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domenica 13 agosto 2017

Darwin Day 2017. Parte III: i tempi profondi del bullismo

Riassunto delle puntate precedenti

Nei primi due post di questa serie dedicata alle radici evolutive e cognitive del bullismo abbiamo cercato di vedere quali potessero essere le cause a monte dei comportamenti bullistici, e ci siamo concentrati su due tesi: quella di Jonathan Gottschall, secondo la quale il bullismo rappresenta un adattamento evolutivo, e quella di Christopher Boehm, la quale prevede una modulazione socio-cognitiva dei comportamenti bullistici basata sul rapporto tra ravvedimento individuale e tolleranza sociale. Nel primo caso avremmo una competizione diretta che premierebbe l’esercizio della forza da parte dei bulli, nel secondo un allargamento delle maglie selettive del gruppo a patto che il free rider dominante si ravveda nel caso in cui questi abbia assunto comportamenti antisociali. Nel caso illustrato da Boehm, il passaggio dei geni del free rider dominante alla generazione successiva garantirebbe una certa variabilità fenotipica all’interno del gruppo.

Entrambe le tesi danno però per scontati alcuni assunti molto importanti. Due di questi sono particolarmente importanti: il bullismo come entità sottoposta a selezione e l’uso della comparazione etnografica per tracciare analogie con un’ipotetica umanità ancestrale. Dopo aver trattato del primo punto qui, in questo post ci occupiamo del secondo punto [1].

«Balle!» Quando etnografia e preistoria (non) vanno d’accordo

Homo erectus, Homo georgicus o Homo erectus georgicus? La tassonomia del genere Homo è un mezzo incubo e cambia a seconda che i paleoantropologi siano lumper o splitter, ossia che tendano a separare o unificare più taxa. Vi lascio i numeri di catalogo di cranio e mandibola: D2700 e D2735, da Dmanisi, Georgia.
Da Wikipedia.

L’elefante nella stanza di entrambi i modelli esplicativi è relativo all’uso di popolazioni di cacciatori-raccoglitori attuali per creare un ipotetico modello ancestrale di comportamenti umani sulla base di ulteriori filtri e paragoni con bonobo e scimpanzé come outgroup e pietra di paragone. Come ha scritto Peter J. Richerson in un illuminante commento pubblicato online, e che ho riportato in un mio articolo pubblicato un anno fa,
«esiste un certo cliché riguardo all’ipotetica “natura umana” che penso sia il caso di lasciarci alle spalle. La gente dirà che siamo stati cacciatori-raccoglitori per [due] milioni di anni e tirerà in ballo i San del Kalahari o i Shoshoni come modello di paragone etnografico. Balle! Qualunque cosa Homo erectus stesse facendo (verosimilmente, cose diverse in posti e tempi diversi) non è ciò che i San o i Shoshoni stavano facendo, magari nemmeno lontanamente. Non c’è dubbio che le cose che essi stavano facendo si stessero allontanando dal comportamento ominine ancestrale e indirizzandosi verso ciò che fanno i cacciatori-raccoglitori, ma la di là della produzione di utensili in pietra possiamo dire molto poco di certo. La documentazione paleoantropologica è molto, molto frustante riguardo alle grandi domande. Alcuni Homo arcaici potrebbero aver “sperimentato” con forme di organizzazione sociale devianti rispetto ad un’estrapolazione diretta a partire da quanto avviene negli scimpanzé e nei cacciatori-raccoglitori. Chi può dirlo?» [2].
La chiarezza del commento di Richerson è esemplare. La questione delle ipotetiche sopravvivenze culturali derivanti da periodi pre- o protostorici sulla base di paragoni etnografici analogici è un argomento storiografico spinosissimo e contestato del quale mi sono occupato in vari articoli accademici e che ho trattato nel mio libro [3]. Troppo spesso il rischio è quello di vedere falsi positivi dove non esiste nulla, prendendo fischi per fiaschi, ossia confondendo reinvenzioni culturali o comportamentali (evoluzione parallela) con potenziali omologie (ossia eredità e continuità da antenato comune) [4]. E tracciare omologie a ricavare scale di valore razziale o nazionalistico è stata una tentazione costante nelle discipline storiografiche del primo Novecento. Ho combattuto per anni – e ancora combatto – contro questa tendenza nella storiografia antica e nella storiografia religionistica, e ho ben presente le fallacie logiche che sono alla base di tali considerazioni [5]

