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domenica 15 dicembre 2013

La cultura, il lato oscuro della tabula rasa e l'antidarwinismo antropologico

Wikipedia, immagine dell'utente Petr Adam Dohnálek
ResearchBlogging.orgDopo una lunga pausa, motivata da progetti che presto (spero) avrò il piacere di discutere in questa sede, ripartiamo in medias res con un post dedicato alla nozione umanistica della mente umana come pagina bianca sulla quale vengono scritte ex novo la cultura e l'apprendimento.
Questa tesi sulla mente, detta tabula rasa (ossia la tavoletta di cera sulla quale i romani scrivevano e riscrivevano dopo averla raschiata), è diventata il «modello standard delle scienze sociali», secondo la definizione degli psicologi evoluzionisti John Tooby e Leda Cosmides [1], ed è stata adottata in particolare dagli antropologi sociali e culturali. L'ottica della tabula rasa, che traccia le sue radici nel pensiero filosofico aristotelico e in quello di John Locke e che è stata analizzata a fondo da Steven Pinker [2], ritiene che «poiché gli esseri umani possono trasmettere informazioni tra gli individui attraverso qualsiasi comunicazione simbolica, essi sono liberi da qualunque vincolo naturale e si differenziano essenzialmente dagli altri animali, i quali trasmettono l’informazione perlopiù, se non completamente, in modo genetico» [3]. Secondo l'efficace sintesi offerta da Maurice Bloch e Dan Sperber e che qui seguiamo, in breve, gli esseri umani non sarebbero «per nulla vincolati o influenzati dall’hardware cerebrale geneticamente ereditato» [4], i cui contenuti invece risulterebbero il puro prodotto di processi storico-culturali. La diffusione di questo modello si deve innanzitutto a un rifiuto, senza possibilità di dialogo, delle impostazioni funzionaliste ed evoluzioniste della primissima antropologia accademica prima e della sociobiologia poi, e in seconda battuta dal convergente emergere di un cambiamento di paradigma epistemologico-disciplinare impostato sul profondo relativismo postmodernista delle incomparabili costruzioni culturali umane.

Cerchiamo di andare a ritroso nella storia del lato umanistico dello studio antropologico. Il modello adottato in origine – e poi giustamente rifiutato a causa degli espliciti risultati razzisti che hanno piagato la ricerca antropologica ed etnografica grosso modo per tutta la prima metà del Novecento [5] – era quello di un evoluzionismo non darwiniano bensì ortogenetico e/o spenceriano-bergsoniano, secondo cui l’evoluzione coinciderebbe sic et simpliciter con la lotta per la sopravvivenza del più adatto, con il progresso inteso nei termini di continuo e assoluto miglioramento e con un grado di complessità crescente (più o meno esplicitamente ed escatologicamente indirizzato verso Homo sapiens). Nella seconda metà del Novecento, l'antidarwinismo culturale si è però rivelato utile a livello disciplinare anche come argine nei confronti delle “just-so stories (“storie proprio così”) tipiche dell'iper-determinismo genetico coltivato dalla primissima sociobiologia, per cui tutti i comportamenti, anche quelli come il dominio sociale aggressivo e androcentrico, l'odio nei confronti degli estranei/stranieri, ecc., vengono invariabilmente considerati come adattamenti ad hoc in vista della massimizzazione della fitness degli individui.
Richard Milner ha recentemente sintetizzato le note critiche di Stephen Jay Gould in merito alle just-so stories sociobiologiche, secondo le quali questa peculiare tipologia di racconti evoluzionistici appare profondamente inficiata da almeno tre fallacie argomentative:
  • la ricerca iperselezionista di tratti positivamente adattativi non rende conto del fatto che molti tratti possono essere neutrali, ovvero non avere alcun valore adattativo caratteristico;
  • la «plausibilità logica della proposta adattativa non è un sostituto della raccolta di sufficienti evidenze a sostegno»;
  • infine, le ricostruzioni adattative basate sull’ascendente progressione evolutiva verso un adattamento perfetto sono del tutto errate, poiché «ogni organismo è il prodotto di una storia speciale e unica, e noi solitamente non abbiamo modo di conoscere quanto gli adattamenti del passato [evolutivo] si armonizzassero con gli ambienti passati» – non c’è modo quindi di ritenere un adattamento precedente come meno perfetto [6].
Anche se per motivi di spazio non possiamo soffermarci sul tema (materiale per un altro post), va da sé che non era certamente necessario rifiutare in blocco tutta la disciplina biologico-evoluzionista per arginare la diffusione di quel tipo di determinismo sociobiologico. Sarebbe bastato un maggiore spirito scientifico-cognitivista che permettesse di chiarire che quei comportamenti possono comunque essere cognitivamente bypassati poiché, nelle parole di Telmo Pievani, «più che un catalogo di “soluzioni” per problemi adattativi preesistenti, le facoltà mentali rappresentano, come aveva suggerito Darwin, una riserva di riadattamenti potenziali» [7]. Purtroppo, come dimostrato da una serie di casi (ricordiamo en passant la nota disputa antropologica tra Mead e Freeman), non era facile opporsi a un contesto disciplinare in cui si ritenevano le condizioni sociali più potenti di qualunque possibile vincolo biologico radicato nel tempo profondo dell'evoluzione[8].
A monte di tutto resisteva insomma il fraintendimento secondo cui evoluzione significava “progresso” indefinito, competitivo tout court o teleologicamente orientato secondo criteri razzisti. In questo senso, nelle discipline umanistiche sussiste ancora un malinteso terminologico che risale alle scuole classiche dell’antropologia evoluzionistica. Già Claude Lévi-Strauss aveva però ben presente la profonda differenza, ancora oggi così spesso fraintesa, che passa tra il “darwinismo” spenceriano e l’evoluzionismo di Darwin: «i due fondatori dell’evoluzionismo sociale, Tylor e Spencer, elaborano e pubblicano la loro dottrina prima dell’Origine delle specie o senza aver letto quest’opera. Anteriore all’evoluzionismo biologico, teoria scientifica, l’evoluzionismo sociale si riduce troppo spesso ad una mascheratura pseudoscientifica di un vecchio problema filosofico […]» [9].

