaginare forzosamente dinosauri “geneticamente modificati” dopo le mirabolanti scoperte paleontologiche provenienti dal Liaoning cinese, con i suoi teropodi maniraptori piumati splendidamente conservati, dopo che i melanosomi che ci hanno restituito una traccia per quanto flebile del colore esibito dal piumaggio di alcuni dinosauri in vita, o dopo la scoperta delle tipologie differenti di tegumento piumato che ricoprivano anche dinosauri lontani dalla linea filogenetica che avrebbe portato agli uccelli [15]. Non c’era forse abbastanza materiale per offrire al pubblico del parco e agli spettatori in sala qualche nuova meraviglia paleontologica un filo meno iperreale?

... purtroppo no, i dinosauri di Jurassic World restano ancorati ai desueti canoni risalenti a decenni fa. Persino Dinopigliatutto, versione italiana di Swap It! in allegato a Dinosauri!, aveva dalla sua dinosauri piumati (qui, Syntarsus in versione meme bakkeriano e Avimimus). Ed era il 1992.
©1992 Orbis Publishing;  © 1993 Istituto Geografico DeAgostini.
E allora, quale successo potrebbe avere il reale Jurassic World oggi, con questi mostri desueti, falsificati dall’incremento delle conoscenze paleontologiche (che nel film vengono svilite a favore di una mitizzazione della genetica), quando tutti i paleontofili avvezzi alla letteratura scientifica recente saprebbero indicarne a menadito palesi errori (ad eccezione del ragazzino protagonista del film, che a Dinopigliatutto verrebe probabilmente sonoramente battuto da Tim e Alexis Murphy)? Il bauplan degli animali di Jurassic World è vecchio di quarant’anni, quando non meramente ricalcato sui modelli cinematografici di venti anni prima, con tutte le loro licenze artistiche, o quando è talmente strampalato da non avere alcuna possibile giustificazione, come nel caso dello pterosauro Dimorphodon (no, nemmeno il Dimorphodon è un dinosauro) [16]. Come ha suggerito Victoria Arbour sul suo blog Pseudoplocephalus, Jurassic World è un monster movie che odia i dinosauri [17], sia nella vesti della finzione della sala cinematografica (ossia, gli animali sono un bene nel quale si è investito e dal quale ci si aspetta una cospicua resa finanziaria), sia nella realtà della cabina di regia (cioè, i dinosauri sono gli animali di Jurassic Park e non gli oggetti definiti dallo studio paleontologico, in quanto tali sottoposti al progressivo accumulo di maggiori conoscenze). Ma se nella realtà il successo clamoroso e inaspettato del lungometraggio ha senz’altro premiato l’operazione nostalgica di Trevorrow, nel mondo della finzione una simile de-estinzione retrograda e non aggiornata, accompagnata da invenzioni iperreali, sarebbe finanziariamente controproducente e non avrebbe molto senso. E allora, nella finzione che sto immaginando, altre società proporrebbero animali dalle fattezze più simili a quelle che avrebbe dovuto avere e dinosauri piumati, e forse, dico forse, avrebbero più successo commerciale, surclassando Jurassic World (se sono riusciti a clonare un mosasauro acquatico, allora non ditemi che non c’è la possibilità di evitare obbrobri dragoneschi come il Dimorphodon).

In entrambi i luoghi esplorati da Jurassic World, il mondo immaginato del parco e la sua controparte reale fatta di pagine di sceneggiatura, c’è un vulnus che mina alle fondamenta l’impalcatura epistemologica dello zoo preistorico, laddove la divulgazione scientifica ha fallito. Il peccato originale, ovviamente, risale alla visione reazionaria che Crichton aveva della scienza e che trapelava dai suoi romanzi dedicati al parco dei dinosauri. Per quanto io stesso li abbia amati, letti e riletti, e nonostante le interessanti verniciature di paleontologia, teoria del caos, genetica e speculazioni finanziarie, queste opere non si discostano più di tanto dal cliché della ribellione del mostro creato dalla spavalderia gagliarda di un Frankenstein che ha giocato con le forze della natura, e che pertanto deve essere punito. Ed Henry Wu, il genetista che lega Jurassic World a Jurassic Park, è solo l’ultimo esponente di una sequela di personaggi che non fanno certo onore all’immagine popolare della ricerca scientifica. Ma se nell’opera di Mary Shelley c’era la visione prometeica di una sfida romantica, sigillata dalla caduta dell’antieroe, qui c’è solo una vago disprezzo per la ricerca scientifica. D’altra parte Crichton era stato molto chiaro quando, invitato nel gennaio 1999 a tenere una lectio magistralis presso l’American Association for the Advancement of Science, disse chiaramente che Jurassic Park era una finzione e che pertanto non aveva alcun senso documentarsi andando a visitare un laboratorio di genetica – perché tanto nessuno sa come creare un dinosauro [18]. Crichton sconfessava così il principio basilare della migliore fantascienza per cui è la verosimiglianza a garantire la sospensione dell’incredulità.

A.A.A. cercasi disperatamente divulgazione scientifica, o di camaleonti e altri scempi

Il re degli ibridi genetici di Jurassic World è il camaleontico Indominus rex, frutto di una manipolazione dei geni di Carnotaurus, Tyrannosaurus, Velociraptor, seppia e quant’altro (anche se il sito virale del film, supervisionato con maggiore attenzione ai dettagli, fornisce una ricetta differente). L’idea di dotare l’animale della capacità di mimetizzarsi alla Predator è nata ripescando un’idea già sfruttata da Crichton nel seguito romanzesco di Jurassic Park, con i cromatofori del cefalopode a rivestire il carnivoro Carnotaurus, probabilmente basata su una peregrina suggestione del dilettante dinosaurofilo Stephen Czerkas [19]. Ma la lingua batte dove il dente duole, e allora se l’inclusione di un ibrido genetico con capacità mimetiche non solleva problemi di sorta, perché non donare ai dinosauri colori brillanti? [20] E poi, vale la pena di ripeterlo, davvero non si poteva trovare qualcosa di più scientificamente onesto, con tutti i reperti fossili in condizioni eccezionali scoperti dopo il 1993? Non era bastata la cocente disillusione del telefilm Terra Nova (2011), prodotto da Spielberg e con il paleontologo John Horner in veste di consulente scientifico ad avallare l’invenzione di dinosauri piuttosto imbarazzanti? Dopo l’uscita del film di Trevorrow, sui social network è impazzato l’hashtag #buildabetterfaketheropod, che ha raccolto decine di esempi di paleoarte scientificamente informata tra il serio e il faceto per dimostrare che, dopo tutto, era davvero possibile fare di meglio [21]. Come abbiamo visto nel fascicolo dedicato ai dinosauri protagonisti del primo lungometraggio, anche Bakker aveva davvero speculato senza posa, ma lo aveva fatto con stile e senza rinunciare al minimo consentito di una sottotraccia naturalisticamente accettabile. Per il 1993, beninteso.
... e poi mi dicono di non chiamarlo monster movie.
Indominus rex, © Hasbro 2015. Fonte: ScreenRant
Ora, uno degli obiettivi che questo blog persegue fin dal suo inizio è una maggiore conoscenza e implementazione divulgativa e accademica della paleontologia e delle altre scienze storiche per comprendere meglio la storia umana. In questo quadro, i dinosauri forniscono un inaspettato bagaglio di fama e immediatezza per riflettere su temi di importanza basilare come le interazioni ecologiche sulla lunga durata e l’estinzione come risultato multicausale di fattori contingenti e vincolanti. La questione è stata trattata in modo elegante nell’ultimo libro del paleontologo Scott D. Sampson, al quale l’autore ha consegnato importanti riflessioni sulla Big History e sulla sua capacità di fornire a tutti gli strumenti più congeniali per collocare la storia umana all’interno dei tempi profondi del cosmo, del pianeta Terra e dell’evoluzione, senza scomodare alcuna lettura teleologicamente disonesta (anche se il paleontologo perora una maggiore alfabetizzazione scientifica della teologia). Sampson propone inoltre il seguente pentalogo, che vale la pena di riportare di seguito per intero, sulle ragioni per cui i dinosauri rappresentano tessere chiave nel mosaico divulgativo, e che fa da contraltare quasi perfetto alla lista crichtoniana ricordata in un post precedente:
«Primo, a differenza di molti argomenti scientifici, i dinosauri ispirano l’immaginazione invece di incutere paura. Secondo, in quanto rappresentanti esemplari della Terra preistorica, i dinosauri costituiscono guide ideali per esplorare il passato profondo. Terzo, i discendenti viventi dei dinosauri, gli uccelli, sono animali benvoluti e appassionatamente osservati, creando un robusto legame tra passato e presente […] Quarto, […] la natura interdisciplinare della paleontologia implica che i dinosauri possono fornire punti di accesso privilegiato a temi differenti quali clonazione genetica e tettonica a placche. Per fornire due esempi puntuali, il mondo del Mesozoico mette a disposizione un modo sorprendentemente istruttivo per discutere del contemporaneo cambiamento climatico mentre l’improvvisa scomparsa dei dinosauri costituisce un punto di partenza naturale per affrontare le estinzioni in corso oggi. Infine, i dinosauri possiedono un potenziale eccezionale per aiutare a descrivere la Grande Storia [ossia, la Big History. NdT] e, così facendo, a promuovere l’alfabetizzazione evoluzionistica» [22].
Un film è solamente una rappresentazione della realtà solo se si ha un bagaglio tale da poter fare reverse engineering cognitivo e rappresentarsi la rappresentazione come artefatta (cosa che la maggioranza silenziosa tende a dimenticare, soprattutto se in precedenza è mancata una sufficiente alfabetizzazione ontologica). Un film, per quanto positiva o negativa sia la rappresentazione che intende veicolare, può avere effetti considerevoli sulla vita reale. Per questo, a nome del manifesto divulgativo che anima questo stesso blog, non posso fare a meno di chiedermi quale possa essere l’effetto di Jurassic World sul pubblico e sulla lunga distanza. Sono d’accordo sul fatto che nonostante tutto, i dinosauri del franchise di Jurassic Park forniscano spunti interessantissimi di biologia evoluzionistica, epistemologia, filosofia e bioetica, ma resto assai dubbioso riguardo all’effettivo contributo dell’ultimo episodio alla paleontologia in quanto tale. Nonostante le critiche che in questi giorni molti studiosi hanno segnalato per mezzo delle loro recensioni, continuo comunque a sperare che Jurassic World abbia un positivo effetto di ritorno sulla paleontologia dei dinosauri (purtroppo a discapito di altre branche dell’albero della vita non ritenute altrettanto “carismatiche”), ma non so davvero quanto possa essere vincente pianificare strategie divulgative a lungo termine partendo dai presupposti errati di un film che – paradossalmente – dovrebbe potenziare quella stessa attività divulgativa. Chi non ricorda il Dilophosaurus di Jurassic Park con la sua gorgiera e il suo veleno? Quanti hanno pensato che l’animale esibisse proprio quelle caratteristiche in vita? Ma davvero era così? Niente affatto: si trattava di una licenza artistica che però si è imposta come persistente meme iperreale e, in quanto tale, difficile da contrastare. Forse che non si possa speculare nella scienza? Certo che sì. Possono quindi alcune speculazioni rivelarsi poi giuste alla luce di nuovi probabili resti fossili? Sicuramente. Tutte le speculazioni sono pertanto giustificate? No, perché le ipotesi scientifiche devono essere basate su dati fattuali, non sui desideri e su ciò che ci piacerebbe vedere. Il resto, per quanto stimolante possa essere in sede scientifica, è fantasia.

