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domenica 13 agosto 2017

Darwin Day 2017. Parte III: i tempi profondi del bullismo

Riassunto delle puntate precedenti

Nei primi due post di questa serie dedicata alle radici evolutive e cognitive del bullismo abbiamo cercato di vedere quali potessero essere le cause a monte dei comportamenti bullistici, e ci siamo concentrati su due tesi: quella di Jonathan Gottschall, secondo la quale il bullismo rappresenta un adattamento evolutivo, e quella di Christopher Boehm, la quale prevede una modulazione socio-cognitiva dei comportamenti bullistici basata sul rapporto tra ravvedimento individuale e tolleranza sociale. Nel primo caso avremmo una competizione diretta che premierebbe l’esercizio della forza da parte dei bulli, nel secondo un allargamento delle maglie selettive del gruppo a patto che il free rider dominante si ravveda nel caso in cui questi abbia assunto comportamenti antisociali. Nel caso illustrato da Boehm, il passaggio dei geni del free rider dominante alla generazione successiva garantirebbe una certa variabilità fenotipica all’interno del gruppo.

Entrambe le tesi danno però per scontati alcuni assunti molto importanti. Due di questi sono particolarmente importanti: il bullismo come entità sottoposta a selezione e l’uso della comparazione etnografica per tracciare analogie con un’ipotetica umanità ancestrale. Dopo aver trattato del primo punto qui, in questo post ci occupiamo del secondo punto [1].

«Balle!» Quando etnografia e preistoria (non) vanno d’accordo

Homo erectus, Homo georgicus o Homo erectus georgicus? La tassonomia del genere Homo è un mezzo incubo e cambia a seconda che i paleoantropologi siano lumper o splitter, ossia che tendano a separare o unificare più taxa. Vi lascio i numeri di catalogo di cranio e mandibola: D2700 e D2735, da Dmanisi, Georgia.
Da Wikipedia.

L’elefante nella stanza di entrambi i modelli esplicativi è relativo all’uso di popolazioni di cacciatori-raccoglitori attuali per creare un ipotetico modello ancestrale di comportamenti umani sulla base di ulteriori filtri e paragoni con bonobo e scimpanzé come outgroup e pietra di paragone. Come ha scritto Peter J. Richerson in un illuminante commento pubblicato online, e che ho riportato in un mio articolo pubblicato un anno fa,
«esiste un certo cliché riguardo all’ipotetica “natura umana” che penso sia il caso di lasciarci alle spalle. La gente dirà che siamo stati cacciatori-raccoglitori per [due] milioni di anni e tirerà in ballo i San del Kalahari o i Shoshoni come modello di paragone etnografico. Balle! Qualunque cosa Homo erectus stesse facendo (verosimilmente, cose diverse in posti e tempi diversi) non è ciò che i San o i Shoshoni stavano facendo, magari nemmeno lontanamente. Non c’è dubbio che le cose che essi stavano facendo si stessero allontanando dal comportamento ominine ancestrale e indirizzandosi verso ciò che fanno i cacciatori-raccoglitori, ma la di là della produzione di utensili in pietra possiamo dire molto poco di certo. La documentazione paleoantropologica è molto, molto frustante riguardo alle grandi domande. Alcuni Homo arcaici potrebbero aver “sperimentato” con forme di organizzazione sociale devianti rispetto ad un’estrapolazione diretta a partire da quanto avviene negli scimpanzé e nei cacciatori-raccoglitori. Chi può dirlo?» [2].
La chiarezza del commento di Richerson è esemplare. La questione delle ipotetiche sopravvivenze culturali derivanti da periodi pre- o protostorici sulla base di paragoni etnografici analogici è un argomento storiografico spinosissimo e contestato del quale mi sono occupato in vari articoli accademici e che ho trattato nel mio libro [3]. Troppo spesso il rischio è quello di vedere falsi positivi dove non esiste nulla, prendendo fischi per fiaschi, ossia confondendo reinvenzioni culturali o comportamentali (evoluzione parallela) con potenziali omologie (ossia eredità e continuità da antenato comune) [4]. E tracciare omologie a ricavare scale di valore razziale o nazionalistico è stata una tentazione costante nelle discipline storiografiche del primo Novecento. Ho combattuto per anni – e ancora combatto – contro questa tendenza nella storiografia antica e nella storiografia religionistica, e ho ben presente le fallacie logiche che sono alla base di tali considerazioni [5]

Per questo motivo è straniante e provocatorio al tempo stesso leggere quanto recentemente sostenuto da Adrian Currie: non esisterebbe alcun argomento speciale che possa immunizzare per principio e a priori le discipline storiografiche umane dall’uso dell’analogia (in questo caso etnografica) e dal metodo comparativo così come vengono adottati nelle discipline scientifiche naturali [6]. Il problema comune a tutte le discipline storiche è l’interpretazione, ma la presenza di intenzioni umane, così scrive Currie, non inficerebbe a priori l’applicazione di metodologie analitiche comparative. Bisogna invece valutare caso per caso la sottodeterminazione delle teorie a disposizione, relativa cioè all’assenza di prove (evidential underdetermination) o alla presenza di teorie capaci di fornire rilevanza alle prove disponibili (midrange underdetermination). Nel caso dei resoconti etnografici, spesso non possediamo materiale affidabile al 100% (sottodeterminazione delle prove) e ancora più spesso non possediamo teorie capaci di collegare in modo epistemicamente rigoroso questa documentazione alle società umane ancestrali. Però, è vero altresì che nuove ricerche, nuove scoperte e nuove metodologie di indagine oggi cercano di ovviare alle ingenuità del passato e che esistono teorie capaci di collegare in modo brillante campi apparentemente diversi.

Secondo lo schema proposto da Currie, che mira ad unificare la comparazione tipica del campo biologico ed evoluzionistico con quella di tipo storico-umanistico o antropologico (d’altra parte, si tratta sempre di discipline storiche) [7], abbiamo due equivalenze: da un lato inferenza omologia e analogia etnografica diretta, basate sulla continuità storica dei tratti in esame, e dall’altro l’inferenza omoplastica e analogia etnografica indiretta, fondate invece su un «modello che collega i tratti ad altre caratteristiche (vincolate ad un contesto)» [8]. come ricorda Currie, la validità di questi assunti risiede nella loro capacità di soddisfare determinate condizioni (vedi Tabella 1).


In particolare, «per quanto riguarda le analogie dirette, abbiamo bisogno di conoscere il livello di stabilità della cultura umana [trasmessa attraverso spazio e tempo]. In molti casi, questo non è elevato: data la grande plasticità del comportamento e della cultura umane, temo che spesso le analogie dirette non siano utili» [9]. Apparentemente, il confine invalicabile è costituito dalla robustezza dei tratti ereditati e dalla fedeltà della trasmissione. Biologia 1 – Storiografia e antropologia 0. Tuttavia, come evidenziato da Kim Sterelny, esisterebbero specifiche “nicchie epistemiche” all’interno delle culture umane capaci di una resilienza e una fedeltà di trasmissione tali per cui la condizione di stabilità nell’ereditabilità possa essere soddisfatta [10]. Le analogie indirette, invece, hanno solo bisogno di conoscere le “corrispondenze” tra ambiente e tratti culturali [11]. In entrambi casi l’adagio raccomanda comunque prudenza e sangue freddo.

Tirando le somme. Spoiler: vince la scienza

Forse Currie pecca di ingenuità, forse eccede in presunzione. La documentazione storiografica (come quella paleontologica e parimenti per tutte le discipline che possiedono un archivio consistente di documenti persi nel tempo profondo) è un vero colabrodo. E anche quella etnografica, spesso registrata nei secoli passati secondo protocolli desueti e inaffidabili, lascia spesso a desiderare per qualità e quantità. Ma non tuta la hybris scientifica vien per nuocere. Grazie alla sistematizzazione di Currie abbiamo una traccia epistemologica che permette di adottare un metodo sulla base di un protocollo. Può funzionare, oppure no, ma si può iniziare da qualche parte senza eccedere e mettendo da parte le demonizzazioni a priori o il “liberi tutti!” metodologico. Ora ci sono argomenti epistemici. È abbastanza per garantire una certa fiducia. E non è poco.

Proviamo a tirare le fila e a classificare quanto elaborato in merito al bullismo e ai due post precedenti secondo il modello di Currie. La tesi di Gottschall traccia un’analogia etnografica diretta dello stesso (il bullismo c’è ovunque nel mondo animale), mentre la tesi di Boehm identifica un’analogia etnografica indiretta che spiega l’adozione di comportamenti bullistici tipica di primati non-ominini e delle società contemporanee di H. sapiens come una conseguenza dell’attivazione di vincoli strutturali simili (ossia, i free rider dominanti sono un prodotto secondario, o by-product, dell’organizzazione sociale: mutate condizioni socio-economiche avrebbero permesso loro di instaurare gerarchie di dominanza prima assenti). Se c’è continuità storica, questa è relativa solo alle gerarchie a dominanza inversa, e solo per un certo periodo di tempo (primati non-ominini e la maggior parte delle società umane post-neolitiche hanno invece gerarchie di dominanza). Secondo la linea adottata da Boehm, alcune tecnologie sociali e materiali, solo per certe popolazioni, e solamente dopo il Neolitico, avrebbero permesso ai bulli in fieri di stabilire delle gerarchie di dominanza e di legittimare politicamente l’esercizio del potere da parte di free rider dominanti.