Per questo motivo è straniante e provocatorio al tempo stesso leggere quanto recentemente sostenuto da Adrian Currie: non esisterebbe alcun argomento speciale che possa immunizzare per principio e a priori le discipline storiografiche umane dall’uso dell’analogia (in questo caso etnografica) e dal metodo comparativo così come vengono adottati nelle discipline scientifiche naturali [6]. Il problema comune a tutte le discipline storiche è l’interpretazione, ma la presenza di intenzioni umane, così scrive Currie, non inficerebbe a priori l’applicazione di metodologie analitiche comparative. Bisogna invece valutare caso per caso la sottodeterminazione delle teorie a disposizione, relativa cioè all’assenza di prove (evidential underdetermination) o alla presenza di teorie capaci di fornire rilevanza alle prove disponibili (midrange underdetermination). Nel caso dei resoconti etnografici, spesso non possediamo materiale affidabile al 100% (sottodeterminazione delle prove) e ancora più spesso non possediamo teorie capaci di collegare in modo epistemicamente rigoroso questa documentazione alle società umane ancestrali. Però, è vero altresì che nuove ricerche, nuove scoperte e nuove metodologie di indagine oggi cercano di ovviare alle ingenuità del passato e che esistono teorie capaci di collegare in modo brillante campi apparentemente diversi.

Secondo lo schema proposto da Currie, che mira ad unificare la comparazione tipica del campo biologico ed evoluzionistico con quella di tipo storico-umanistico o antropologico (d’altra parte, si tratta sempre di discipline storiche) [7], abbiamo due equivalenze: da un lato inferenza omologia e analogia etnografica diretta, basate sulla continuità storica dei tratti in esame, e dall’altro l’inferenza omoplastica e analogia etnografica indiretta, fondate invece su un «modello che collega i tratti ad altre caratteristiche (vincolate ad un contesto)» [8]. come ricorda Currie, la validità di questi assunti risiede nella loro capacità di soddisfare determinate condizioni (vedi Tabella 1).


In particolare, «per quanto riguarda le analogie dirette, abbiamo bisogno di conoscere il livello di stabilità della cultura umana [trasmessa attraverso spazio e tempo]. In molti casi, questo non è elevato: data la grande plasticità del comportamento e della cultura umane, temo che spesso le analogie dirette non siano utili» [9]. Apparentemente, il confine invalicabile è costituito dalla robustezza dei tratti ereditati e dalla fedeltà della trasmissione. Biologia 1 – Storiografia e antropologia 0. Tuttavia, come evidenziato da Kim Sterelny, esisterebbero specifiche “nicchie epistemiche” all’interno delle culture umane capaci di una resilienza e una fedeltà di trasmissione tali per cui la condizione di stabilità nell’ereditabilità possa essere soddisfatta [10]. Le analogie indirette, invece, hanno solo bisogno di conoscere le “corrispondenze” tra ambiente e tratti culturali [11]. In entrambi casi l’adagio raccomanda comunque prudenza e sangue freddo.

Tirando le somme. Spoiler: vince la scienza

Forse Currie pecca di ingenuità, forse eccede in presunzione. La documentazione storiografica (come quella paleontologica e parimenti per tutte le discipline che possiedono un archivio consistente di documenti persi nel tempo profondo) è un vero colabrodo. E anche quella etnografica, spesso registrata nei secoli passati secondo protocolli desueti e inaffidabili, lascia spesso a desiderare per qualità e quantità. Ma non tuta la hybris scientifica vien per nuocere. Grazie alla sistematizzazione di Currie abbiamo una traccia epistemologica che permette di adottare un metodo sulla base di un protocollo. Può funzionare, oppure no, ma si può iniziare da qualche parte senza eccedere e mettendo da parte le demonizzazioni a priori o il “liberi tutti!” metodologico. Ora ci sono argomenti epistemici. È abbastanza per garantire una certa fiducia. E non è poco.