Ma se il Dilophosaurus strizzava l’occhio ad un minimo di (discutibile) plausibilità, con gli ibridi geneticamente modificati di Jurassic World la posta in gioco si fa pericolosamente più alta. Dell’Indominus abbiamo già detto, ma i più attenti in sala si saranno accorti che nella scena in cui il personaggio interpretato da Vincent D’Onofrio, alias Vic Hoskins, si palesava come antagonista della vicenda, gli schermi del laboratorio alle sue spalle trasmettevano a mo’ di salvaschermo varie immagini di “ibridi genetici”, tra cui l’Indominus e lo Stegoceratops, un ibrido tra uno stegosauride e un Nasutoceratops completamente inventato, previsto in una scena tagliata prima di essere girata (grazie al consiglio del figlio del regista per dare più spazio al camaleontico villain), ma approdata in tempo alla Hasbro perché ne realizzasse prontamente il corrispettivo materiale ludico.

Ceci n’est pas un dinosaure.
Stegoceratops. © Hasbro 2015. Fonte: Empire.
Come può un tale giocattolo essere utile per la divulgazione scientifica presso il grande pubblico e aiutare a infondere una passione paleontologica presso la fascia più giovane degli spettatori? Quanti, ignari spettatori o acquirenti, avranno inconsciamente avallato quella rappresentazione, ammaliati dal suono beffardamente scientifico dei nomi dei nuovi ibridi, magari pensando di comprare un “dinosauro” per il/la proprio/a figlio/figlia? Quanti, magari consapevoli, sviliranno in toto la paleontologia dicendo che tanto son tutti draghi? Domande forse retoriche, poiché sicuramente un modo per sfruttare in modo intelligente l’onda d’urto preistorica provocata dal film si può trovare: il fine della divulgazione corretta giustifica i mezzi, e da giocattoli osceni per il loro implicito messaggio antiscientifico come Indominus e Stegoceratops si possono imbastire lezioni importanti di biologia evoluzionistica. Ma, date le premesse del potere dell’immagine cinematografica, questa volta la vedo dura tanto quanto provare a spiegare le basi di genetica a partire dalle Tartarughe Ninja.

Certo, di dinosauri reali non ce sono mai stati, né nei romanzi né nei lungometraggi: tutti sono sempre stati ibridi ricostruiti a posteriori, la cui conoscenza lacunosa veniva colmata alla buona tramite copia e incolla genetico vincolato alle conoscenze dell’epoca. Tra l’altro, va detto, davvero dei pessimi genetisti alla InGen, perché se questi avessero letto qualche testo di paleontologia dei dinosauri in più si sarebbero accorti che con il materiale genetico degli uccelli avrebbero evitato un mare di guai: l’uso del DNA di rospo per tappare i buchi nell’ipotetica sequenza genetica rinvenuta nelle protozanzare mesozoiche sarà anche funzionale alla trama, legittimando il plot twist del cambiamento di sesso nella popolazione animale unisessuale dell’isola e la sua conseguente riproduzione al di fuori del controllo umano, ma è qualcosa che esula insindacabilmente da qualunque giustificazione scientifica [23]: esiste maggiore distanza filogenetica tra i rospi e i dinosauri che tra il primate Homo sapiens e i dinosauri stessi [24]. E questo basterebbe a licenziare una volta per tutte il dottor Wu.

Quando paleoarte e nostalgia non vanno d’accordo

È facile dire che si tratta solo di un film, che può essere apprezzato anche senza prestare troppa attenzione a simili quisquilie scientifiche. Sono il primo ad ammettere che, pur mancando di originalità e nonostante i molti problemi del plot ipercitazionistico, il film non è girato per niente male, soprattutto considerando che il regista è alla sua seconda prova dietro la macchina da presa. E, sulla scorta di quanto detto nei primi paragrafi, è altrettanto facile minimizzare nostalgicamente i problemi che affliggono i dinosauri rappresentanti nel film. Eppure, come ha chiarito in modo eloquente il paleontologo Donald Prothero,
«In quanto insegnante che ha impartito lezioni di geologia e paleontologia all’università per trentasette anni, so quanto sia falso [definire Jurassic World come un semplice film senza conseguenze]. Ogni lezione nella quale tratto di terremoti o tsunami devo sprecare un sacco di tempo per sfatare miti hollywoodiani. Ogni qualvolta tratto dei dinosauri, spreco un sacco di tempo a decostruire i danni dei film di Hollywood – e ora lo sciatto e scadente approccio scientifico di Jurassic World mi darà altri miti da demistificare. Molti film sono immaginari, ma non è poca la gente che riceve nozioni scientifiche e naturalistiche attraverso il cinema, perché di sicuro non ne hanno ricevute abbastanza a scuola o perché non guardano documentari» [25].
Credo sia ora evidente che non si tratta solamente di dietrologie sulle sceneggiature. E non è nemmeno questione generazionale di nostalgie puerili per il primo film. In Jurassic World emerge un palese disinteresse scientifico che ha dello sconcertante e che rappresenta un reale disservizio per qualunque attività divulgativa che faccia della scienza il punto focale. E che tradisce il modello paleoartistico al quale dovrebbe riferirsi, ossia la Dinosaur Renaissance che ispirò il romanzo e il film del 1993. Tanto per dare un’idea: oltre agli innumerevoli errori anatomici sui quali non mi dilungo, la comunità di paleontologi e paleoartisti in rete ha notato sia lo scarsissimo valore delle immagini postate tra le pagine del sito virale del parco, sia i vari plagi di silhouette ed illustrazioni rilasciate online da altri artisti secondo la CC Licence [26]. Poco tempo dopo, un artista dell’eccezionale calibro di Julius Csotonyi e il paleoblogger Brian Switek sono stati assoldati solo per sistemare ex post alcuni dei danni fatti e aggiustare in parte un sito denso di errori e sviste. Questo la dice lunga sulla limitata considerazione che i produttori del film hanno avuto della paleoarte più seria dal punto di vista scientifico, forse vittime del falso dilemma per cui occorre scegliere tra scienza e arte. Ancora, dopo l’uscita del film, i primi bozzetti preparativi per il film di Trevorrow approdati sul web hanno lasciato di stucco per il loro atteggiamento (francamente paradossale) di incuria nei confronti della morfologia dei dinosauri [27]. E il giocattolo dello Stegoceratops ne è il degno epigono.