Ora, la convergenza storico-scientifica delle prove a disposizione cerca di superare la debolezza di singole sequenze di informazioni indipendenti che puntano verso una determinata con la somma delle parti: solamente più dati, più analisi rigorose, e una maggiore attenzione e serietà interdisciplinare possono contribuire a chiarire il quadro (ad esempio, esistono, come abbiamo ricordato in precedenza, tipi diversi di bullismo). Se consideriamo il ritardo incredibile delle scienze sociali nei confronti di paradigmi realmente scientifici, allora gli esercizi di Gottschall e Boehm possono aiutarci a mettere giù i primi paletti stabili nello studio scientifico di questo aspetto delle culture umane, abbattendo gradualmente il muro che separa ancora le due culture. Sono tentativi ancora incompleti e speculativi, ma ipotesi simili costringono a pensare e a raccogliere dati ulteriori, a cercare ancora e a proporre nuovi paradigmi. Sono parte dell’impalcatura di base, e da lì si procede in avanti. Siamo solo agli inizi, e molto si dimostrerà sbagliato e ingenuo con il proverbiale senno di poi, ma da qualche parte occorre partire. E sbagliare è il sale della ricerca scientifica [12].

Zio Ben può essere fiero di suo nipote. Gli sceneggiatori, beh, non sempre.
Copertina di Spider-Man: Basta bullismo!, Panini Comics giugno 2017 (Uomo Ragno Speciale XXX n.1/2017). Bella e toccante la storia centrale ("Weird", da Avengers No More Bullying n. 1 del 03/2015), ma sgraziata la prima (un bullismo soft, quello di "Friends on the Web, da Avengers: No More Bullying n. 1 del 03/2015) e assolutamente inutile la terza ("Fear Pressure" da Amazing Spider-Man on Bullying Prevention n. 1 del 10/2003), dove una vittima di bullismo diventa bullo a sua volta. Ne abbiamo parlato qui, ma c'era senz'altro un altro modo per affrontare la questione senza dover per forza incolpare una vittima, in un fumetto che tra l'altro dovrebbe essere mirato alla Bullying Prevention!
Per concludere, non esistono bacchette magiche che possano decidere a priori quale metodo sia corretto. Se l’obiettivo delle discipline storiche è quello di ricostruire fatti sulla base di un modello epistemologico volto a minimizzare le speculazioni, promuovendo nel contempo asserzioni epistemicamente fondate e sostenute da una sufficiente “concordanza di induzioni”, bisogna sempre stare attenti e mantenere alto il livello di vigilanza. Per ora, il modello di Boehm, grazie al suo focus spazio-temporale specifico, sembra godere di maggiori chance di falsificazione rispetto a quello di Gottschall. Che non vuol dire che sia più “vero”, attenzione. Significa solo che si può partire da lì per studiare in profondità. E senza dati non si può fare proprio nulla. Vedremo come andrà a finire e cerchiamo di fare scienza, accumulando e ripensando man mano. Per ora, risposte definitive non ne abbiamo, ma di certo sappiamo cosa non sappiamo e dove cercare per imparare a conoscere. Intanto, chiudo questa serie di post. Nel frattempo, il prossimo cretino che fa il bullo finisce in prigione senza passare dal via.

[1] Riprendo e aggiorno la scheda introduttiva da questo post.

[2] Richerson, Peter J. (2014). Comment on Turchin, Peter (2014). "Cooperation: This time, between man and woman". Social Evolution Forum, October 20. Per una contestualizzazione della citazione si rimanda a Ambasciano, L. (2016). “Mind the (Unbridgeable) Gaps: A Cautionary Tale about Pseudoscientific Distortions and Scientific Misconceptions in the Study of Religion.” Method & Theory in the Study of Religion (28)2: 141-225. https://doi.org/10.1163/15700682-12341372

[3] Ambasciano, L(2014a). Sciamanesimo senza sciamanesimo. Le radici intellettuali del modello sciamanico di Mircea Eliade: evoluzionismo, psicoanalisi, te(le)ologia. Roma: Edizioni Nuova Cultura. https://doi.org/10.4458/3529.

[4] Un testo chiave per la traslazione del tema in ambito storiografico (umanistico) è Smith, J. Z. (1990). Drudgery Divine: On the Comparison of Early Christianities and the Religions of Late Antiquity. Chicago and London: University of Chicago Press, 36-54 (§ “On Comparison”). Si veda anche Saler, B. (2000). Conceptualizing Religion: Immanent Anthropologists, Transcendent Natives, & Unbounded Categories. Oxford: Berghan Books.

[5] Ambasciano, Sciamanesimo senza sciamanesimo.... Cfr. Ampolo, C. (2013). “Il problema delle origini di Roma rivisitato: concordismo, ipertradizionalismo acritico, contesti. I”. Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, serie 5: 1217-284. Si veda anche il mio pezzo (di prossima pubblicazione) intitolato “Politics of Nostalgia, Logical Fallacies, and Cognitive Biases: The Importance of Epistemology in the Age of Cognitive Historiography.” In A New Synthesis for the Study of Religion: Cognition, Evolution, and History in the Study of Religion, a cura di I. S. Gilhus, J. S. Jensen, LL. H. Martin, J. Sørensen & A. K. Petersen. Leiden - Boston: Brill.

[6] Currie, A. (2016). “Ethnographic analogy, the comparative method, and archaeological special pleading”. Studies in History and Philosophy of Science Part A (55): 84-94. https://doi.org/10.1016/j.shpsa.2015.08.010

[7] Smail, D. L. (2017). Storia profonda. Il cervello umano e l’origine della storia. Torino: Bollati Boringhieri. Traduzione dall’originale inglese On Deep History and the Brain. Berkeley, Los Angeles & London: University of California Press, di un certo blogger di vostra conoscenza che si occupa di Tempi profondi.

[8] Ibi: 88. Si veda inoltre Cleland, C. E. Cleland & Brindell, S. (2013). “Science and the Messy, Uncontrollable World of Nature.” In Philosophy of Pseudoscience: Reconsidering the Demarcation Problem, a cura di M. Pigliucci e M. Boudry, 183–202. Chicago and London: University of Chicago Press.

[9] Currie, Ethnographic analogy…, p. 91.

[10] Ibid. Cfr. anche Sterelny, K. (2003). Thought in a Hostile World: The Evolution of Human Cognition. Malden, MA and Oxford: Wiley-Blackwell.

[11] Currie, Ethnographic analogy…, p. 91.

[12] Schwartz, M.A. (2008). “The Importance of Stupidity in Scientific Research.” Journal of Cell Science 121: 1771. https://doi.org/10.1242/jcs.033340.

giovedì 11 maggio 2017

Reflecting on "Mary Beard's Ultimate Rome," one year later


It's been more than a year since the BBC broadcast Cambridge historian Mary Beard's celebrated documentary Ultimate Rome: Empire Without Limit. It was an unprecedented critical success, and English media relished and enjoyed the astonishing quality of such a magnificent production. In a time where ancient history, and historiography in general, are suffering the most from institutional budget cuts, from the competition with sexier, scientific disciplines, and from the postmodern disregard for the ancient past, Ultimate Rome tried to prove all the naysayers wrong.

In a sense, the documentary has succeeded spectacularly. It has been hailed by The Guardian as "a thoughtful and resolutely British series that, like its predecessors, deserves to draw in viewers by the million." Personally, I have admired Beard's wit and her down-to-earth, no-nonsense attitude in Ultimate Rome. In the past, I enjoyed reading Beard's groundbreaking academic works, and I have included them when I was preparing the syllabus of my university course about gender issues and female cults in ancient Rome. I was delighted to discover such a lively popularisation of ancient historiography in her documentary. Well, I wish there were more exploration of gender topics in a documentary on ancient Rome, but I digress, for the theme of the present post is not the many things that I have found enjoyable in Ultimate Rome, but the few things that were, in my opinion, quite problematic or debatable.

What follows is a personal selection from some of these issues. It goes without saying that, notwithstanding the accuracy of my personal notes from over one year ago, my memory might fail me. Plus, I might be just wrong in my (mis)recollections. Finally, let me just remark that in no way such criticism detracts from the value of Beard's scholarship. I simply and firmly believe that historiography is a science, sic et simpliciter, and, as such, it must be subjected to the very same evaluation and quality control that preside over any other science. Readers already acquainted with the usual themes of the blog know how many posts I have devoted to such topic.

And now, one note from each of the fourth installments of the series:

EPISODE #1 


We start with nothing more than a trifle. In the first episode, Beard takes the viewers to the Ara Pacis in Rome. Contrary to what images and words suggested, the Augustan Res Gestae seen here is not original. It is a fascist replica engraved in the external wall of the Museum of the Ara Pacis in Rome. Yet, the inscription is presented as if its originality was not in question, which may have led the viewers to take it at face value for a real document. Ancient historians, like palaeontologists, very rarely have the luxury of such mind-blowingly complete documents. History is, most of the times, reconstructed from bits and scraps.