A causa di questo equivoco, e nonostante l’ammonimento di Lévi-Strauss, mentre la biologia evoluzionistica impostata sul programma di ricerca darwiniano continuava a scoprire e a evidenziare i pattern della storia evolutiva del pianeta Terra – e pertanto a tracciare confini sempre più precisi anche delle nozioni di “cultura”, umana e no – il côté umanistico dell’antropologia diventava impenetrabile a qualunque discorso scientifico-biologico e impermeabile rispetto alle possibilità di innestare un più fecondo dialogo interdisciplinare. In pratica, si è proceduto all’eliminazione di tutto quanto poteva richiamare un quadro “evolutivo/evoluzionistico”, senza fare alcuna distinzione tra modelli ideologici e falsificati e programmi di ricerca scientifici e verificati.
Il risultato è che ancora oggi, come hanno scritto Bloch e Sperber, «Sembra essere presente in molti antropologi sociali e culturali una sorta di orrore sacro nei confronti di qualsiasi suggestione che comporti un fattore genetico per la spiegazione di quanto ritenuto antropologicamente significativo. Ciò colpisce particolarmente nell’area della parentela, data la sua importanza sia da un punto di vista culturale che biologico. Questo orrore si spiega [storiograficamente] in parte per il fatto che gli approcci “biologici” sono stati spesso conniventi con vari tipi di razzismo e anche per il frequente e basilare fraintendimento della complessità dei dati culturali e del significato della storia nei sistemi culturali umani da parte dei molti che hanno intrapreso tali percorsi» [10]. Per quanto riguarda la cosiddetta “accusa razzista” all'evoluzione rimandiamo a ciò che abbiamo già annotato in questo post.
Invece, dall’altra parte della spiegazione, per semplificare, emerge un’accusa anacronistica e francamente disonesta. In breve, l’allontanamento delle discipline umanistiche dalle scienze biologiche ha sfruttato il seguente inganno intellettuale: la biologia evoluzionistica sarebbe antidemocratica perché (geneticamente e/o deterministicamente) contraria al ruolo positivo svolto dell'educazione nella formazione degli individui. Una visione errata e profondamente semplicistica che ignora la complessa storia della ricerca disciplinare (che da decenni ha accolto lo studio dell'aspetto cooperativo accanto a quello competitivo) [11], e che, come sintetizza Peter Singer, si basa storicamente su quell’«errore comprensibile, ma fatale, […] consistito nel fatto di [aver] accett[ato] le tesi della destra, a cominciare dall’idea che la lotta darwiniana per l’esistenza corrispondesse a quella visione della natura suggerita dalla memorabile (e predarwiniana) frase di Tennyson “Nature, red in tooth and claw” (la natura dai denti e dagli artigli rossi di sangue)» [12].