Come se non bastassero i vieti tropi sessisti e vagamente misogini che differenziano il nuovo episodio dai suoi precursori spielberghiani [28], e il luogo comune già ricordato dello scienziato-pazzo come antagonista, il vulnus della divulgazione scientifica nel mondo di Jurassic World, coerentemente ereditata dall’atteggiamento antiscientista di Crichton, ha fatto regredire i dinosauri a quel semplice accessorio funzionale per la devastazione da monster movie che erano prima di Jurassic Park, cancellando l’innovativo tentativo di Spielberg. Sul Guardian, Phil Hode si è recentemente domandato se l’ipercitazionismo anni Novanta che permea Jurassic World, inteso come fan service indirizzato al pubblico di coloro i quali nel 1993 erano ragazzini/e, sia sufficiente a sostenere il progetto revivalistico dietro all’opera di Trevorrow (una nuova trilogia è già in cantiere). Constatando il successo deflagrante del nuovo episodio, balzato fino a diventare il maggiore incasso di sempre nel fine settimana d’apertura con 511,8 milioni di dollari [29], Hode conclude laconico che «d’altro canto, se la nostra [attuale] cultura è incurabilmente nostalgica, allora [Jurassic World] è davvero un evento, dopo tutto» [30]. Nostalgia al ribasso, però, selezionando gli elementi di più facile presa, calando il tutto in un contesto da monster movie pre-spielberghiano, e cancellando i temi potenzialmente più innovativi del modello originale. Per dirla nuovamente con le parole di Prothero, «I produttori e il regista hanno avuto l’opportunità di essere [scientificamente] rivoluzionari e pionieristici ancora una volta [dopo il primo Jurassic Park] – ma hanno scelto di andare prudentemente sul sicuro, riciclando stancamente uno stanco franchise» [31].

Nostalgia canaglia.
Illustrazione di Mark “Crash” McCreery da una maglietta del merchandise statunitense originale di Jurassic Park, 1993.
Fotografia dell'autore.
Parafrasando in chiave iperreale le parole che sigillano il secondo episodio della trilogia di Christopher Nolan dedicata a Batman (Il cavaliere oscuro, 2008), quello di Trevorrow non è il parco di cui avremmo bisogno, ma il parco che ci meritiamo.
– «Senta, è previsto che si vedano dei dinosauri nel suo “Parco dei Dinosauri”?»
– «Quanto odio quest’uomo»
(Jurassic Park, 1993)


[1] Gould, S.J. (1995). Dinomania Dinosaur in a Haystack: Reflections in Natural History. Cambridge, MA and London: Harvard University Press, 221-237 DOI: 10.4159/harvard.9780674063426.c26. Recensione pubblicata originariamente nel 1993 come Dinomania. Jurassic Park, directed by Steven Spielberg, screenplay by Michael Crichton, by David Koepp . Universal city studios; The Making of Jurassic Park by Don Shay, by Jody Duncan, Ballantine, 195 pp., $18.00 (paper); Jurassic Park, by Michael Crichton, Ballantine, 399 pp., $6.99 (paper). New York Review of Books, August, 12: http://www.nybooks.com/articles/archives/1993/aug/12/dinomania/?pagination=false.

[2] Ibidem.

[3] The Making of Jurassic Park. DVD documentary. Cfr. la seguente intervista a John Horner: Jurassic World's Dinosaur Expert Talks Facts vs. Fiction (INTERVIEW). Bio, June 12, http://www.biography.com/news/jurassic-world-jack-horner-interview.

[4] Switek, B. (2013). My Beloved brontosaurus: On the Road with Old Bones, New Science, And Our Favorite Dinosaurs. New York: Scientific American/Farrar, Straus & Giroux: 139. Detto per inciso, per i Velociraptor era stato previsto un manto a strisce come quello della tigre, e immortalato prima dell’uscita del film nei giocattoli della Kenner.

[5] Cf. DeSalle, R. & D. Lindley (1997). Come Costruire un dinosauro. La scienza di Jurassic Park e del Mondo Perduto. Milano: Cortina. p. 187. (pubbl. orig. come The Science of Jurassic Park and The lost World Or, How To Build A Dinosaur. London: Harpercollins).

[6] Baird, R. (1998). Animalizing "Jurassic Park's" Dinosaurs: Blockbuster Schemata and Cross-Cultural Cognition in the Threat Scene. Cinema Journal, 37 (4), 82-103 DOI: 10.2307/1225728. Cf. Cau, A. (2015). Cosa sono Tyrannosaurus, i raptor e Indominus? Theropoda, 23 giugno, http://theropoda.blogspot.be/2015/06/cosa-sono-tyrannosaurus-i-raptor-e.html (ultimo accesso: 24 giugno 2015).

[7] Bakker, R.T. (2004). Dinosaurs Acting Like Birds, and Vice Versa – An Homage to the Reverend Edward Hitchcock, First Director of the Massachusetts Geological Survey, in Currie, P.J. et al. (eds.). Feathered Dragons: Studies on the Transition from Dinosaurs to Birds, Bloomington & Indianapolis: Indiana University Press, pp. 1-11: 1.

[8] Daly, E. (2014). Jurassic World: What we know so far... Radio Times, October 15, http://www.radiotimes.com/news/2014-10-15/jurassic-world-what-we-know-so-far (ultimo accesso: 24 giugno 2015)

[9] Cf. ad es. Switek, B. (2013). A Velociraptor Without Feathers Isn’t a Velociraptor. Phenomena (National Geographic), March 20, http://phenomena.nationalgeographic.com/2013/03/20/a-velociraptor-without-feathers-isnt-a-velociraptor/ (ultimo accesso: 24 giugno 2014); Conway, J. (2014). Scientists disappointed Jurassic World dinosaurs don’t look like dinosaurs. The Guardian, December 4, http://www.theguardian.com/science/lost-worlds/2014/dec/04/scientists-disappointed-jurassic-world-dinosaurs-movie-film (ultimo accesso: 24 giugno 2015); St. Fleur, N. (2015). A Paleontologist Deconstructs ‘Jurassic World’. The New York Times, June 12, http://www.nytimes.com/interactive/2015/06/12/science/jurassic-world-deconstructed-by-paleontologist.html?_r=0 (ultimo accesso: 24 giugno 2015).

[10] Kempner, B. (2013). Feathering the Truth. In: Michaud, N. & Watkins, J. (eds.), Jurassic Park and Philosophy: The Truth Is Terrifying. Chicago: Open Court. pp. 111-120; 116. Sull’iperrealtà cf. Baudrillard, J. (1995). Simulation and Simulacra. Ann Arbor: University of Michigan Press. Pubbl. orig. come Simulacres et Simulation. Paris: Éditions Galilée.

[11] Sokal, A & J. Bricmont. (1998). Intellectual Impostures: Postmodern Philosophers’ Abuse of Science. London: Profile Books. pp. 137-143. Tradotto in italiano l’anno seguente come Imposture intellettuali. Quale deve essere il rapporto tra filosofia e scienza? Milano: Garzanti.

[12] Sperber, D. (2010). The Guru Effect. Review of Philosophy and Psychology, 1 (4), 583-592 DOI: 10.1007/s13164-010-0025-0.

[13] Bressanini, D. & B. Mautino. (2015). Contro Natura. Dagli OGM al “bio”, falsi allarmi e verità nascoste del cibo che portiamo in tavola. Milano: Rizzoli. pp. 126-127.