EPISODE #2


The second episode has to do with the unique Roman engineering prowess. Or was it? While standing in front of a stone milestone on the Via Domitia (in France), Beard asserts that, for the first time, it was possible to know exactly where one was on a state network of roads, thanks to a standardised,  precise distance-tracking system. This is exactly the kind of ancient historiography that struck me as quite problematic, especially after the demise of Western Civ in the US and after the groundbreaking impact of global history and Big History on our understanding of the human past. If we take into consideration the parallel and independent development of human cultures scattered all over the world, what about the extremely well-organised Inca road system (e.g., chaskiwasi, tambos, etc.), for instance?
Again, the same point of view is deployed when Beard speaks of the Roman market system, and pottery in particular, as the first example of "globalisation." I may be too harsh here, as this is no longue-durée, big-historical documentary, but again such a statement can be quite misleading. For the record, globalisation as a process began during the first out-of-Africa migration of the genus Homo. Should you really want to maintain a rigorous, geographical focus, long-distance trade in Europe is attested since Cro-Magnons and Neanderthals, by the way. Maybe a redefinition of "globalisation" could have contributed to clarify those general statements.

EPISODE #3


In the third episode, Beard shows in a rather straightforward and absolutely correct way the mixed ethnic composition of Roman Britain, sagaciously deconstructing the ignorant, racist claims of local ethnic purity. Just to be clear once and for all: there is no such thing now, and there was no such thing in the ancient past. Ethnic purity has always been a myth. (On the other hand, obtuse inbreeding led to the War of Spanish Succession, so beware of "purity.")
The results of chemical analyses concerning the isotope signature in the tooth enamel of Roman era bones from York allows her colleague Ella Eckhart to ascertain that the remains pertained to someone who originally grew up in a much colder climate, such as Germany or Poland.
Now, is this an epistemically warranted assertion?
First of all, what about altitude? What if that human being came from the Alps, or the Pyrenees? Simple fact: the higher you go, the colder the temperature you get. There is no need to think in two dimensions. There is no doubt that the addition of archaeological technologies such as stable isotopes analysis have contributed to reshape radically our understanding of ancient physical mobility. However, as Roman historian Greg Woolf has recently cautioned, researchers should avoid such reliance on methodologies that are so constrained by the poor availability of data (in most cases fragmentary). As a matter of fact, isotopes from water consumption are not reliable when considered in a larger environmental network of short-range variation and, most of all, in the Roman technological network which allowed high-altitude drinking water to be brought by aqueducts (see G. Woolf, G. 2016. “Movers and Stayers”, in: L. de Ligt & L. E. Tacoma (eds.), Migration and Mobility in the Early Roman Empire, Leiden & Boston: Brill, pp. 438- 461: 455). Science provides an empowering set of methods, but before using it, one has to master epistemology. In cases like this one, palaeogenetics might be of invaluable help, provided that the quality of data is sufficiently reliable. Maybe this issue has already been resolved by additional research, but I do not recall any clear assertion on that from the episode.
Second, I think that it is quite misleading to conflate (ancient) geographical regions and (modern) peoples. Slavic peoples from the area now occupied by Poland, for instance, were not identified as "Poles" until the eleventh century (at least). As a matter of fact, all European identities and languages were invented and standardised during the Nineteen-century process that Eric Hobsbawm and Terrence Ranger famously called the "invention of tradition."
I know that Beard's was a clever rebuttal to mock racist, blatant claims on ethnic purity, but the parallel between modern Polish (or Germans) and ancient Roman Britain citizens was a bit anachronistic. This is the hard problem implicit in  every popularising effort - especially in history, where labels, names, and definitions might be associated with long-held, essentialised beliefs: what should you give for granted? How should you explain very complicated, longue-durée processes in  just a couple of minutes?

EPISODE #4


Unfortunately, the final episode of  Ultimate Rome did really jump the shark - for me, at least.
A single, highly problematic sentence that has defined so far the dominant paradigm in contemporary Roman History raised my eyebrow. In Beard's own words, "the Romans didn't believe in their gods, they didn't have internal faith in our sense." Roman religion, consequently, "was a religion of doing, not believing" (Beard, M. 2015. SPQR, Profile Books, London. p. 103). A step back might be helpful now. Originally conceived as the wedge to overthrow the previous and problematic disciplinary paradigm (deeply rooted in the Reformation's vocabulary and in its depreciative and belittling view of Catholic ritual as devoid of real religious meaning), this rather curious definition managed to throw the baby out with the bathwater. In other words, and to cut a long story short, since belief was reputed to be a culturally conditioned state of mind that may or may not be present, either you have it or you don't. We have it ("our internal sense of faith"). Romans didn't have it. They did things, they did not believe in things. Full stop.


The most shocking consequence for the discipline is that ancient Romans, with their stress on orthopraxy and rituals, become a bit like Chalmers' zombies, lacking internal conscious states about beliefs. Therefore, through this scholarly perspective, ancient Romans are reputed to have had a totally different cognitive machinery that almost made them a bizarre sort of cognitively peculiar human beings.
An idea which, frankly, seems particularly bonkers. 
Cognitive science of religion is currently helping to reconsider such a statement: ancient Romans were, rather unmistakably and beyond any reasonable doubts, members of the species Homo sapiens. As such, it could be considered more than a safe bet to presume that they were agents with beliefs, desires, and intentions, evolved to communicate with and relate to other agents with beliefs, desired, and intentions. Goddesses and gods, as culturally postulated superhuman beings (according to the classical definition advanced by Melford Spiro in 1971), were a distinct class of imagined agents - but agents nonetheless. Which was the necessary and sufficient condition to communicate with and relate to them, and to believe in whatever they might have been reputed to say. Cognitively and historically speaking, there is so much more to say, but, since I do not want to steal my own thunder, wait for my paper on the topic.

And there you have it: a complete nitpicker's guide to an otherwise brilliant, fabulously shot, and sincerely informative BBC documentary. Do not get me wrong: I have loved and I strongly recommend this documentary. And I eagerly wait for a Mary Beard/BBC documentary on gender issues, androcentrism, and patriarchy in the ancient Mediterranean. That would be awesome.

That's all, folks. So long, and thanks for all the fish.

Credits: all images ©2016 BBC

sabato 15 aprile 2017

Darwin Day 2017. Parte II: bullismo o bullismi?

Riassunto della puntata precedente

Nel post precedente abbiamo cercato di vedere quali potessero essere le cause evolutive a monte dei comportamenti bullistici, e ci siamo concentrati su due tesi: quella di Jonathan Gottschall, secondo la quale il bullismo rappresenta un adattamento evolutivo, e quella di Christopher Boehm, la quale prevede una modulazione socio-cognitiva dei comportamenti bullistici basata sul rapporto tra ravvedimento individuale e tolleranza sociale. Nel primo caso avremmo una competizione diretta che premierebbe l’esercizio della forza da parte dei bulli, nel secondo un allargamento delle maglie selettive del gruppo a patto che il free rider dominante si ravveda nel caso in cui questi abbia assunto comportamenti antisociali. Nel caso illustrato da Boehm, il passaggio dei geni del free rider dominante alla generazione successiva garantirebbe una certa variabilità fenotipica all’interno del gruppo.
Entrambe le tesi danno per scontati alcuni assunti molto importanti. Due di questi sono particolarmente importanti: il bullismo come entità sottoposta a selezione e l’uso della comparazione etnografica per tracciare analogie con un’ipotetica umanità ancestrale. In questo post ci occupiamo del primo punto e dei suoi corollari; al secondo sarà dedicato un breve post di prossima pubblicazione.

Critica della ragion (bullistica) pura

Immanuel Kant mentre sta pensando al motto, così spesso frainteso, secondo il quale «Da un legno storto, come quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto» (in Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, 1784). Il senso della frase, quando propriamente contestualizzata nel passaggio originale, era che nonostante tutto occorre comunque tendere al miglioramento. Un paio di sganassoni ben assestati gli avrebbero probabilmente fatto cambiare idea.
Fonte: ritratto di Kant da Wikipedia; ritratto di Nelson Muntz da Google Images ©  Gracie Films/20th Century Fox Television

Il bullismo, inteso come entità essenziale, discreta, può essere oggetto di selezione naturale? Dati alla mano, si potrebbe benissimo sostenere che il bullismo sia in realtà composto da un insieme eterogeneo di comportamenti che non possono essere disgiunti dal più vasto sottoinsieme di comportamenti umani generalmente aggressivi. Se l’unica peculiarità fosse quella di agire violenza contro i subordinati, in quale modo distinguere tale aggressività da altri tipi di aggressività? Se il bullismo è motivato dai medesimi presupposti neurofisiologici o endocrini dell’aggressività (legata, ad esempio, ai livelli di testosterone o all’azione di vari ormoni), a quale livello può la selezione isolare questo comportamento? Il risultato dell’impossibilità di operare una distinzione tra bullismo e aggressività sarebbe l’invisibilità di tale comportamento ai processi selettivi. In effetti, c’è chi ritiene che il bullismo sia un complesso multifattoriale che parte dall’interazione tra predisposizioni neurobiologiche ed eventi stressanti scatenanti, come notato da Susan M. Swearer e Shelley Hymel in un articolo pubblicato nel 2015 [1]. Ma questo non vuol dire che non ci siano comuni basi genetiche o neurofisiologiche. Semplicemente, il quadro è molto più complesso e, come spesso accede quando si tratta dei tempi profondi, molto più interessante di quanto non possa sembrare.

Singolare o plurale?