Alla fine, il modello antropologico della tabula rasa è andato in crisi di fronte alle scoperte sperimentali provenienti dalla psicologia dello sviluppo (per cui «l’acquisizione delle conoscenze da parte del bambino è guidata da disposizioni cognitive specifiche per dominio» [13] – vedremo nei prossimi post il significato di queste scoperte), dalla comparazione con l’etologia cognitiva, che sta chiarendo i pattern cognitivo-comportamentali e sociali in comune con i primati non-umani [14], e dal fatto che la genetica popolazionale ha divelto con forza qualunque velleitaria e distorta lettura razzista dei dati antropologico-evolutivi: come ha sintetizzato Guido Barbujani, «in Africa c’è più diversità che in qualunque altro continente, e spesso le differenze genetiche fra popolazioni africane sono grandi quanto quelle fra popolazioni di continenti diversi. Le varianti geniche che troviamo in Europa e in Asia sono sottoinsiemi delle varianti africane più qualche allele che, con ogni probabilità è comparso in tempi relativamente recenti […]» [15]. Quest'ultimo punto sembra trovare conferme anche da recenti analisi linguistiche, per cui, a quanto risulterebbe, non è solamente la diversità genotipica a ridursi progressivamente man mano che ci si allontana dal continente africano, ma anche la ricchezza dei fonemi che compongono le lingue. Si tratta di un fenomeno noto in genetica come effetto del fondatore in serie o seriale (serial founder effect), ossia la perdita di parte della diversità genetica durante la colonizzazione delle terre emerse a partire da ristrette popolazioni di esseri umani usciti dall’Africa [16].
E da ultimo, come ha icasticamente annotato Pinker, l’idea stessa di tabula rasa, invece di porsi come baluardo della libertà democratica, ha più spesso rivelato il suo lato oscuro, ossia il «vuoto che presupponeva nella natura umana è stato più che volentieri riempito dai regimi totalitari, e essa non ha fatto nulla per impedire i genocidi [...]. Il suo corollario, il Buon selvaggio, invita a disprezzare i principi della democrazia [...]. Ci rende ciechi sulle nostre debolezze cognitive e morali. E, di fronte a problemi che richiedono interventi, fa prevalere stupidi dogmi sulla ricerca di soluzioni praticabili» [17].