[14] Cipolla, C.M. (2011 [1976]). The Basic Laws of Human Stupidity. Bologna: il Mulino. Pubblicato originariamente in inglese e in forma private; tradotto e pubblicato in italiano nel 1988 come parte di Allegro ma non troppo. Bologna: il Mulino.

[15] Sulle faune fossili del Liaoning la bibliografia comincia ad essere sterminata; rimandiamo a livello puramente illustrativo al seguente volume: Chang, M.-M., Chen, P.-J., Wang, Y.-Q., Wang, Y., 2003. The Jehol Biota: The Emergence of Feathered Dinosaurs, Beaked Birds and Flowering Plants. Shanghai Scientific and Technical Press, Shanghai. Sui melanosomi cfr. la bibliografia e il racconto essenziale in Switek, My Beloved Brontosaurus, cit., pp. 155-160; sul tegumento come condizione ancestrale in Dinosauria, cf. la scoperta di Kulindadromeus descritta in Godefroit, P. S.M. Sinitsa, D. Dhouailly, Y.L. Bolotsky, A.V. Sizov, M. E. McNamara, M. J. Benton & P. Spagna. 2014. A Jurassic ornithischian dinosaur from Siberia with both feathers and scales. Science (345) 6195: 451-455. DOI: 10.1126/science.1253351

[16] Conway, J. (2014). Scientists disappointed Jurassic World dinosaurs don’t look like dinosaurs, cit.; Myers, P.Z. (2015). Jurassic World, David Peters, and how to rile up paleontologists. Pharyngula, June 12, http://scienceblogs.com/pharyngula/2015/06/12/jurassic-world-david-peters-and-how-to-rile-up-paleontologists/ (ultimo accesso: 23 giugno 2015); Holtz, T. Jr. (2015). Review: So What About Jurassic World?, Los Alamos Daily Post, June 17, http://www.ladailypost.com/content/review-so-what-about-jurassic-world#.VYHBWeG_FEM.twitter (ultimo accesso: 23 giugno 2015). Sul Dimorphodon cf. Witton, M. (2015). Why Dimorphodon macronyx is one of the coolest pterosaurs. mark.witton.com, June 8, http://markwitton-com.blogspot.co.uk/2015/06/why-dimorphodon-macronyx-is-one-of.html (ultimo accesso: 24 giugno 2015).

[17] Arbour, V. (2015). Why does Jurassic World hate dinosaurs? Pseudoplocephalus, June 16, http://pseudoplocephalus.blogspot.co.uk/2015/06/why-does-jurassic-world-hate-dinosaurs.html (ultimo accesso: 23 giugno 2015).

[18] Crichton, M. (1999). Why Science is Media Dumb: The Story. Address was recorded at the American Association for the Advancement of Science on January 25 1999, and broadcast on the Science Show on April 3, 1999. ABC, http://www.abc.net.au/science/slab/crichton/story.htm (ultimo accesso: 24 giugno 2015).

[19] Cfr. l’intervista di John N. Wilford al paleontologo dilettante Stephen Czerkas nella quale, dopo aver parlato della scoperta dei tubercoli dermici fossilizzati del teropode argentino Carnotaurus (alla quale Czerkas partecipò), afferma senza alcun sostegno che “[…] I dinosauri avrebbe potuto non essere scialbi, ma sfoggiare sfumature brillanti, forse erano persino capaci di mutare colore come i camaleonti”; in Discover, 1989 Jan-Jun, p. 4. Cfr. Czerkas, S.J. (1997). s.v. “Skin”. In Currie, P.J. & K. Padian (eds.). Encyclopedia of Dinosaurs. San Diego – London: Academic Press, pp. 669-675: 669, ove Czerkas nota che i tubercoli fossilizzati dei dinosauri (senza specificare quali) sembrano essere più simili a quelli dei camaleonti che a quelli delle lucertole e dei serpenti. Czerkas, ex esperto di effetti speciali cinematografici, negazionista rispetto all’ascendenza dinosauriana degli uccelli e convinto sostenitore del fallace uso di iguane per comprendere la dermatologia dei dinosauri (in particolare stegosauri e sauropodi), compare nei ringraziamenti del primo romanzo di Crichton.

[20] DeSalle & Lindley, Come Costruire un dinosauro, cit., p. 189: «Tradizionalmente, i dinosauri sono stati rappresentati con vari toni di verde e di marrone, perché – tradizionalmente- si pensava che fossero dei grossi rettili. Ma se ve li immaginate come precursori degli uccelli, si dischiude tutt’altra tavolozza di colori».

[21 ] Naish, D. (2015). Jurassic World and the Build a Better Fake Theropod Project. Tetrapod Zoology, June 12, http://blogs.scientificamerican.com/tetrapod-zoology/jurassic-world-and-the-build-a-better-fake-theropod-project/ (ultimo accesso: 23 giugno 2015).

[22] Sampson, S.D. (2009). Dinosaur Odyssey: Fossil Threads in the Web of Life. Berkeley, Los Angeles and London: University of California Press. p. 277.

[23] DeSalle & Lindley, Come Costruire un dinosauro, cit., p. 97.

[24] Bennington, J.B. (1996). Errors in the movie Jurassic Park. American Paleontologist 4(2): 4-7.

[25] Prothero, D. (2015). It Coulda Been a Contender: A Paleontologist Reviews Jurassic World. Skeptic, June 23, http://www.skeptic.com/insight/it-coulda-been-a-contender-a-paleontologist-reviews-jurassic-world/ (ultimo accesso: 24 giugno 2015).

[26] Martyniuk, M. (2014). Is Jurassic World Stealing from Independent Illustrators? Dinogoss, November 30, http://dinogoss.blogspot.co.uk/2014/11/is-jurassic-world-stealing-from.html (ultimo accesso: 23 giugno 2015); Mellow, G. (2014). Jurassic World Butting Heads with PaleoIllustrators. Symbiartic (Scientific American), November 20, http://blogs.scientificamerican.com/symbiartic/jurassic-world-butting-heads-with-paleoillustrators/ (ultimo accesso: 26 giugno 2015).

[27] Berni, A.F. (2015). Jurassic World: il parco è aperto nei nuovi concept. BadTaste, 14 giugno, http://www.badtaste.it/2015/06/14/jurassic-world-il-parco-e-aperto-nei-nuovi-concept/131600/ (ultimo accesso: 24 giugno 2014).

[28] Arbour, V. Why does Jurassic World hate dinosaurs?, cit.

[29] Lang, B. (2015). Box Office: ‘Jurassic World’ Sets Global Record With $511.8 Million Debut. Variety, June 14, http://variety.com/2015/film/news/jurassic-world-global-box-office-record-1201519430/ (ultimo accesso: 24 giugno 2015).

[30] Hode, P. (2015). Nostalgia, 3D – and June – helped Jurassic World beast all before it. The Guardian, June 17, http://www.theguardian.com/film/2015/jun/17/global-box-office-jurassic-world-spy (ultima accesso: 23 giugno 2015).

[31] Prothero, D. It Coulda Been a Contender, cit.

venerdì 19 giugno 2015

Il mistero della dinomania, il pericolo della tecnoscienza e Jurassic Park: il mondo della ricerca secondo Michael Crichton

"Quando i dinosauri dominavano la terra" (cit.).
Crichton, M. 1991. Jurassic Park. London: Arrow - Random House (rist.); fotografia dell'autore.
ResearchBlogging.org
Nel 1997, Michael Crichton scrisse un’introduzione per la monumentale Encyclopedia of Dinosaurs, nella quale si celebrava per la prima volta in un’opera accademica di tali dimensioni la scoperta di dinosauri piumati [1]. Interrogatosi sui motivi che giustificherebbe la smodata passione per i dinosauri, Crichton elencò puntigliosamente sei ipotesi che potessero spiegarne diffusione e stabilità, tutte falsificate empiricamente:
  1. la dinomania colpirebbe i paesi dotati di ricchi giacimenti fossiliferi, ma è diffusa anche in paesi con pochi fossili, come Italia o Giappone;
  2. la dinomania rifletterebbe un interesse prettamente infantile, ma gli adulti non sono immuni al fascino dei dinosauri;
  3. la dinomania sarebbe il risultato di una sottocultura infantile, ma la figlia di Crichton espresse interesse nei confronti dei dinosauri ben prima di andare a scuola e persino prima di poter parlare; 
  4. la dinomania si imporrebbe grazie alle dimensioni esagerate dei dinosauri, ma dinosauri più piccoli suscitano le medesime emozioni;
  5. la dinomania affascinerebbe perché i dinosauri sarebbero un qualcosa di irrimediabilmente perduto durante l’estinzione di massa risalente a ca. 65 milioni di anni fa, ma una volta allo zoo la figlia dello scrittore chiese dove fossero i dinosauri (pur essendo già stata allo zoo credeva fossero tenuti in una zona nascosta del parco zoologico);
  6. la conoscenza dei dinosauri corrisponderebbe a un freudiano senso di controllo sulla realtà, per ridurre l’ansia di essere impotenti e privi di autorità, ma quando la figlia di Crichton venne portata sul set di Jurassic Park insieme ad alcune amiche queste furono talmente angosciate dalla visione degli animatronic che vollero essere riaccompagnata a casa [2].
Alla fine dell’excursus, Crichton concluse che la dinomania non si spiega e che sembra destinata a restare un mistero. «Il mistero», così scrisse, «è parte del [loro] fascino» [3].