Cerchiamo allora di seguire una pista differente per un momento, lasciamo per un attimo da parte il determinismo essenzialista del bullismo secondo Gottschall, e proviamo ad elencare brevemente i fattori che potrebbero aiutarci a collocare in una prospettiva più complessa la storia naturale del bullismo:
  1. lo sviluppo individuale è un mix inestricabile di fattori genetici, epigenetici, ed ambientali (dove per “ambiente” si intende anche e soprattutto l’ambiente sociale). In alcuni periodi particolarmente importanti, quali la gravidanza, le primissime fasi dello sviluppo, e durante la pubertà (specie per quanto riguarda la creazione delle reti neurali e la cablatura dei processi affettivi ed empatico-emotivi), questi fattori interagiscono dinamicamente tra di loro secondo differenti modalità. Si tratta di modalità guidate da una rete biunivoca di processi neurochimici ed ormonali: ad esempio, la privazione dei necessari stati affettivi durante alcune fasi cruciali per la costruzione di un circuito neurale adeguato influisce negativamente sulla gestione e sull’attivazione di comportamenti empatici e di altri stati emotivi nell’adulto [2].
  2. Sono diverse infatti le condizioni neurofisiologiche che possono essere alla base della violenza agita in chiave bullistica. La mancanza di empatia può essere annoverata tra queste. Ancora una volta, è bene ricordare che ci troviamo di fronte a diversi fattori che interagiscono e non a un elemento dotato di un’essenza immodificabile: l’empatia è il risultato delle interazioni di un intero circuito composto da ben dieci aree cerebrali interconnesse tra loro e dotate di diversi compiti a livello emotivo o cognitivo (anche se, probabilmente, ne esistono altre, ancora da mappare). L’empatia non sarebbe pertanto il precipitato di un solo sistema [3]. Per questo motivo, il settaggio individuale si pone su di un continuum che va dalla massima empatia alla sua totale assenza, e non su un semplice meccanismo ON/OFF, presente/assente. Anche in questo caso siamo ben al di là del semplicistico determinismo che vorrebbe facili e immediate soluzioni dietro a determinati comportamenti. Ora, ciò che mi interessa notare qui è che la mancanza di empatia, sia essa il prodotto di settaggi insufficienti di determinate aree cerebrali o di precise condizioni genetiche (ad es., personalità borderline, soggetti autistici o affetti da disturbo post-traumatico da stress), può scatenare, a livelli e intensità differenti, comportamenti potenzialmente aggressivi, violenti o crudeli dal punto di vista morale. Questo avviene perché il soggetto scarsamente empatico può non riconoscere il soggetto di fronte a sé come individuo dotato di emozioni e sentimenti, e l’oggettivizzazione dell’altro può condurre all’adozione di comportamenti antisociali [4].
  3. Allo stesso modo esistono dinamiche sociali specifiche, a livello di gruppo, che possono innescare comportamenti bullistici, senza che vi siano, a livello neurofisiologico e cognitivo, disfunzioni patologiche o deficit particolari. Vi possono essere free rider subordinati che, pur essendo potenzialmente privi delle caratteristiche neurofisiologiche dei soggetti dominanti all’interno del proprio gruppo, si accodano ai bulli dominanti per vari motivi legati all’esercizio del potere tramite violenza. Subordinati, sì, ma pur sempre un gradino più in alto rispetto agli abusati. E, magari, al riparo dalle continue vessazioni. Occorre inoltre prendere in considerazione le rappresentazioni culturali che vengono trasmesse verticalmente (perlopiù dai genitori e dalla famiglia) e orizzontalmente (cioè dai coetanei o da certi format di intrattenimento), le quali, tradotte in schemi comportamentali emulativi, possono avere un’importanza notevole nel modellare le eventuali risposte bullistiche.
  4. Sarebbe però assai ingenuo rinunciare a cercare le basi neurofisiologiche o genetiche del bullismo. Esistono difatti diversi candidati genetici dietro all’attualizzazione di dinamiche bullistiche. Mi limito ad un solo esempio illustrativo. Nel 2008, un gruppo di ricercatori guidato da Avshalom Caspi ha avanzato l’ipotesi che un allele legato all’espressione della catecolo O-metiltrasferasi (COMT), ossia un enzima deputato al metabolismo della dopamina nella corteccia prefrontale, predisponga chi soffre di deficit di attenzione e di iperattività (Attention Deficit/Hyperactivity Disorder, o ADHD) a un minore controllo delle funzioni esecutive con potenziali ricadute negative sui comportamenti sociali [5]. In particolare, il meccanismo presso il codone 158, messo in moto dalla presenza dell’aminoacido metionina (espresso in polimorfismo con la valina), ridurrebbe del 40% l’attività enzimatica nella corteccia prefrontale, producendo livelli più elevati di dopamina [6]. Tale meccanismo interferirebbe con «la capacità dei bambini di controllare il proprio comportamento, impendendo loro di considerare adeguatamente le implicazioni future delle loro azioni. Questi bambini possono avere difficoltà a comprendere le conseguenze negative del loro comportamento su terzi, possono non riuscire a immaginare idee astratte relative ai valori etici o a ricompense future, possono non essere in grado di inibire l’adozione di comportamenti inappropriati e, quindi, di non adeguare i propri comportamenti alle mutevoli circostanze sociali» [7]. Eppure, come indica la cautela espressa dai tempi verbali srotolati nella precedente citazione, i risultati sono provvisori e la correlazione tra base neurobiologica e l’adozione di comportamenti antisociali nei soggetti affetti da ADHD, per quanto affascinante, resta ancorata ad un livello speculativo: la «replicabilità non è perfetta, e un’associazione con falsi positivi non può essere esclusa con certezza» [8]. In effetti, variabili di genere, gruppo, famiglia, età, contesto economico, ecc., possono incidere notevolmente sullo scatenamento  di comportamenti bullistici (e sulla loro inibizione). Ma allora, le radici neurofisiologiche restano sempre le stesse o no? 
Forse, se espresso in questi termini ristretti, il problema del bullismo come entità sottoposta a selezione è mal posto. Come ricordato in un altro post, la psicologia evoluzionistica sostiene infatti che «la selezione naturale agisc[a] sugli output comportamentali, e non sui sistemi cognitivi responsabili di tali comportamenti» [9]. Quindi, in linea di massima, i comportamenti antisociali esercitati da free rider dominanti in età pre-riproduttiva e (pre-)adolescenziale – quale che sia la molla neurofisiologica – potrebbero benissimo rientrare tra gli oggetti di selezione da parte dei gruppi umani, garantendo nel contempo una certa variabilità fenotipica dietro ai comportamenti bullistici. Ma la psicologia evoluzionistica, si sa, è un campo ancora in fase di sviluppo, sottoposto a molte critiche e ad ancora più rinnovamenti. Il condizionale cautelativo resta pertanto d’obbligo. Magari tra qualche anno si avrà la conferma di una comune base neurofisiologica dietro alla variabilità fenotipica del bullismo (fatta comunque debita eccezioni per quei casi di opportunismo citati al punto (3) della lista precedente). Per il momento, riuscire a disincagliare dalla melma delle correlazioni spurie l’elemento maggiormente implicato nell’attuazione di comportamenti antisociali a base bullistica, sembra essere molto più difficile che spedire robot su Marte

Fonzie, Biff e Cletus Kasady entrano in un bar e…

... e niente... come volete che vada a finire con quel piantagrane rossastro sulla destra? C'è ben poco da ridere, caro il mio Fonzie. Biff pare averlo già capito...
Fonte: Fonzie da Wikipedia; Biff da Wikipedia; Cletus Kasady/Carnage da Google Images (matite di Mark Bagley, chine di Randy Emberlin; da Amazing Spider-Man #361 © 1992 Marvel Comics).

Invece, quando Gottschall afferma che, a livello sociale, i bulli sarebbero «più popolari fra i compagni rispetto ai non bulli, e [avrebbero] più successo con le ragazze» [10], rischia di fare il passo epistemico più lungo della gamba metodologica. Riunire sotto un’unica etichetta tipologie comportamentali tanto diverse è semplicemente un rischio. Come se Asso Merrill, Biff Tannen, John Bender, Arthur Fonzarelli, Danny Zuko, Cletus Kasady (l’arcinemesi di Venom e dell’Uomo Ragno) e It potessero stare tutti assieme comodamente sotto lo stesso tetto. D’accordo, It non c’entra nulla e l’ho aggiunto io, ma era per rendere l’idea. Di certo, che personaggi quali Kasady o Biff siano popolari tra le ragazze quanto Danny Zuko o John Bender mi sembra un’idea tirata per le orecchie.

Nel caso di Carnage/Kasady, compagne psicopatiche quali Shriek non contano come falsificazione dell'argomento relativo alla popolarità, grazie.
Fonte: Google Images, da The Amazing Spider-Man #378, matite di M. Bagley, chine di R. Emberlin © 1993 Marvel Comics.
Pur trattandosi di esempi fittizi, quello che voglio dire è che anche ammettendo che il bullismo possa essere stato oggetto di selezione, avremmo una scala di modulazioni e di variabilità e non un bullismo ON/OFF, presente/assente. Data questa variabilità fenotipica, un idealtipo sociale del bullo sarebbe piuttosto difficile da identificare. E se davvero l’output comportamentale è stato filtrato indipendentemente dalle cause neurofisiologiche, attraverso le maglie selettive e l’azione tollerante della LPA ipotizzata da Boehm, allora il bullismo sarebbe quasi come la classe Reptilia, parafiletica, ossia composta da diversi cladi filogenetici che, per quanto sembrino condividere alcune caratteristiche superficiali, non condividono antenati filogenetici comuni e recenti: tanto per dirne una, i coccodrilli sono più vicini agli uccelli che ai serpenti.
Per darvi un’idea della variabilità fenotipica all’interno del bullismo (o, per meglio dire, dei bullismi), Swearer e Hymel hanno elencato i seguenti elementi: «insensibilità; tendenze psicopatiche; adozione di tratti mascolini; problemi di condotta; personalità antisociale; vulnerabilità alla pressione dei compagni; ansia; depressione […]. Almeno alcuni studenti che bullizzano i propri compagni hanno un’intelligenza sociale e uno status sociale superiori alla norma […]; pertanto, i ricercatori distinguono tra bulli socialmente integrati e bulli socialmente marginalizzati […]» [11]. Ci son abbastanza elementi da garantire una certa disomogeneità comportamentale: abbiamo casi di psicopatia palese, contraddistinti da narcisismo, mancanza di empatia, impulsività, violenza, ecc. [12], e ci sono casi in cui, in fondo in fondo, il bullo è davvero solo un bonario Fonzie, per capirci. Quindi no, mettere insieme tutto in un unico calderone non è buona pratica da seguire. Anche considerando il punto di vista amministrativo: Kasady potete tenervelo chiuso nel Ravencroft, grazie.