[1] Tooby, John e Leda Cosmides, The Psychological Foundations of Culture, in Barkow, Jerome H.; Cosmides, Leda e John Tooby (eds.), The Adapted Mind: Evolutionary Psychology and the Generation of Culture, Oxford University Press, Oxford-New York 1992 , pp. 19-136 (cit. in Sperber, Dan e Lawrence Hirschfeld, The Cognitive Foundations of Cultural Stability and Diversity, in «Trends in Cognive Science», 8, 1, January, pp. 40-46, 2004, p. 40).
[2] Pinker, Steven, Tabula rasa. Perché non è vero che gli uomini nascono tutti uguali, Mondadori, Milano 2006 (ed. orig. The Blank Slate: The Modern Denial of Human Nature, Viking, New York 2002; Penguin Books, London 2003)
[3] Bloch, Maurice e Dan Sperber, Kinship and Evolved Psychological Dispositions: The Mother’s Brother Controversy Reconsidered, in «Current Anthropology», 43, 5, Dec., 2002, pp. 723-748; p. 725.
[4] Ibidem.
[5] Biondi, Gianfranco e Olga Rickards, L’errore della razza. Avventure e sventure di un mito pericoloso, Carocci, Roma 2011
[6] Milner, Richard, s.v. “Just-so” Stories, in id. (ed.), Darwin’s Universe: Evolution from A to Z, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2009, p. 252
[7] Pievani, Telmo, Introduzione alla filosofia della biologia, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 222 (2005).
[8] Cfr. Singer, Peter, Una sinistra darwiniana. Politica, evoluzione e cooperazione, Edizioni di Comunità, Torino 2000, p. 33 (ed. orig. A Darwinian Left: Politics, Evolution and Cooperation, Weidenfeld & Nicholson, London 1999).
[9] Lévi-Strauss, Claude, Razza e storia, in id., Razza e storia e altri studi di antropologia, a cura di P. Caruso, Einaudi, Torino 1967, pp. 99-141; p. 109 (riprodotto anche in id., Razza e storia. Razza e cultura, Einaudi, Torino 2002; ed. or. del testo Race et histoire, UNESCO, Paris 1952, riprodotto in id., Race et histoire, Gallimard, Paris 1987, 2006).
[10] Bloch e Sperber, Kinship and Evolved Psychological Dispositions, cit., p. 746.
[11] Cfr. ad es. Martin A. Nowak con Roger Highfield, Supercooperatori. Altruismo ed evoluzione: perché abbiamo bisogno l’uno dell’altro, Codice edizioni, Torino 2012 (ed. or. Supercooperators: Altruism, Evolution, and Why We Need Each Other, Free Press, New York- London 2011).
[12]  Singer, Una sinistra darwiniana, cit., p. 19. Cit. di Alfred Tennyson da In Memoriam A.H.H. (1849).
[13] Sperber e Hirschfeld, The Cognitive Foundations of Cultural Stability and Diversity, cit., p. 40.
[14] Ibi: 44.
[15] Barbujani, Guido, L’invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana, Bompiani, Milano 2008, p. 127 (2006).
[16] Atkinson, Quentin D., Phonemic Diversity Supports a Serial Founder Effect Model of Language Expansion from Africa, in «Science», 332, 15 April, 2011, pp. 346-349.
[17] Pinker, Tabula rasa, cit., p. 515.

Artt. indicizzati in Research Blogging:
Sperber D., & Hirschfeld L.A. (2004). The cognitive foundations of cultural stability and diversity. Trends in cognitive sciences, 8 (1), 40-6 PMID: 14697402
Bloch, M., & Sperber, D. (2002). Kinship and Evolved Psychological Dispositions: The Mother’s Brother Controversy Reconsidered. Current Anthropology, 43 (5), 723-748 DOI: 10.1086/341654 Atkinson, Q.D. (2011). Atkinson, Quentin D., Phonemic Diversity Supports a Serial Founder Effect Model of Language Expansion from Africa. Science, 332 (6027), 346-349 DOI: 10.1126/science.1199295

martedì 10 settembre 2013

Geology and Religion: A History of Harmony and Hostility. Estratto da una recensione storiografica

(c) 2009, The Geological Society, London 


ResearchBlogging.org Dopo Myth and Geology presentiamo oggi un secondo, corposo volume pubblicato per i tipi della Geological Society nel 2009 e intitolato Geology and Religion: A History of Harmony and Hostility. Curato da Martina Kölbl-Ebert (Jura-Museum, Eichstätt), il testo ha una natura storiografica e biobibliografica, e verte in sostanza sul versante teologico e occidentale del rapporto religioso con la geologia e con il tempo profondo [1]. In particolare, il suo nodo focale è costituito dal confronto storiografico tra vari modelli che facevano riferimento al diluvio biblico (e lo fanno tuttora in campo creazionista) per spiegare tutti i fenomeni geologici, compresa la conservazione dei fossili di animali estinti e la datazione assoluta dell’età del pianeta, e l’accumulo di evidenze geologiche in senso contrario. Di conseguenza, la maggior parte dei contributi porta all’attenzione l’opera di studiosi o istituzioni in due direzioni opposte: lo sforzo per trovare un accordo tra fede religiosa e prove geologiche o l’esigenza di creare una disciplina completamente autonoma rispetto alle imposizioni dogmatiche. Data la quantità davvero eccezionale del materiale presentato, la ricchezza dei punti di vista presentati e della documentazione discussa, ci limiteremo a fornire una sommaria descrizione dei contenuti più strettamente legati ad argomenti biobibliografici paleontologici, rilevando dopo il breve elenco alcuni spunti ulteriori per lo studio dell’argomento.