Non è questo il luogo dove domandarsi quanto la mancanza di un gruppo di controllo, o l’inadeguata esplorazione della dimensione cognitiva, o la mancata constatazione che la stessa domanda potrebbe essere posta per qualunque argomento della ricerca sufficientemente noto a livello popolare (atomi, pianeti, trilobiti, ecc.), o ancora la scarsa attenzione alla contestualizzazione storico-geografica, abbiano nuociuto all’interessante esperimento mentale di Crichton. Come aveva con più arguzia argomentato Stephen Jay Gould, ad esempio, la dinomania è una moda diffusa nell’emisfero culturale Occidentale, esplosa nella seconda metà del Novecento e potenziata dalla produzione di massa [4]. E, paradossalmente, dall’introduzione emerge proprio l’incapacità o l’avversione nutrita da Crichton nei confronti del pensarsi come agente e insider nel campo culturale, dato che i suoi sono due celeberrimi romanzi (Jurassic Park e Il mondo perduto) hanno contribuito come pochi altri a potenziare oltremodo la dinomania e, meritatamente, a svecchiare l’immagine dei dinosauri presso il pubblico generalista. 

Piuttosto, ciò che vorrei sottolineare qui è che l’introduzione enciclopedica dell’autore di Jurassic Park ha valore letterario e in quanto tale serve allo scopo prefissato: produrre meraviglia giocando di sottrazione. Il finale è esplicativo in questo senso:
«Nonostante sappiamo oggi molto di più sui dinosauri di quanto non conoscessimo un decennio fa, la verità è che ne sappiamo ancora molto poco. Non sappiamo veramente come apparissero o come si comportassero queste creature. Abbiamo qualche osso, impronte della loro pelle, qualche pista di orme, e molte affascinanti speculazioni sulla loro biologia e organizzazione sociale. Tuttavia, le prove che ci rimangono del loro mondo svanito da tempo sono stuzzicanti e incomplete. Pertanto, i dinosauri stimolano i nostri sogni. E probabilmente continueranno a farlo sempre» [5].
“Stuzzicanti” e “incomplete” sono le due parole chiave dell’intero discorso crichtoniano. Paradossalmente, sono parole la cui giustapposizione produce un’ambiguità potenzialmente divergente. Se dal punto di vista scientifico è l’incompletezza stessa a stuzzicare il riconoscimento di pattern nel mondo reale, e a spronare verso una maggiore conoscenza ontologica della realtà, artisticamente invece l’incompletezza può condurre a un decontestualizzante potenziamento in chiave fantastica. Non che sia necessariamente un male, sia chiaro. Scienza e arte, se adeguatamente dosate, producono risultati sorprendenti. Ma la chiave di volta crichtoniana è che l’incompletezza starebbe giocoforza al di là del raggiungibile e, pertanto, la speculazione diventerebbe il mezzo corretto e giustificato per rendere conto del mistero che sono – e saranno sempre – i dinosauri. Per questi motivi che fondano un imperscrutabile e perdurante mistero, l’intero messaggio crichtoniano, posto in epigrafe ad un’opera enciclopedica e accademica, redatta in un momento di incredibili scoperte paleontologiche (risale al 1996 la conferma della presenza di tegumento filamentoso nel primo dinosauro piumato, Sinosauropteryx prima, raffigurato sulla copertina dell’Encyclopedia of Dinosaurs da Michael Skrepnick), è delegittimante e straniante.

Un Sinosauropteryx prima immortalato da Michael Skrepnick.
Dalla copertina di Currie, P.J. & K. Padian (eds.) 1997. Encyclopedia of Dinosaurs. San Diego – London: Academic Press.
Tempo fa avevamo incontrato un altro scrittore le cui esternazioni scientifiche mi avevano fatto storcere il naso e spinto ad effettuare un po’ di salutare fact-checking. Ma nel caso di Crichton c’è un altro aspetto di fondo che andrebbe adeguatamente valutato e sul quale vorrei soffermarmi.
In Jurassic Park e ne Il mondo perduto (sia i romanzi pubblicati rispettivamente nel 1990 e nel 1995, sia i due adattamenti con Steven Spielberg dietro alla macchina da presa, usciti nel 1993 e nel 1997), l’intento di fondo è quello di allertare il lettore nei confronti delle conseguenze impreviste, imprevedibili e contingenti della manipolazione tecnoscientifica.

Detto per inciso, si tratta di due tra i miei romanzi preferiti di sempre. Nonostante le debolezza di alcune parti della trama, sono due opere artistiche dall’indiscutibile valore culturale sia per la capacità di alimentare interessanti dibattiti intorno alla scienza sia per la loro qualità intrinseca. Per non parlare dei due lungometraggi, pietre miliari tra i blockbuster moderni, pionieristici per il sapiente uso di animatronic e tecniche digitali e semplicemente fondamentali per il mio personale bagaglio di amarcord. Il primo di questi, infine, contrassegna l’apogeo del lato più avventuroso della produzione di Spielberg, premiato con tre Oscar. E scusate se è poco.

Ciò nondimeno, la passione non può e non dovrebbe mai accecare il senso critico. Riconoscere il valore di un’opera artistica non significa giustificarne in toto i temi espliciti ed impliciti ma, anzi, l’apprezzamento dovrebbe indurre a decostruire l’opera per osservarne la macchina narrativa dall’interno e per sottoporne ad un’analisi serrata i contenuti. L’affezione bypassa il senso critico, creando un cortocircuito logico che tende ad offuscare eventuali problemi inerenti all’opera in questione. E, se analisi deve essere, non si può evitare di interrogarsi in ultima istanza sul peso che ha avuto l’opera di Crichton nella ricezione e diffusione della peculiare idea di scienza che egli ha saputo così abilmente veicolare. Perché un’opera artistica il cui messaggio sia sufficientemente diffuso può avere pericolose ricadute reali nel mondo al di fuori della celluloide e dei bit. L’impennata delle vendite di cuccioli dalmata – prontamente abbandonati – dopo La carica dei 101 (il live action Disney del 1996), e il crollo della popolazione dei pesci pagliaccio dopo Alla ricerca di Nemo (Pixar,  2003), sono solo due tristi e stranoti esempi [6].

Compongono la linea di basso continua che accompagna i due romanzi di Crichton una serie di paradossi, la cui irrisolta dialettica narrativa sostiene strutturalmente e fornisce il giusto ritmo alle posizioni espresse dai vari personaggi. A monte troviamo il leitmotiv dell’incapacità umana di controllare le innovazioni scientifiche e il tema della natura come riparatrice di un equilibrio alterato, nel contempo appellando ideologicamente alla natura come ente morale. Nulla di più sbagliato: la natura non è un ente antropomorfico, non agisce teleologicamente e la cultura non è qualcosa di avulso dalla natura ma ne è un’espressione precipua, in Homo sapiens così come in altri animali non-umani. Non esiste alcuno stato di natura perfetto, né condizioni primigenie naturalmente “buone”. Nell’ottica di Jurassic Park, tuttavia, il tempo profondo dell’evoluzione “seleziona per l’estinzione” (un nonsense paleontologico proferito da Ian Malcolm nel lungometraggio e riferito ovviamente ai dinosauri), e dato che è orientato a senso unico su una strada che ha un punto d’arrivo preciso, dona un senso di statica necessità all’essere umano. E se l’essere umano osa violare i pattern stabiliti dalla natura, che agisce come ente morale, non gli rimane che aspettarsi una punizione per le sue azioni “contro natura” [7]. Un’argomentazione davvero poco scientifica e molto ideologica da parte del caosologo, sulla quale insisteremo di nuovo sul finale del post.