Proviamo a tirare le fila e a classificare quanto elaborato in merito al bullismo e ai due post precedenti secondo il modello di Currie. La tesi di Gottschall traccia un’analogia etnografica diretta dello stesso (il bullismo c’è ovunque nel mondo animale), mentre la tesi di Boehm identifica un’analogia etnografica indiretta che spiega l’adozione di comportamenti bullistici tipica di primati non-ominini e delle società contemporanee di H. sapiens come una conseguenza dell’attivazione di vincoli strutturali simili (ossia, i free rider dominanti sono un prodotto secondario, o by-product, dell’organizzazione sociale: mutate condizioni socio-economiche avrebbero permesso loro di instaurare gerarchie di dominanza prima assenti). Se c’è continuità storica, questa è relativa solo alle gerarchie a dominanza inversa, e solo per un certo periodo di tempo (primati non-ominini e la maggior parte delle società umane post-neolitiche hanno invece gerarchie di dominanza). Secondo la linea adottata da Boehm, alcune tecnologie sociali e materiali, solo per certe popolazioni, e solamente dopo il Neolitico, avrebbero permesso ai bulli in fieri di stabilire delle gerarchie di dominanza e di legittimare politicamente l’esercizio del potere da parte di free rider dominanti.

Ora, la convergenza storico-scientifica delle prove a disposizione cerca di superare la debolezza di singole sequenze di informazioni indipendenti che puntano verso una determinata con la somma delle parti: solamente più dati, più analisi rigorose, e una maggiore attenzione e serietà interdisciplinare possono contribuire a chiarire il quadro (ad esempio, esistono, come abbiamo ricordato in precedenza, tipi diversi di bullismo). Se consideriamo il ritardo incredibile delle scienze sociali nei confronti di paradigmi realmente scientifici, allora gli esercizi di Gottschall e Boehm possono aiutarci a mettere giù i primi paletti stabili nello studio scientifico di questo aspetto delle culture umane, abbattendo gradualmente il muro che separa ancora le due culture. Sono tentativi ancora incompleti e speculativi, ma ipotesi simili costringono a pensare e a raccogliere dati ulteriori, a cercare ancora e a proporre nuovi paradigmi. Sono parte dell’impalcatura di base, e da lì si procede in avanti. Siamo solo agli inizi, e molto si dimostrerà sbagliato e ingenuo con il proverbiale senno di poi, ma da qualche parte occorre partire. E sbagliare è il sale della ricerca scientifica [12].

Zio Ben può essere fiero di suo nipote. Gli sceneggiatori, beh, non sempre.
Copertina di Spider-Man: Basta bullismo!, Panini Comics giugno 2017 (Uomo Ragno Speciale XXX n.1/2017). Bella e toccante la storia centrale ("Weird", da Avengers No More Bullying n. 1 del 03/2015), ma sgraziata la prima (un bullismo soft, quello di "Friends on the Web, da Avengers: No More Bullying n. 1 del 03/2015) e assolutamente inutile la terza ("Fear Pressure" da Amazing Spider-Man on Bullying Prevention n. 1 del 10/2003), dove una vittima di bullismo diventa bullo a sua volta. Ne abbiamo parlato qui, ma c'era senz'altro un altro modo per affrontare la questione senza dover per forza incolpare una vittima, in un fumetto che tra l'altro dovrebbe essere mirato alla Bullying Prevention!
Per concludere, non esistono bacchette magiche che possano decidere a priori quale metodo sia corretto. Se l’obiettivo delle discipline storiche è quello di ricostruire fatti sulla base di un modello epistemologico volto a minimizzare le speculazioni, promuovendo nel contempo asserzioni epistemicamente fondate e sostenute da una sufficiente “concordanza di induzioni”, bisogna sempre stare attenti e mantenere alto il livello di vigilanza. Per ora, il modello di Boehm, grazie al suo focus spazio-temporale specifico, sembra godere di maggiori chance di falsificazione rispetto a quello di Gottschall. Che non vuol dire che sia più “vero”, attenzione. Significa solo che si può partire da lì per studiare in profondità. E senza dati non si può fare proprio nulla. Vedremo come andrà a finire e cerchiamo di fare scienza, accumulando e ripensando man mano. Per ora, risposte definitive non ne abbiamo, ma di certo sappiamo cosa non sappiamo e dove cercare per imparare a conoscere. Intanto, chiudo questa serie di post. Nel frattempo, il prossimo cretino che fa il bullo finisce in prigione senza passare dal via.