G. Godard esamina il processo scientifico e comparativo che portò lo studioso provenzale Nicolas-Claude Fabri de Peiresc (1580-1637) a rifiutare l’interpretazione agostiniana, presente nel De civitate dei, dei resti fossili di proboscidati (spesso molari) come testimonianza dell’esistenza dei giganti citati nella Bibbia. Non si trattava di un’interpretazione nuova ma Peiresc, che era al corrente del processo di Galilei in Roma (con il quale era in corrispondenza), tenne per sé le sue conclusioni, pubblicate postume.

F. Luzzini tratta dell’interpretazione geologica dei fossili di Antonio Vallisneri (1661-1730), esposta nel suo De’ corpi marini (1721). Vallisneri spiegò la presenza dei fossili negli strati geologici delle regioni montane come risultato di molteplici sequenze di alluvioni ed emersioni, limitando l’intervento divino al singolo diluvio presentato nella Bibbia. Conscio di ciò, attuò un sistema di autocensura onde evitare problemi con l’autorità religiosa.

A. Candela spiega la situazione dello studio del vulcanismo in relazione all’orogenesi alpina e alla formazione delle rocce basaltiche (rocce effusive di origine vulcanica) nell’Italia della seconda metà del XVIII secolo. Il clima intellettuale mutò verso la fine del secolo, quando la diffusione di teorie diluvianiste ristabilì, con l’appoggio ecclesiastico, l’idea di un unico, grande diluvio coincidente con quello biblico.

M.J.S. Rudwick approfondisce il tema della dissociazione tra diluvio biblico e diluvio (o catastrofe) geologico nel corso del XIX secolo, soprattutto in relazione alle spiegazioni avanzate per chiarire le prove delle varie fasi della glaciazione pleistocenica e la presenza dei massi erratici in Europa.

P. Taquet illustra le vicende biobibliografiche di Georges Cuvier (1769-1832), tra i maggiori naturalisti dell’epoca e uno dei padri fondatori della moderna disciplina paleontologica. La sua educazione luterana (era nato a Montbéliard, all’epoca sito nel ducato di Württemberg), associata alla sua teoria del catastrofismo nella storia del pianeta (secondo la quale la Terra sarebbe stata scossa da brevi e intesi episodi catastrofici causa, tra le altre cose, delle estinzioni di forme animali note nella documentazione fossile e oggi estinte), permisero alla cultura generale dell’epoca di farne un rappresentante, per quanto sui generis, del diluvianismo biblico. L’analisi della corrispondenza inedita con Henry de la Fite, il traduttore inglese del geologo e meteorologo svizzero Jean-André de Luc (1727-1817), rivela invece che Cuvier prestò attenzione a non farsi coinvolgere nelle dispute religiose dell’epoca ed evitò scrupolosamente di esporsi più di quanto non fosse sostenibile sulla base dei documenti geologici e paleontologici noti.

M.B. Roberts analizza l’attività geologica di Adam Sedgwick (1785-1873), uno dei fondatori inglesi della disciplina (divenne professore a Cambridge, dove poté annoverare tra i discenti il giovane Darwin) e canonico anglicano della cattedrale di Norwich, attraverso l’analisi della sua corrispondenza.

G.K. Viohl racconta la vita di Franz X. Mayr (1887-1974), sacerdote cattolico e professore di storia naturale presso l’Università cattolica di Eichstätt. F. Mayr, ricordato in paleontologia soprattutto per l’acquisizione dello scheletro attribuito ad Archaeopteryx litographica, a favore del Jura-Museum di Eichstätt (reperto noto nella letteratura scientifica come JM 2257) [2], era un creazionista sui generis, per cui Dio sarebbe intervenuto nell’evoluzione almeno due volte: nella genesi della vita e nello sviluppo del genere umano.