Notiamo per ora che qui si consuma il primo paradosso: i dinosauri di Jurassic Park sarebbero stati selezionati per l’estinzione (poco importa se gli attuali dinosauri aviani, gli uccelli, rappresentano la classe di vertebrati più diffusa al mondo) ma, una volta riportati in vita ed ingabbiati, alla prima occasione lottano per la loro libertà surclassando i loro antagonisti umani, evidentemente non più baciati dalla fortuna evoluzionistica [7bis]. Non male, per chi era stato selezionato per estinguersi.

Ma la colpa di quanto accaduto non è dei dinosauri, che sono solo agenti di fortuna di qualcosa di più grande e malvagio. Oltre alla demonizzazione dell’infantile sogno di Hammond, la colpa sembra ricadere sugli scienziati assoldati dalla InGen, plagiati dal capitalismo.

Crichton, che aveva studi medici alle spalle e che era pronto a documentarsi scientificamente con rigore prima di stendere un romanzo, condivideva idee tipiche della sociologia della scienza postmodernista, e tendeva a vedere scienziati e ricercatori come esseri umani fallaci, mossi da sentimenti e desideri umani, spesso potenzialmente deleteri. Visione legittima e necessaria per riconsiderare il mito delle magnifiche sorti e progressive, eppure, ciò non sempre ha condotto a una visione d’insieme più equilibrata. Ben nota è la posizione negazionista che lo scrittore assunse riguardo all’attività antropogenica come causa scatenante del riscaldamento climatico. Non pago, Crichton si spinse ad appaiare deplorevolmente gli scienziati che denunciavano l’attività umana come principale agente dell’attuale riscaldamento globale all’orrorifico spauracchio eugenetico nel suo romanzo Stato di paura, pubblicato in inglese nel 2004 e tradotto in italiano l’anno successivo [8].

Come ha scritto Sandy Becker, «È difficile per uno scienziato provare simpatia per Michael Crichton. Lo scrittore sembra essere veramente ostile alla scienza e alle persone che la praticano» [9], perché gli studiosi e i ricercatori dei suoi due romanzi a tema genetico de-estinzionista sono o attirati dalle lusinghe delle compagnie private che devono capitalizzare e produrre profitto, compagnie pronte a qualunque mezzo lecito ed illecito pur di raggiungere i propri loschi obiettivi finanziari (un tema riflesso nel personaggio senza scrupoli di Lewis Dodgson in entrambi i libri), oppure si lanciano in acide o nostalgiche esternazioni sulla devastazione prodotta da una scienza che avrebbe tradito i suoi presupposti di pura conoscenza ed è ora pronta a manipolare e depredare la natura (ad esempio, Ian Malcolm - alter ego di Crichton - in Jurassic Park e Marty Gutierrez ne Il mondo perduto). Tertium no datur.

Si può nondimeno ipotizzare che l’opera di Crichton possa aver in qualche modo contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di un maggiore controllo statale sulle iniziative private a scopo di lucro, e a suggerire implicitamente maggiori finanziamenti pubblici per la ricerca [9bis]. Eppure, elementi narrativi come la svalutazione dell’attività accademica e la mancata differenziazione tra ricerca accademica e ricerca privata, o tra scienza e sfruttamento tecnologico delle scoperte scientifiche tout court, indicano piuttosto chiaramente l’opinione dell’autore, che resta negativa in termini assoluti [10]. Oltre al mistero di cui al primo paragrafo, un esempio lampante del primo punto si può trovare nel discorso del primo romanzo con il quale il magnate aziendale John Hammond convince il genetista Henry Wu a lavorare per la InGen, lasciando perdere la ricerca accademica, mentre per il secondo, mentre per quanto riguarda il secondo basti ricordare che scienza e tecnologia non sono la stessa cosa, come ricordavo anche al secondo paragrafo di questo lungo post. In fin dei conti, tra la tecnologia robotica di Westworld (in italiano, Il mondo dei robot), il parco di attrazioni dedicato al selvaggio West popolato da androidi iperrealistici e tramutati in macchine assassine da un virus informatico (nonché ultimo grande film del genere Western ormai al tramonto, scritto e diretto da Crichton nel 1973) e i genetisti arrivisti di Jurassic Park, non c’è iato: dato che i presupposti sono gli stessi (la commercializzazione di un prodotto da vendere), l’esito catastrofico è il medesimo [11].

Westworld (1973). Fonte: IGN.
Sono pessimista di natura, forse anche più di Crichton, e non trovo difficoltà alcuna ad immaginarmi devastazioni antropogeniche dovuto ad un ipertrofico exploit della temutissima legge di Murphy su scala globale. Il triste elenco degli ingenti danni ecologici già accaduti in passato a causa dell’incuria umana è una moneta corrente talmente svalutata che credo sia perfino inutile fornire qui un elenco. Ma gli elementi che lo scrittore posiziona con cura sul tavolo apparecchiato per il lettore o per lo spettatore (Crichton fu coautore della sceneggiatura del primo film di Spielberg) falsano l’opinione alla quale essi possono giungere: dal discorso morale di Malcolm, pronto a pontificare sulla “mancanza di umiltà” di fronte alla natura, ci vuole solo un battito di ciglia per passare a posizioni retrograde e senza fondamento scientifico come la lotta contro gli OGM o contro la ricerca sulle cellule staminali. Oggi Malcolm, cattedratico ormai in pensione, sarebbe un perfetto troll della Rete.

Come ho scritto altrove [12],
«dato che incrementando le conoscenze aumentano anche le zone i cui confini vengono appena lambiti dalle nuove acquisizioni concettuali, sancendo il perenne mantenimento di un’ignoranza relativa (mai assoluta) che si sposta rispetto all’avanzamento stesso delle conoscenze, i cosiddetti «limiti della scienza […] nel momento in cui stabiliscono i confini di un universo di discorso dato, aprono nuove possibilità per la costruzione di nuovi universi di discorso» [13]. Inoltre, per fare ricerca è necessario sbagliare, e nell’immagine mediatica comunemente diffusa vengono minimizzate le ore di tempo buttate nel perseguire fruttuosamente strade rivelatesi errate (l’ossimoro è voluto). Come ha ricordato Medawar, calcolo che, per tutto il vantaggio che ne ha tratto la scienza [nonostante l’ironia, ricordo che Peter Brian Medawar fu premio Nobel per la Medicina. N.d.A.], circa quattro quinti del mio tempo s[ono] stati sciupati inutilmente, e ritengo che lo stesso sia avvenuto a tutti coloro che non s’accontentano di seguire ciecamente le direttive del proprio capo nella ricerca [14]».
Tutto ciò nel mondo di Crichton non c’è o, meglio, non ricopre alcun ruolo effettivo. Possiamo essere tranquillamente d’accordo sulla necessità di controllare gli investimenti privati nel campo della ricerca, ma non si può fare un tutt’uno tra elementi così disparati (pubblico e privato, scienza e tecnologia, ricerca e commercializzazione, ecc.). La ricerca di per sé è contingente, e prodotti secondari non prevedibili possono condurre a svolte prima impensabili. Nei mondi fittizi immaginati da Crichton quali eccezionali applicazioni mediche potrebbero aver avuto gli strabilianti meccanismi robotici di Westworld? Quali terapie genetiche sarebbero state perfezionate grazie alla ricerca ancora oggi avanguardistica della InGen?

Torniamo per un istante all’iconica scena del pranzo nel lungometraggio di Spielberg. Mentre si trova a tavola, il matematico solleva importanti questioni di bioetica, eppure tutto appare irrimediabilmente offuscato dal vieto e insostenibile richiamo ad un ordine comportamentale naturale da osservare per non incappare nella punizione morale, sul quale abbiamo già detto. Basti qui ricordare che questi richiami alla naturalità della morale e alla moralità della natura nascondono sempre implicite macchinazioni ideologiche e che in natura il naturale così dogmaticamente inteso non esiste, tanto meno in quello sessuale-riproduttivo (clonazione dei dinosauri inclusa). In natura c’è tutto e il contrario di tutto: «Il mondo naturale è del tutto indifferente ai nostri interrogativi morali [...]. La sua norma, se proprio vogliamo trovarne una, è quella della diversità delle soluzioni adattative e comportamentali, dell'esplosione contingente di possibilità» [15]. A cosa pensava Alan Grant, il paleontologo, quando c’era più bisogno di un suo intervento per controbattere le strumentalizzazioni ideologiche di Malcolm?