Un posticino carino e rassicurante, tra l'altro.
Fonte: Medium; da The Amazing Spider-Man 2, il film del quale nessun true believer della MArvel vuole sentire parlare. © 2014 Sony Pictures/Columbia
Quando andare a squola scuola diventa patologico

Gottschall forse ha in mente un’idea romanzata e patinata del bullo come di un simpatico buontempone, un carismatico estroverso. Ma il bullo può anche agire sulla base di quello che in primatologia è noto come “pattern di abuso casuale” attraverso il quale il bullo, rendendo gli episodi di violenza imprevedibili, riproduce un modello che mira implicitamente a mantenere costanti i elevati livelli di stress nei subordinati in una continua autoriproduzione delle proprie condizioni di dominanza [13]. E luogo di elezione di tale comportamento è la scuola.
Come ha scritto Daniel Lord Smail, l’esistenza del bullismo nelle scuole dell’obbligo è una conseguenza di scelte educative uniformi, imposte dall’alto e relative ad un’organizzazione orizzontale per classe di età, una scelta istituzionale tipica dei moderni stati nazionali che, evolutivamente parlando, è senza precedenti. E senza precedenti sono le condizioni che permettono in ogni classe, in ogni annata, in ogni locale scolastico, in ogni paese, in ogni regione, in ogni nazione, la perpetuazione dell’adozione di comportamenti antisociali e violenti, tra cui il succitato pattern di abuso casuale. Gli strumenti culturali che nel post precedente abbiamo visto essere efficaci per contenere e controllare le prevaricazioni bullistiche nelle società di cacciatori-raccoglitori (come il pettegolezzo e la ridicolizzazione), sono gli stessi che vengono maneggiati e autogestiti da comunità di coetanei adolescenti «mal equipaggiati, da un punto di vista neurobiologico, a gestire i picchi e i crolli emotivi di un corpo adolescente». Non è difficile immaginare le conseguenze di tale mancanza di controllo. L’implementazione di tali strumenti nel contesto scolastico rappresenta pertanto «un esempio [negativo] di ciò che può succedere quando le istituzioni prodotte dalle società postlitiche interagiscono con la neurofisiologia umana in modi imprevedibili. Nel caso dell’istruzione scolastica, le società occidentali hanno sperimentato per quasi due secoli con l’usanza senza precedenti di far socializzare i bambini secondo un’organizzazione abbastanza rigida e basata su divisioni di età anziché secondo i livelli intergenerazionali di una società basata sui nuclei familiari. Solo ora stiamo iniziando a renderci conto della natura straordinariamente patologica di tale pratica» [14]. Ma allora, e torniamo al nodo problematico del primo paragrafo, davvero quel bullismo originario, tipico delle LPA identificate da Boehm e questo bullismo scolastico e adolescenziale sono in fondo la stessa cosa? Probabilmente sì dal punto neurofisiologico, ma da quello del contesto sociale direi proprio di no.

Immortan Joe, il tuo nuovo compagno di banco

Oggi interroghiamo... Joe! ... anzi, meglio di no, va'.
Fonte: MadMaxWikia; ©2015 Warner Bros. Pictures 

Se le ricadute immediate possono premiare il bullo, limitare l’accesso dei subordinati alle risorse (quali che siano) non ne massimizza la fitness a breve termine, poiché il bullo in età (pre-)adolescenziale solitamente non mette al mondo figli né instaura un vero e proprio regno come avviene ne Il signore delle mosche. Inoltre, la sua rete sociale non è destinata a durare: il potere corrompe, e la dominanza crea tensione nel suo gruppo (quando presente). Anche se durasse, la divisione scolastica in scuole medie inferiori e superiori renderebbe difficile continuare il sodalizio bullizzante. Forse, in condizioni ambientali drasticamente differenti (ad es., un cataclisma planetario), la potenziale strategia-r del bullismo, che è facile immaginare essere contraddistinta da prolificità, mortalità elevata, competizione elevata, ecc., potrebbe anche rivelarsi premiante. (Per capirci, la strategia r predilige la quantità della prole alla qualità dovuta a cure parentali mirate. Siete figli unici? Ecco, Mick Jagger ha otto figli con cinque compagne diverse).
Magari immaginare che il bullismo lasciato libero di correre possa condurre al devastato mondo post-apocalittico di Immortan Joe in Mad Max: Fury Road, può sembrare azzardato. Ad ogni modo, l’adozione di strategie-r nel percorso di sviluppo e di vita dell’individuo (quello che oggi in ecologia e sociologia è noto come life history theory) è una conseguenza tipica delle condizioni ecologiche e ambientali nelle quali ci si trova a vivere: massimizzare la fitness su breve durata può essere una risposta non mediata di fronte a condizioni di sviluppo e familiari disagiate, le quali veicolano a loro volta l’idea che il mondo non sia un luogo sicuro. Siamo sempre all’interno di un loop neuroendocrino tra cultura e natura, shakerate e non mescolate. Ecco quindi l’adozione di risposte comportamentali dominate da «sfruttamento delle risorse altrui, accoppiamento precoce e scarsa cura nei confronti della prole» [15].
Eppure, nelle condizioni ultrasociali attuali, e non solo, è ragionevole ritenere il bullismo come una strategia maladattiva per le vittime bullizzate, per le famiglie nelle quali le vittime vivono, per quelle che le vittime formeranno, e infine per i sistemi sanitari nazionali che si dovranno fare carico delle spese legate alle patologie sviluppate dalle vittime (come ad esempio, «depressione, ansia, disordine post-traumatico da stress», deficit cognitivi, ecc.), condizioni che a lungo termine possono condurre ad altre e ben più gravi condizioni di salute [16]. Ed è facile capire il perché: il bullismo attiva una diatesi cognitiva, come la chiamano Swearer e Hymel, che sarebbe una «lente distorta attraverso la quale gli individui interpretano gli eventi della propria vita» [17]. Che, chiudendo il cerchio, è esattamente quello che le società di cacciatori-raccoglitori illustrate da Boehm cercano di evitare puntando su una gerarchia a dominanza inversa e su vari sistemi di controllo sociale per tenere a bada i maschi alfa.

Il bullismo è maladattativo anche per i bulli stessi, essendo una strategia che viene implementata più o meno inconsciamente sulla base di stimoli neurofisiologici, ma che – a livello sociale ed individuale – non è premiante. In fondo, è un po’ come la contemporanea pandemia di obesità provocata dall’attrazione nei confronti di cibi fortemente energetici – un’attrazione che poteva essere adattativa quando tali cibi erano scarsi e la loro ricerca premiante ma che oggi, con la disponibilità di cibi e bevande iper-zuccherati, è fortemente maladattativa [18]. Come accennato in precedenza, la risposta bullistica viene talvolta adottata da soggetti che hanno subito gravi deficienze affettive o che hanno subito gravi traumi psicologici familiari durante l’infanzia. Che poi è anche un tropo sfruttato in molti ambiti della produzione pop di massa (la biografia fittizia di Carnage ne è solo un esempio). Pertanto, la cosa solo apparentemente paradossale, con la quale vorrei concludere questa seconda incursione nella storia profonda di questi fenomeni, è che il bullismo è un «evento stressante che mette a rischio i giovani vulnerabili nei confronti di una serie di esiti negativi […] a prescindere dal tipo di coinvolgimento (ossia, bullo, bullo-vittima, vitima)» [19, corsivo mio]. Indipendentemente dal ruolo, e fatte salve le gravissime conseguenze cognitive (quando non fisiche) subite dalle vittime, il bullismo avrebbe quindi ricadute negative su tutti gli attori sociali coinvolti. Il potere logora, e l’esercizio della violenza (agita, subita, o subita prima e agita poi) modifica a livello neurofisiologico ed endocrino gli individui, con pesanti ricadute a lungo termine sulle condizioni di salute mentale e fisica. E allora, se le vittime soffrono di più, possiamo dire che i bulli non ridono.

[1]Swearer, S., & Hymel, S. (2015). Understanding the psychology of bullying: Moving toward a social-ecological diathesis–stress model. American Psychologist, 70 (4), 344-353 DOI: 10.1037/a0038929.

[2] Orbecchi, M. (2015). Biologia dell’anima. Teoria dell’evoluzione e psicoterapia. Torino: Bollati Boringhieri.

[3] Baron-Cohen, S, (2011). Zero Degrees of Empathy: A New Theory of Human Cruelty and Kindness. London: Penguin. p. 20 (trad. in italiano nel 2012 come La scienza del male. L’empatia e le origini della crudeltà. Milano: Cortina).