[1] Riprendo e aggiorno la scheda introduttiva da questo post.

[2] Richerson, Peter J. (2014). Comment on Turchin, Peter (2014). "Cooperation: This time, between man and woman". Social Evolution Forum, October 20. Per una contestualizzazione della citazione si rimanda a Ambasciano, L. (2016). “Mind the (Unbridgeable) Gaps: A Cautionary Tale about Pseudoscientific Distortions and Scientific Misconceptions in the Study of Religion.” Method & Theory in the Study of Religion (28)2: 141-225. https://doi.org/10.1163/15700682-12341372

[3] Ambasciano, L(2014a). Sciamanesimo senza sciamanesimo. Le radici intellettuali del modello sciamanico di Mircea Eliade: evoluzionismo, psicoanalisi, te(le)ologia. Roma: Edizioni Nuova Cultura. https://doi.org/10.4458/3529.

[4] Un testo chiave per la traslazione del tema in ambito storiografico (umanistico) è Smith, J. Z. (1990). Drudgery Divine: On the Comparison of Early Christianities and the Religions of Late Antiquity. Chicago and London: University of Chicago Press, 36-54 (§ “On Comparison”). Si veda anche Saler, B. (2000). Conceptualizing Religion: Immanent Anthropologists, Transcendent Natives, & Unbounded Categories. Oxford: Berghan Books.

[5] Ambasciano, Sciamanesimo senza sciamanesimo.... Cfr. Ampolo, C. (2013). “Il problema delle origini di Roma rivisitato: concordismo, ipertradizionalismo acritico, contesti. I”. Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, serie 5: 1217-284. Si veda anche il mio pezzo (di prossima pubblicazione) intitolato “Politics of Nostalgia, Logical Fallacies, and Cognitive Biases: The Importance of Epistemology in the Age of Cognitive Historiography.” In A New Synthesis for the Study of Religion: Cognition, Evolution, and History in the Study of Religion, a cura di I. S. Gilhus, J. S. Jensen, LL. H. Martin, J. Sørensen & A. K. Petersen. Leiden - Boston: Brill.

[6] Currie, A. (2016). “Ethnographic analogy, the comparative method, and archaeological special pleading”. Studies in History and Philosophy of Science Part A (55): 84-94. https://doi.org/10.1016/j.shpsa.2015.08.010

[7] Smail, D. L. (2017). Storia profonda. Il cervello umano e l’origine della storia. Torino: Bollati Boringhieri. Traduzione dall’originale inglese On Deep History and the Brain. Berkeley, Los Angeles & London: University of California Press, di un certo blogger di vostra conoscenza che si occupa di Tempi profondi.

[8] Ibi: 88. Si veda inoltre Cleland, C. E. Cleland & Brindell, S. (2013). “Science and the Messy, Uncontrollable World of Nature.” In Philosophy of Pseudoscience: Reconsidering the Demarcation Problem, a cura di M. Pigliucci e M. Boudry, 183–202. Chicago and London: University of Chicago Press.

[9] Currie, Ethnographic analogy…, p. 91.

[10] Ibid. Cfr. anche Sterelny, K. (2003). Thought in a Hostile World: The Evolution of Human Cognition. Malden, MA and Oxford: Wiley-Blackwell.

[11] Currie, Ethnographic analogy…, p. 91.

[12] Schwartz, M.A. (2008). “The Importance of Stupidity in Scientific Research.” Journal of Cell Science 121: 1771. https://doi.org/10.1242/jcs.033340.

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