A ciò si aggiunga che il caosologo, nell’evocazione retorica di spaventosi spettri nucleari allo scopo di ispirare nei suoi interlocutori le temibili conseguenze di una irrispettosa manipolazione della natura (e per zittire aprioristicamente qualunque possibile obiezione), sorvola sul fatto che quella stessa tecnologia di bombardamento degli atomi ha permesso, mutatis mutandis, di salvare vite umane grazie alla radiodiagnostica [15bis]. Cercare di contenere a priori la scienza non solo è controproducente, ma è del tutto fallimentare. La curiosità è da sempre parte integrante dell’essere umano. La ricerca non parte con il presupposto esplicito di arrivare a un obiettivo prestabilito, evitando dogmaticamente zone vietate, ma esplora a tutto tondo il reale e interagisce secondo modalità inaspettate con tutti gli altri campi del sapere, a patto di rispettare le condizioni ontologiche del campo sociologico: dal cannocchiale di Galileo ai satelliti in orbita che ci permettono di comunicare, conoscere la nostra posizione sul pianeta Terra e quant’altro, non c’è cesura, così come da van Leeuwenhoek e Darwin alla rincorsa per nuovi e più efficaci antibiotici.

E qui sta il secondo paradosso di Crichton: lo scrittore, forte di una preparazione accademico-scientifico e medica, non ha certamente propagandato un oscurantismo teologico, ma gridare costantemente “Al lupo! Al lupo!” riguardo ai potenziali pericoli causati dalla scienza che filtrano dai romanzi e permeano i citati lungometraggi, falsa la distinzione tra ricerca accademica, ricerca tecnologica su base aziendale con fini di lucro e applicazione e capitalizzazione dei risultati della ricerca a livello industriale. Sfruttando l’abusata retorica del pericolo della “tecnoscienza”, condita da disquisizioni teleologiche sulla disumanità dell’attuale ricerca come blasfema sfida prometeica, Crichton cavalca cliché già teologici e manca clamorosamente l’obiettivo, poiché i responsabili a monte del sistema che intende denunciare nella sua fiction narrativa sarebbero piuttosto i rappresentanti politici democraticamente eletti, ai quali spetterebbe la sorveglianza e il controllo di simili avvenimenti [16]. E invece ciò non accade, poiché è più semplice scaricare la colpa attivando il tropo dello scienziato ingenuo, sprovveduto o semplicemente pazzo, toccando corde di sicuro effetto presso il pubblico, per quanto di scarsa aderenza alla realtà.

Purtroppo, questo secondo paradosso si è ripetuto con il recentissimo quarto appuntamento del franchise cinematografico di Jurassic Park, affrancatosi da Crichton già dal terzo episodio risalente al 2000 e con Joe Johnston in cabina di regia. Ma di questo parleremo nel prossimo post.

[1] Currie, P.J. & K. Padian (eds.) 1997. Encyclopedia of Dinosaurs. San Diego – London: Academic Press. Cf. la storica e brevissima voce firmata da Currie (sedici righe di testo), intitolata Feathered Dinosaurs, in ibi: 241.

[2] Crichton, M. 1997. Foreword. In: Currie, P.J. & K. Padian (eds.) 1997. Encyclopedia of Dinosaurs. San Diego – London: Academic Press. pp. xxv-xxvi.

[3] Ibi: xxvi.

[4] Gould, S.J. (1995). Dinomania Dinosaur in a Haystack: Reflections in Natural History, 221-237 DOI: 10.4159/harvard.9780674063426.c26. Recensione pubblicata originariamente nel 1993 come Dinomania. Jurassic Park, directed by Steven Spielberg, screenplay by Michael Crichton, by David Koepp . Universal city studios; The Making of Jurassic Park by Don Shay, by Jody Duncan, Ballantine, 195 pp., $18.00 (paper); Jurassic Park, by Michael Crichton, Ballantine, 399 pp., $6.99 (paper). «New York Review of Books», August, 12: <http://www.nybooks.com/articles/archives/1993/aug/12/dinomania/?pagination=false>.

[5] Crichton, M. 1997. Foreword, cit: xxvi.

[6] Zarrella, J. 1997. With Movie Craze Over, Woman Helps Dalmatians Find Homes. CNN Interactive, May 6, <http://edition.cnn.com/US/9705/06/dal/index.html>; Alleyne, R. 2008. Demand for Real Finding Nemo Clownfish Putting Stocks at Risk. The Telegraph, June 26, < http://www.telegraph.co.uk/news/earth/earthnews/3345594/Demand-for-real-Finding-Nemo-clownfish-putting-stocks-at-risk.html> (ultimo accesso: 19 giugno 2015).

[7] Spence, J.H. 2008. What Is Wrong with Cloning a Dinosaur? Jurassic Park and Nature as a Source of Moral Authority. In: Kowalski, D (ed.). Steven Spielberg and Philosophy: We're Gonna Need a Bigger Book. Lexington: The University Press of Kentucky. pp. 97-111.

[7bis] Ibidem.

[8] Crichton, M. 2004. Why Politicized Science is Dangerous (Excerpted from State of Fear). Michael Crichton: The Official Site, <http://www.michaelcrichton.net/essay-stateoffear-whypoliticizedscienceisdangerous.html> (ultimo accesso: 19 giugno 2015).

[9] Becker, S. 2008. We Still Can’t Clone Dinosaurs. In: Grazier, K (eds.). The Science of Michael Crichton: An Unauthorized Exploration Into the Real Science Behind the Fictional Worlds of Michael Crichton, pp. 69-84. Dallas: Benbella Books. pp. 69-84: 82.

[9bis] Ibidem.

[10] Ibi: 83-84.

[11] Si veda quanto affermato da Crichton in The Making of Jurassic Park (1993), cit. in Milner, R. 2009. s.v. “Jurassic Park”. In: Darwin’s Universe: Evolution from A to Z, Berkeley, Los Angeles and London: University of California Press. pp. 250-252.

[12] Ambasciano, L. 2014. Sciamanesimo senza sciamanesimo. Le radici intellettuali del modello sciamanico di Mircea Eliade: evoluzionismo, psicoanalisi, te(le)ologia. Roma: Nuova Cultura. pp. 505-506.

[13] Ceruti, M. 2009. Il vincolo e la possibilità. Milano: Cortina. pp. 42-43.

[14] Medawar, P.B. 1970. Induzione e intuizione nel pensiero scientifico. Roma: Armando Editore. pp. 58-59 (ed. orig. pubbl. nel 1969 come Induction and Intuition in Scientific Thought. Philadelphia: American Philosophical Society).

[15] Pievani, T. 2012. La fine del mondo. Guida per apocalittici perplessi. Bologna: il Mulino. p. 47.

[15bis] Ibi: 90.

[16] Ibi: 90-91.

martedì 16 giugno 2015

Perché i templi greco-romani non erano bianchi: piccolo trattato di iconografia bakkeriana a margine di Jurassic Park (1993). Amarcord #2

Copertina del fascicolo di Robert T. Bakker dedicato a Jurassic Park (1993), dalla rivista scientifica Scienza & Vita.
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Da tempo desidero dedicare più spazio ai contenuti di un fascicolo firmato dall’iconoclasta paleontologo statunitense Robert T. Bakker, pubblicato in originale da Kalmbach Publishing e uscito nelle edicole italiane come allegato interno e staccabile di una defunta rivista di divulgazione scientifica chiamata Scienza & Vita (no, nessun nesso con altre e più recenti istituzioni pseudoscientifiche)*. L’uscita di Jurassic World (giugno 2015) mi offre lo spunto e il pretesto per scrivere di questo piccolo, grande fascicoletto, il quale contiene alcune illustrazioni artisticamente e speculativamente molto interessanti.

Quando venne pubblicato correva il 1993 e io, già da anni ammaliato dalla preistoria, ricordo di essere rimasto rapito di fronte a questi dinosauri dipinti con tratto spregiudicato, sicurissimo ma minimalista, sgargiante, sferzante e quasi arrogante, dotato di una sicumera lontana anni luce dalle composizioni rispettosamente classiche cui ero abituato.

All’epoca seguivo la serie Dinosauri! pubblicata in Italia dalla DeAgostini, le cui pagine erano spesso piacevolmente abbellite dai disegni pastello e dai colori caldi e morbidi di James Robins e dalle magnifiche illustrazioni di Sibbick che già allora sembravano mostrare i canoni del classico: attenzione ai dettagli, senso della composizione, grande equilibrio, ma anche adesione agli stilemi desueti dei decenni precedenti. Solo in seguito il parterre di artisti ospitati dalla rivista poté contare su più accattivanti dinamismi, come l'ipercinetico 3D di Steve White, e nel 1993 Robins e Sibbick figuravano tra i miei paleoartisti preferiti.