[4] Ibi, passim.

[5] Caspi A, Langley K, Milne B, Moffitt TE, O'Donovan M, Owen MJ, Polo Tomas M, Poulton R, Rutter M, Taylor A, Williams B, & Thapar A (2008). A replicated molecular genetic basis for subtyping antisocial behavior in children with attention-deficit/hyperactivity disorder. Archives of general psychiatry, 65 (2), 203-10 PMID: 18250258.

[6] Ibi: 202-203.

[7] Ibi: 206.

[8] Ibi: 207.

[9] MCauley, R.N. (2011). Why Religion Is Natural and Science Is Not. Oxford: Oxford UNiversity Press. p. 53.

[10] Gottschall, J. (2012), Il professore sul ring. Perché gli uomini combattono e a noi piace guardarli. Torino: Bollati Boringhieri. p. 48 (pubbl. orig. nel 2015 come The Professor in the Cage: Why Men Fight and Why We Like to Watch. New York: Penguin Random House).

[11] Swearer & Hymel, Understanding the psychology of bullying, p. 345.

[12] Ibi: 348.

[13] Smail, D.L. (2008). On Deep History and the Brain. Berkeley, Los Angeles and London:
University of California Press. p. 178.

[14] Ibid.

[15] Brüne, M. (2016). Textbook of Evolutionary Psychiatry & Psychosomatic Medicine: The Origins of Psychopathology. Oxford: Oxford University Press. p. 87.

[16] Swearer S.M. & Hymel S., Understanding the psychology of bullying, cit., 348.

[17] Ibi., 349.

[18] McCauley, Why Religion…, cit., 54.

[18] Swearer, Hymel, Understanding the psychology of bullying, cit., 347.

ResearchBlogging.org

mercoledì 12 aprile 2017

Darwin Day 2017. Parte I: Storia naturale del bullismo da Darwin ad Asso Merrill

Oh, dico a te! Cos’è che c’hai tanto da ridire contro i bulli in ’sto post, eh?!
Fonte: Google Images, screenshot da Stand By Me © 1986 Columbia Pictures
Homo homini lupus

La violenza dei bulli è come il proverbiale cacio sui maccheroni: fino a pochissimo tempo fa non faceva notizia perché era ritenuta qualcosa di banale, quotidiano, diffusa. Se faceva notizia era solo perché qualcosa di davvero straordinario era capitato, qualcosa che poteva riuscire a catturare l’attenzione del pubblico per il breve tempo di un servizio al telegiornale. Un bizzarro e violentissimo rito di iniziazione per entrare in una confraternita di qualche blasonato college statunitense, finito malissimo per l’aspirante membro? Se ne parlava. Un ragazzo anonimo picchiato a sangue, preso a cinghiate sulla schiena dal padre, e che riversava ogni mattina, come un disco rotto, la sua folle rabbia sugli altri anonimi compagni di classe in una città anonima, in un quartiere anonimo, in una scuola anonima come tante? Non faceva notizia. Il timido compagno di classe  preso a calci con gli anfibi a punta di ferro dal bullo di turno durante l’intervallo, per giorni, mesi, anni? Ordinaria amministrazione.

E sì, lo ammetto, alle scuole medie ho potuto constatare su campo, come un antropologo in erba, che Il signore delle mosche di William Golding non è tanto una distopia quanto una fedele fotografia, e che i ragazzini possono essere demoni. Storie di lacrime, sudore, paura, lividi, sangue, di soprusi, di stress, di vite spezzate, di menti andate in frantumi come specchi scheggiati a causa della violenza subita. Oggi, di bullismo se ne parla, anche se si continuano a prediligere gli aspetti più straordinari, quelli che fanno pendant con il resto del notiziario delle 20. Improbabile quindi che la mia scuola media fosse un’eccezione straordinaria. Ma allora è proprio un film che si ripete, un disco rotto che torna sempre sullo stesso ritornello... davvero questi atroci vincoli comportamentali sono inevitabili? Davvero la violenza è cablata nei geni? I maschi sono naturalmente portati ad agire violenza? Le guerre e la violenza nelle varie società umane sono forse il precipitato di questa tendenza violenta? Quando uscirà un episodio decente dello sciagurato franchise di Jurassic Park? All’ultima domanda non credo ci sia risposta, per il resto ho cercato di attrezzarmi.

Una “maschilità barbarica”?
Copertina dell’edizione italiana de Il professore sul ring © 2015 Bollati Boringhieri
Partiamo dal tempo profondo dell’evoluzione e chiediamoci: c’è una spiegazione adattativa per il bullismo, la quale possa spiegare il ricorso a tali pratiche in termini di fitness relativa all’individuo che adotti tale comportamento? Jonathan Gottschall, autore del sagace e brioso Il professore sul ring. Perché gli uomini combattono e a noi piace guardarli (2015), ritiene di sì. La tesi di fondo del volume di Gottschall è che, a causa di motivi neuroendocrinologici, i maschi di Homo sapiens siano portati a competere violentemente tra loro, e che la violenza agita in varie modalità (tra cui gareggiare in sport più o meno violenti) costituisca la valvola di sfogo, la conditio sine qua non, per veicolare e controllare secondo modalità controllate queste spinte comportamentali altrimenti deleterie. Uno dei risultati, in pratica, sarebbe lo sviluppo di precisi rituali di combattimento, codificati in modo preciso, volti a contenere la violenza entro un limite accettabile sotto forma di sport e di tifoserie. La violenza piace, e i prodotti culturali che includono contenuti violenti piacciono proprio perché solleticano, per così dire, processi emotivi legati all’aggressività le cui radici risalirebbero ai tempi profondi dell’evoluzione. A loro volta, queste radici avrebbero attecchito nel terreno fertile della competizione maschile per l’accoppiamento, selezionando comportamenti e strategie riproduttive differenti nei maschi e nelle femmine del genere Homo.

La cultura avrebbe agito modulando tali vincoli strutturali secondo contingenze storiche e sensibilità culturali locali, ma quasi sempre riducendo a massimo comun divisore una specifica idea dell’onore individuale riassumibile in forza e coraggio per i maschi, e sessualità casta per le femmine. Da qui i duelli sanguinari, i riti maschili di passaggio religiosi e non, il sadismo bellico e tutte quelle competizioni maschili completamente futili, intrise di violenza e di gerarchie di dominanza, spesso dall’esito tragico e così tipiche dei ragazzini (dal bungee jumping alle devastanti gare di bevute, fino ai selfie fatti sulle rotaie del treno con la locomotiva sferragliante alle spalle).

Questa «maschilità barbarica», come la chiama Gottschall, si palesa dolorosamente proprio nella spiegazione del bullismo adolescenziale, la cui onnipresenza in (quasi) ogni cultura umana sarebbe da attribuire a quei comportamenti bullistici «premianti» che costituiscono «form[e] di adattamento sociale relativamente comune» nel mondo animale non-umano [1]. Gottschall spinge il parallelo fino a presentare un’equivalenza tra un «leone più forte» e un «ragazzo più forte», entrambi portati ad approfittare della propria forza per reclamare, in modo più o meno violento, più di quanto non spetterebbe loro secondo la norma del gruppo nel quale essi vivono – ossia, imponendo con la forza la loro intenzione di non condividere adeguatamente le risorse (ad es., cibo e compagne) tra i membri del gruppo, o di tiranneggiare gli stessi allo scopo di evitare che essi abbiano accesso alle suddette risorse.

Tutto è perduto, fuorché l’onore



Locandina di Braveheart © 1995 Paramount/20th Century Fox
Fonte: Wikipedia


Come scrive Gottschall, «[c]i piace pensare che i bulli paghino un prezzo, e spesso è così (fra i cacciatori-raccoglitori, i bulli più aggressivi venivano a volte assassinati da coalizioni di vittime che non ne potevano più), tuttavia nell’adolescenza sono i bulli ad avere la meglio, soprattutto quelli abbastanza capaci da scegliersi saggiamente le proprie vittime. Sono più popolari fra i compagni rispetto ai loro bulli, e hanno più successo con le ragazze» [2]. E nella pagina successiva, Gottschall riafferma la necessità del confronto maschile anche per i subordinati partendo da uno spunto fornito dal film Braveheart (USA, 1995): pur potendo perdere di fronte a competitori più in forma, il confronto violento sarebbe necessario allo scopo di guadagnarsi il rispetto sia del gruppo sociale di appartenenza che di quello del competitore. Se non puoi battere il bullo (in Braveheart, l’invasore inglese), combattilo, ci dice Gottschall. Che poi è lo stesso tropo cinematografico e storiografico del subordinato che tiene testa al bullo cercando di guadagnarsene il rispetto. 

Chi non ricorda lo scontro finale di Stand By Me di Rob Reiner (USA, 1986), quando il bullo Asso Merrill armato di coltellino, con la sua gang di subordinati, si trova impreparato (e forse impaurito) di fronte all’inaspettata potenza di fuoco dei piccoli ragazzini, che dispongono di una pistola? E se il bullo si trova costretto a darsi alla fuga, il gruppetto di ragazzini si trova rinsaldato. Questo vale per il manipolo dei subordinati, ma per quanto riguarda il gruppo di competitori pensiamo solamente a tutti i racconti bellici che si concludono con il vincitore che riconosce l’onore delle armi al vinto, o al fair play nelle competizioni sportive tra sfidanti e squadre diverse. Sono racconti che resistono, e che vengono tramandati e trasmessi continuamente, perché solleticherebbero la nostra sete di vedere comunque riconosciuto lo sforzo nella tenzone agonistica.


Non c’è bullismo senza altruismo

Abbiamo qui una densità di temi straordinaria. Riassumendo, il bullismo sarebbe vantaggioso a livello di fitness individuale, tanto che persino presso i cacciatori-raccoglitori solo occasionalmente si provvede all’eliminazione fisica dei bulli. Ma è davvero così adattativo il bullismo? Data l’impossibilità di trattare tutto in modo adeguato in un singolo post, cercherò di soffermarmi criticamente su due argomenti che reputo basilari: le cause ultime, ossia il bullismo dal punto di vista evolutivo, e le cause prossime, cioè la neurofisiologia del bullismo. Facciamo ordine e partiamo dal primo punto; al secondo sarà dedicato il prossimo post.

Gottschall propende per un bullismo atavico, incardinato sul repertorio comportamentale di tutte le società passate e presenti di H. sapiens e, pertanto, ineludibile. L’esempio succitato dei cacciatori-raccoglitori, usato come termine di paragone per il comportamento umano precedente alla sedentarizzazione, dovrebbe servire non solo per dimostrare l’inutilità stessa delle azioni intraprese contro tali soggetti ma anche per sottolinearne il valore adattativo. Proviamo però ad allargare il quadro  e a guardare un momento alle implicazioni del bullismo per l’evoluzione dell’altruismo.

Nel 1871, Darwin ipotizza l’esistenza di una selezione di gruppo secondo la quale l’adozione di determinati comportamenti altruistici all’interno del proprio gruppo avrebbe permesso di surclassare gli altri gruppi competitori nel corso del tempo profondo [3]. Darwin nota anche che, a lungo termine, decisioni morali legate a decisioni altruistiche estreme e più o meno vincolanti per il resto del gruppo di appartenenza agirebbero come filtro selettivo equivalente alla selezione naturale [4]. Come ha sintetizzato Telmo Pievani, «la logica evolutiva che favorisce l’emergenza di comportamenti cooperativi all’interno dei gruppi presuppone la conflittualità fra gruppi in competizione» [5]. Ma cosa succede quando all’interno del proprio gruppo esistono individui che non solo usufruiscono delle risorse ma non collaborano quando dovrebbero (scrocconi o approfittatori; in inglese “free rider”) ma che mettono a repentaglio la coesione del gruppo prevaricando e monopolizzando l’accesso alle risorse attraverso un uso coercitivo della forza (bulli o “free rider dominanti”, secondo l’espressione di Cristopher Boehm [6])? 

In questo senso, Darwin accenna brevemente al fatto che i codardi vengono disprezzati rispetto agli individui coraggiosi, intendendo per codardi i vigliacchi che si tirano indietro di fronte al sacrificio patriottico di sé – ossia che non reciprocando quando necessario [7], lasciando un po’ da parte il più vasto problema dell’esistenza stessa dei free rider. Il problema spinoso della presenza continua di questi individui viene riaperto da George Williams nel 1966, il quale nel contempo spedisce al macero l’ipotesi della selezione di gruppo a livello di specie a causa di quella che considerava un’insufficiente capacità euristica implicita nella teoria. Cinque anni più tardi, Robert Trivers [8] si concentra nuovamente sugli scrocconi nell’ottica dell’altruismo reciproco, un meccanismo sociale volto alla reciprocazione tra non consanguinei e selezionato in virtù della sua capacità di surclassare i competitori. Di nuovo, i free rider dominanti venivano relegati al cono d’ombra del discorso. Che poi sarebbe anche il problema dei cinecomic Marvel e DC attuali: la grandezza dei protagonisti si soppesa sulla base della presenza scenica degli antagonisti – che invece spesso, troppo spesso, latitano.

Giù la maschera!
Chi si ricorda delle profondissime e shakespereane motivazioni di Malekith in Thor: The Dark World? ... ... ecco, appunto. QED.
Fonte: Marvel Cinematic Universe Wikia © 2013 Marvel Studios
Cosa ci dice il resto della blasonata storia dei modelli evoluzionistici relativi all’altruismo per quanto riguarda i free rider dominanti? Non troppo, o almeno non quanto potrebbe: come ha notato Cristopher Boehm dopo aver passato in rassegna otto modelli principali relativi alla storia evolutiva dell’altruismo [9], i free rider, dominanti o meno, stanno quasi sempre sullo sfondo, dove vengono spesso rappresentati come «imbroglioni dediti a sfruttare gli altruisti creduloni e generosi» [10]. Eppure i free rider sono «‘giocatori’ fondamentali per la formazione e il mantenimento del pool genico umano, e rivestono un ruolo chiave rispetto alle possibilità offerte dall’altruismo» [11]. Proviamo a rimetterli al centro del palcoscenico.

Verso una storia naturale del bullismo


Tavola illustrativa risalente al XX secolo e reperibile sotto la voce Bullo: Biff Tannen incontra Marty McFly.
Fonte: Futurepedia © 1985 Amblin Entertainment

Allora, seguendo Boehm, il bullo è un free rider dominante, il quale all’interno di un contesto di gerarchie sociali di dominanza «ottiene vantaggi riproduttivi per mezzo dell’esercizio della forza o della sua minaccia, e non per via dell’inganno» [12]. Spoiler e avanti veloce: Boehm ritiene che solo l’interazione tra selezione di gruppo (modello tornato in auge  di recente e che prevede un filtro costituito da «tassi di estinzione e da variabilità fenotipica tra i gruppi») [13] e la selezione sociale («selezione per mezzo della reputazione» all’interno di un solo gruppo, con controllo interno, scelte personali e sanzioni volte a contenere le gerarchie di dominanza) [14] possa spiegare “il paradosso genetico dell’altruismo umano» e, pertanto, il fatto che il bullismo non sia stato filtrato via dalla selezione [15]. Come è arrivato a questa soluzione? Partendo dalla stessa idea di Gottschall (che, detto per inciso, si è ispirato a lavori precedenti di Boehm), ossia guardando comparativamente a quanto avviene nelle società di cacciatori-raccoglitori. 

Ora, non mi dilungherò in questo post sulla liceità epistemologica di tale metodo, e rimando al prossimo post una serie di annotazioni critiche. Per il momento relata refero. Dunque, la ricetta comparativa di Boehm è molto più precisa rispetto allo schema sintetico proposto da Gottschall e prevede l’analisi di una lista di comportamenti, usi e costumi tratti da 339 società di cacciatori-raccoglitori [16]. Prendete allora queste società, escludete dal novero tutte quelle che hanno conosciuto domesticazione, orticoltura, commercio di pellicce, e sedentarizzazione con annessi e connessi gerarchici. Vi restano 49 società, ma non avete ancora finito. Si deve aggiungere un livello primatologico trattando i pànini (ossia scimpanzé e bonobo che costituiscono il genere Pan, non i sandwich imbottiti), si tracciano le somiglianze comportamentali tra i due generi dei nostri parenti filogenetici più prossimi, si aggiungono quelle di Homo, si ottiene l’ipotetico schema comportamentale del potenziale antenato comune dei tre generi di ominini viventi sulla base di considerazioni evolutivamente parsimoniose (un antenato ipotetico che Boehm chiama “Ancestral Pan”), et voilà. Ci siamo. Dati i presupposti di partenza, quello che avete sul fondo della provetta è il precipitato probabilisticamente più vicino a quello che doveva essere la società umana appena prima della colonizzazione dell’intero globo terracqueo – battezzata da Boehm come ipotetica popolazione LPA, acronimo che sta per “Late-Pleistocene Appropriate” [17].

Laddove Gottschall minimizzava il ruolo di controllo delle comunità di cacciatori-raccoglitori, limitandone l’intervento ai casi peggiori, Boehm documenta l’uso diffuso della punizione capitale contro i bulli nel 50% del campione delle 49 società. Punizione che, tra l’altro, esiste anche tra i pànini. La punizione, che Boehm ritiene in gran parte rivolta contro maschi di età compresa tra 20 e 40 anni (ossia in piena età fertile), verrebbe solitamente condotta da tutto il gruppo, onde evitare singole vendette da parte dei familiari del bullo, oppure cooptando come agente un parente prossimo della vittima. Boehm accenna anche ai potenziali casi di sottorappresentazione etnografica di tali punizioni nella documentazione etnografica dei due secoli passati, spiegandola come risultato di una consapevolezza da parte delle popolazioni interessate allo scopo di evitare una stigmatizzazione sotto il giogo delle autorità coloniali [18]. Ma allora, se davvero vogliamo considerare questa punizione diffusa quasi come un universale pan-umano diffusosi, poniamo speculativamente, 45.000 anni fa, come mai il bullismo, così deleterio per le dinamiche altruistiche all’interno del proprio gruppo, ha resistito al filtro dall’evoluzione?

Perché, secondo Bohem, esistono numerose opportunità di redenzione e ravvedimento per il bullo nelle società analizzate, che oppongono alla pena capitale sanzioni indirette (es., «pettegolezzo, opinione pubblica») e sanzioni dirette (es., «ostracismo, allontanamento, critiche, ridicolizzazione, esposizione al pubblico ludibrio, punizioni fisiche non letali») [19]. Quindi, anche se i provvedimenti venivano presi nell’ottica di limitare la fitness del soggetto (con uno stop alla cooperazione e alle possibilità di contrarre matrimonio), la possibilità di ristabilire la propria reputazione può condurre ad un recupero (più o meno parziale) della propria reputazione. Tradotto nella LPA di Boehm, in pratica, il figlio prodigo 1.0 in versione paleolitica.