Al contrario, l’arte contenuta nel libretto bakkeriano era qualcosa di totalmente inusitato per i canoni ai quali ero abituato e al senso estetico giudicante, formatosi sulle amate tavole di Ždenek Burian, ospitate in un librone intitolato Quando l'uomo non c'era che apparteneva a mia sorella. Ovviamente il mio giudizio è legato all’impatto infantile che la visione bakkeriana, disgregante rispetto all'usuale e all'ordinario cui ho fatto riferimento, ebbe sulla mia percezione dei dinosauri, ma ancora oggi questi disegni rimangono freschi e fruibili nonostante il contesto sia completamente mutato. In effetti, le illustrazioni di Bakker sono le dirette anticipatrici dei canoni oggi in voga grazie alla soft dinosaur revolution e, al di là della precisione e/o dall’aderenza ai dati scientifici (la presenza di guance e labbra è un tema ancora discusso, per non parlare dei testi, quanto di più speculativo e bizzarro si possa immaginare provenire dalla penna di uno studioso, con menzione di "punti deboli", "nomi d'arte", e quant'altro), lo stile, la realizzazione sintetica e gli spunti eclettici e speculativi rendono almeno un paio di queste illustrazioni degne di entrare nella Hall of Fame della paleoarte.

Un esempio su tutti: la doppia pagina dedicata a Brachiosaurus e Parasaurolophus. Il primo possiede una possanza michelangiolesca e una interessante gestione volumetrica, completati da un incedere sicuro e fiero che contrasta mirabilmente con il manto rosato. Parasaurolophus, invece, si distingue per un ragguardevole equilibrio tra raffigurazione muscolosa del modello e pattern cromatico.
"Si muovono in branchi" (cit.). Brachiosaurus e Parasaurolophus, Robert T. Bakker. Scienza & Vita, 1993
Altri esempi potrebbero essere il Dilophosaurus, nella cui raffigurazione Bakker riprende un display “caudo-portale” su cui già ebbe modo di speculare altrove [1], ma che viene qui arricchito da una sensibilità estetica nuova e declinato secondo un modello più robusto e muscoloso (eccetto, paradossalmente, per la coda che dovrebbe sostenere il peso dell’animale, davvero troppo esile). Lo stesso si può dire del Triceratops - i ceratopsidi sono un classico di Bakker [2] - il quale veicola un’idea di carica aggressiva, ma non priva di una certa grazia, raramente eguagliata altrove (gli si avvicina per certi versi Gregory S. Paul ma i ceratopsidi pauliani, se guadagnano maggiore precisione nel tratto, perdono quella carica grezza che scorre prepotente nello stile bakkeriano).

Dilophosaurus, Robert T. Bakker. Scienza & Vita, 1993
Forse l’episodio meno riuscito del lotto è rappresentato dal Brontosaurus che campeggia sulla copertina del fascicolo e che, suo malgrado, non riesce a non apparire un po’ impacciato (ma ci sarebbe da notare il collo, raffigurato ben muscoloso - lontanissimo da quelle esili raffigurazioni “a cigno” che ancora impazzano, nonostante l’evidenza paleontologica e ancora una volta precursore di nuove illustrazioni più aderenti alla documentazione fossile). Peccato solo per la pronazione del polso in Velociraptor, piuttosto ben concepito, e per la generale assenza di rivestimento tegumentario [3]. Forse, trattandosi di un commento contestuale all’uscita del film di Spielberg, possono essere stati presenti dei vincoli di rappresentazione, in modo tale che questa non si discostasse troppo dall'iconografia del lungometraggio e del merchandising ad esso collegato, anche se ciò non spiega le enormi differenze con tutti i modelli del film.

Oggi come all’epoca resto colpito dalla volontà bakkeriana di rendere gli animali come “vivi”: al di là della posa dinamica e muscolare (il vero contributo epocale bakkeriano), l’uso dei colori trasmette all’osservatore in modo inequivocabile l'idea che questi sono animali che utilizzano l'ornamentazione cromatica come potente mezzo visivo di comunicazione, a volte spinto fino al parossismo per chi è abituato ai cliché lucertoleschi d'antan e tipici di una vetusta paleoarte. Eppure, chi non ha presente almeno qualche esempio della vistosa colorazione degli uccelli o dei rettili da qualche documentario in televisione? E chi non ha mai visto almeno una volta un Mandrillus sphinx maschio a SuperQuark? In questo senso il Procompsognathus e il Tyrannosaurus, con le loro brillanti colorazioni, del tutto sopra le righe, anticipano moltissime raffigurazioni attuali e aviane dei dinosauri. Inoltre, i cuscinetti ben carnosi delle palme indicano immediatamente l’idea che l’illustratore desidera trasmettere, sintetizzabile grosso modo con le seguenti frasi: smettetela di immaginare i dinosauri a mollo nell’acqua o come se fossero meri fossili da museo! Questi erano animali vivi, che camminavano, respiravano e comunicavano tra di loro! Si potrebbe dire che sono "dinosauri con un messaggio" forte e che il messaggio bakkeriano è stato uno dei più potenti nella moderna paleontologia dei dinosauri.

Tyrannosaurus (particolare), Robert T. Bakker. Scienza & Vita, 1993.
Insomma, Bakker ha fatto qualcosa che iconograficamente si può paragonare alla riscoperta per cui le statue e i templi della classicità mediterranea antica erano vivacemente colorati e non limitati ad un pallore marmoreo. Insomma, se il Rinascimento e il neoclassicismo settecentesco sono responsabili della diffusione del cliché artistico per cui la purezza greco-romana delle rappresentazioni equivaleva all’assenza di colori (frutto invece di un mero bias tafonomico), si può dire che la rivoluzione bakkeriana (pur con tutti i punti deboli che negli anni sono emersi, ma così procede la scienza) abbia scardinato certi dogmi considerati neoclassici e perciò giudicati dall'auctoritas paleontologica della metà del secolo scorso come intoccabili, e che in quanto tali dominavano ancora nella paleoarte.

E questo è il lascito più prezioso dei dinosauri sgargianti e felicemente arroganti di Bakker.

Purtroppo, il franchise di Jurassic Park, che da sempre ha il suo consulente scientifico nel paleontologo John "Jack" Horner, ha raramente percorso questa strada in technicolor e Jurassic World, il remake-sequel girato da Colin Trevorrow e uscito da poco, ha abusato di dinosauri dagli smorzati toni verdone-grigiastro-bluastri. Ma di questo film se ne riparlerà in un prossimo post...

[*] Credo che il fascicolo sia uscito in originale sulle pagine di Discover Magazine, ma non sono riuscito a rintracciare il riferimento originale. Per quanto riguarda il fascicolo italiano, nel 1993 non mi annotai la data di uscita, cosa che ora rende piuttosto difficile identificare precisamente il numero con il quale uscì.

[1] Cfr. Bakker, R.T. 1987. The Dinosaur Heresies. London: Penguin Book, p. 256 (New York: Williamo Morrow).

[2] Si veda il suo contributo intitolato "The Return of the Dancing Dinosaurs" in  Czerkas, S.J. e Olson, E.C. (eds.) 1987. Dinosaur Past and Present, vol. 1. London: Natural History Museum of Los Angeles County in association with University of Washington Press, p. 32. Una coppia di vivaci Chasmosaurus era già stata pubblicata in Desmond, A.J. 1977 (1976). The Hot-Blooded Dinosaurs. London: Futura; ill. n. 12 - e a sua volta ripresa da Crompton, A.W. 1968. "The Enigma of the Evolution of Mammals", Optima (18): 137-151. Si vedano inoltre le energiche silhouette per il suo articolo "Dinosaur Heresy - Dinosaur Renaissance: Why We Need Endothermic Archosaurs for a Comprehensive Theory of Bioenergetic Evolution", in Thomas, D. K., and Olson, E. C. (eds.) 1980. A Cold Look at the Warm Blooded Dinosaurs. Washington, DC: American Association for the Advancement of Science, pp. 351-346; p. 364.

[3] Già presentato in modo assolutamente provocatorio, attraverso un Syntarsus poi divenuto un meme iconografico di successo, nella primissima doppia pagina nel suo "Dinosaur Renaissance" per Scientific American 232, n. 4, dell'aprile 1975, p. 59.

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