La trattazione di Gottschall, tarata su coordinate iper-violente, lasciava in ombra gli aspetti di modulazione comportamentale tra norme sociali e cognizione individuale. In effetti, le radici ultime del processo tracciato da Boehm starebbero nell’evoluzione di un set di capacità mentali di pianificazione legate all’autoconsapevolezza e nell’autocontrollo, che «ci permett[ono] di calcolare quando possiamo farla franca senza danneggiare il mostro successo riproduttivo» [20]. Quando osservato da un punto di vista evolutivo (per quanto speculativo), questo aspetto machiavellico e controvoglia cooperativo, sarebbe il risultato dei vincoli cooperativi imposti dal lavoro di gruppo necessario per organizzare la caccia e il lavoro di gruppo. A partire dalla comparsa di H. sapiens arcaico, e stando a quanto elaborato sulla base della LPA, il controllo dell’ego dei  cacciatori migliori nel contesto della caccia di grandi ungulati veniva implementato a livello comunitario a beneficio della sussistenza generale del gruppo e modulando un certo grado di autonomia individuale [21]. In breve, la possibilità di chiudere un occhio di fronte agli individui alfa, più arroganti, pretenziosi e capaci di imporre la propria forza in modo coercitivo e violento di fronte al gruppo, era comunque vincolata al loro ravvedimento in caso di rottura del patto sociale. Questo perché era necessario che i cacciatori più forti (e, potenzialmente, quelli capaci di instaurare un sistema piramidale gerarchico) restassero nel gruppo. Come scrive Boehm, «credo che i sistemi di controllo sociale abbiano fornito varie possibilità di ravvedimento personale, e ciò significa che un maschio alfa altamente competitivo che però aveva una coscienza molto efficiente può essere riuscito ad incanalare la sua aggressività verso benefici riproduttivi generali, ossia evitando azioni competitive che avrebbero condotto a sanzioni» [22]. 

La parte forse più interessante è che il sistema comportamentale ancestrale di H. sapiens, le cui coordinate basilari (per quanto modificatesi) sarebbero ancora vigenti presso le popolazioni dalle quali Boehm è partito per creare in vitro (o, meglio, in silico) la sua LPA, sarebbe stato dominato da una “sindrome egalitaria”. Al contrario di quanto affermato da Gottschall, il sistema a gerarchia inversa, per cui coalizioni di subordinati di ambo i sessi tengono a bada e controllano gli individui alfa, sarebbe quindi stata la norma delle società umane precedenti la sedentarizzazione e l’implementazione dell’agricoltura. D’altra parte, questo  è ciò che succede ancora oggi presso quelle società di cacciatori-raccoglitori. Questo dato sembra essere confermato dal confronto comparativo primatologico, dato che le gerarchie sociali di dominanza ricostruite per l’antenato comune di Homo, Pan paniscus (bonobo) e P. troglodytes (scimpanzé) sulla base di comportamenti condivisi, avrebbero permesso il rovesciamento degli individui alfa o il loro controllo da parte dei subordinati, come avviene ancora (talvolta) in entrambe le specie di pànini [24]. Ed ecco perché dopo un numero di generazioni compreso tra 2000 e 10.000 il controllo dei maschi alfa, e la violenza dei bulli, non sono stati debellati una volta per tutte dal genere Homo.

Condivisione egalitaria della carne presso i Mbendjele (in Congo).
Fonte: Wikipedia, opera dell’utente Altg20April2nd
Attenzione a ciò che desiderate: quando si pagano le conseguenze (impreviste) delle scelte passate


Paradossalmente, secondo Boehm, questa tolleranza morale basata sul ravvedimento individuale degli individui alfa e dei free rider dominanti ha fatto sì che all’interno del pool genico umano la tendenza ad instaurare gerarchie di dominanza basate sulla coercizione e sull’uso della forza non venisse mai meno. Nelle società contemporanee di cacciatori raccoglitori il controllo comunitario operato tramite pettegolezzi e richiami sui maschi alfa è straordinariamente efficace, ma funziona solo nella misura in cui il sistema socio-economico resti legato a reti comunitarie di piccole dimensioni, dove tutti possono conoscersi e controllarsi a vicenda. Quando a partire dal Neolitico le società stanziali e agricole hanno cominciato ad aumentare i propri ranghi e a produrre surplus economico, rendendo possibile sia un minore controllo sui free-rider dominanti sia l’accumulo di capitali con i quali far valere una dominanza gerarchica piramidale, la comparsa di società autoritarie e di leader autocratici è stata la conseguenza imprevista della selezione operata a livello fenotipico controllando il comportamento di certi bulli. Le maglie della selezione sociale, modulando tra variabilità fenotipica e ravvedimento (che può essere soggetto a finzioni opportunistiche), e lasciando passare attraverso il filtro della selezione certi pattern comportamentali in un inseguimento vertiginoso tra controllo sociale, autocoscienza, opportunismo, forza e violenza, hanno creato le precondizioni per il ristabilimento neolitico di quelle strutture altamente gerarchiche e violente tipiche di altri primati non-ominini.
Anche se tale sistema ha permesso ad Homo e, in parte, a scimpanzé e bonobo l’instaurazione di un livello notevole di controllo esercitato dai subordinati sui dominanti, come nota sconsolato Boehm, «il fatto che il comportamento bullistico tra i bambini sia diventato una fonte di preoccupazione testimonia quanto l’aver giustiziato i bulli per migliaia di generazioni non sia evidentemente riuscito ad eliminare queste tendenze comportamentali avendo, anzi, contribuito probabilmente alla loro trasformazione» [25].
Nel prossimo post scenderemo proprio nell’arena delle scuole dove il bullismo viene vissuto e osserveremo a livello neurofisiologico i comportamenti bullistici.

[1] Gottschall, J. (2012), Il professore sul ring. Perché gli uomini combattono e a noi piace guardarli. Torino: Bollati Boringhieri. p. 48 (pubbl. orig. nel 2015 come The Professor in the Cage: Why Men Fight and Why We Like to Watch. New York: Penguin Random House; qui trovate una mia recensione pubblicata su LIndice dei Libri del Mese di dicembre 2016); Volk, A., Camilleri, J., Dane, A., & Marini, Z. (2012). Is Adolescent Bullying an Evolutionary Adaptation? Aggressive Behavior, 38 (3), 222-238 DOI: 10.1002/ab.21418. Da notare che nell’articolo di Volk et al. si ammette a partire dallabstract che il bullismo “possa essere, in parte, una strategia adattativa e facoltativa frutto dell’evoluzione capace di offrire alcuni vantaggi a coloro i quali ne adottano i comportamenti” (corsivo aggiunto). Siamo ben lontani dalla sicurezza di Gottschall.

[2] Gottschall, Il professore sul ring, cit., 48.

[3] Darwin. C. R. (1990). L’origine dell’uomo. Roma: Newton Compton. p. 158 (pubbl. orig. nel 1871 come The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex. Londra: John Murray).

[4] Darwin, L’origine dell’uomo, cit., 158.

[5] Pievani, T. (2012). Introduzione a Darwin. Roma – Bari: Laterza. p. 121.

[6] Boehm, C. (2016). Bullies: Redefining the Human Free-Rider Problem. Darwin’s Bridge: Uniting the Humanities and Sciences. Edited by Carroll, J., McAdams, D.P., Wilson, E.O. New York: Oxford University Press., 11-28 : 10.1093/acprof:oso/9780190231217.001.0001.

[7] Darwin, L’origine dell’uomo, cit., 143.

[8] Trivers, R. (1971). The Evolution of Reciprocal Altruism The Quarterly Review of Biology, 46 (1), 35-57 DOI: 10.1086/406755.

[9] Boehm, Bullies, cit., 14-15.

[10] Ibi: 12.

[11] Ibid.

[12] Ibid.

[13] Ibi: 14. Cfr. Wilson, D.S., & Wilson, E.O. (2007). Rethinking the Theoretical Foundation of Sociobiology The Quarterly Review of Biology, 82 (4), 327-348 DOI: 10.1086/522809.

[14] Ibi: 15. Cfr. West-Eberhard, M.J. (1979). Sexual Selection, Social Competition, and Speciation The Quarterly Review of Biology, 123 (41), 222-234; Nesse, R.M. (2007). Runaway Social Selection for Displays of Partner Value and Altruism Biological Theory, 2 (2), 143-155 DOI: 10.1007/978-1-4020-6287-2_10; Boehm, C. (2008), A Biocultural Evolutionary Exploration of Supernatural Sanctioning. In The Evolution of Religion: Studies, Theories and Critiques, edited by Sosis, R., Genet, R., Harris, E., Wyman, K., and Genet, C., 143-152. Santa Margarita: Collins Foundation Press.

[15] Boehm, Bullies, cit., 24.

[16] Lista ripresa da Binford, L. (2001). Constructing Frames of References: An Analytical Method for Archeological Theory Building Using Hunter-Gatherer and Environmental Data Sets. Berkeley: University of California Press.

[17] Boehm, Bullies, cit., 17.

[18] Ibi: 17.

[19] Ibi:19.

[20] Ibi: 20.

[21] Ibi: 21.

[22] Ibi: 22.

[23] Ibi: 20.

[24] Ibi: 17.

[25] Ibi: 23.

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