S. Turner studia la vita del barone Friedrich von Hoyningen, meglio conosciuto come F. von Heune (1875-1969), tra i maggiori paleontologi del Novecento impegnati nel campo dei dinosauri, e uno dei più prolifici descrittori di reperti fossili avente all’attivo viaggi di studio in varie parti del mondo. Come accennò il paleontologo Edwin H. Colbert (1905-2001) in una sua nota opera storiografica, «in tutta la sua lunga vita von Heune fu fedele a un prepotente e sincero credo religioso, che permeava il suo modo di vedere il mondo, presente e futuro» [3]; a questo aspetto è dedicato il contributo di Turner, che mette in evidenza, per la prima volta, le pubblicazioni teologiche del paleontologo, l’eterodossia scientifica (non riusciva a concepire l’evoluzione biologica senza un continuo intervento divino: come segnala Turner, «lo studio della filogenetica era [per von Heune] lo studio del piano della creazione di Dio») [4], il disaccordo con il potere politico nella Germania nazista e, soprattutto, i contatti epistolari con Heber A. Longman, naturalista australiano.

H.S. Torrens narra delle vicende patite da James Buckman (1814-1884), che fu naturalista, geologo e botanico. In contatto epistolare con Darwin (il quale lo citò nella prima edizione dell’Origine delle specie), promosse una serie di esperimenti botanici volti ad indagare i presupposti biologici della selezione artificiale nelle piante attraverso incroci. La distruzione del suo orto botanico ad opera della direzione anglicana del Royal Agricultural College di Cirencester nel 1862 testimonia vividamente il conflitto tra i detentori religiosi della cultura professionale e l’emergere di una nuova professionalità scientifica e laica.

R.A. Peters passa in rassegna i vari creazionismi esistenti, e propone di includerli sotto l’etichetta di teodicea creazionista (theodicic creationism) perché, secondo l’autore, tutte le varie branche che compongono il vasto movimento cristiano legato al fondamentalismo letterale tenterebbero di riscrivere la storia naturale allo scopo di assolvere Dio dall’accusa (prettamente teologica) di aver creato un mondo carico di estinzioni, dolore o morte [5].

Come il precedente volume recensito, si tratta di un volume molto ben curato, essenziale per comprendere le complesse relazioni storiografiche tra religioni e storia naturale, e di prima importanza per affrontare in modo compiuto l’argomento. Purtroppo, la grande assente è proprio l’idea dell’evoluzione darwiniana, e pochissimo spazio è sostanzialmente riservato ai protagonisti di quella che Ernst Mayr ha definito come “prima rivoluzione darwiniana” i quali, lungi dal rappresentare un gruppo coeso, si differenziavano concettualmente in modo abbastanza marcato (anche per quanto riguarda il ruolo da affidare al quadro geologico e ad un ipotetico creatore) [6]. Considerato il tema trattato, un altro caso di sicuro interesse storiografico sarebbe stato senz’altro la figura del reverendo Edward Hitchcock (1793-1864), professore di teologia naturale e di geologia presso l’Amherst College (Massachussetts), ritenuto uno dei pionieri della paleoicnologia dei dinosauri [7].

[Estratto e modificato dall'art. dell'autore intitolato Tempi profondi. Geomitologia, storia della natura e studio della religione, in SMSR 79 (1/2013) 152-214]

[1] La stessa storia dell’editore è significativa per la comprensione della storia della geologia moderna tout court: la Geological Society di Londra, fondata nel 1807, è difatti la più antica istituzione al mondo dedicata allo studio scientifico della geologia (cfr. G.L. Herries Davies, Whatever Is under the Earth: The Geological Society of London, 1807 to 2007, Geological Society, London 2007). Non è questo invece il luogo ove ricordare la sterminata bibliografia specialistica sul complesso rapporto tra teologia cristiana e geologia in epoca moderna. Il lettore interessato troverà in Geology and Religion materiale e bibliografie sufficienti.

[2] F.X. Mayr, Ein neuer Archaeopteryx-Fund, in «Paläontologische Zeitschrift» 47 (1973), pp. 17-24; P. Wellnhofer, Das fünfte Skelettexemplar von Archaeopteryx, in «Palaeontographica» A147, 4-6 (1974), pp. 169-216.

[3] E.H. Colbert, Cacciatori di dinosauri, trad. di S. Nosotti, Einaudi, Torino 1993, p. 111 (ed. or. Men and Dinosaurs: The Search in Field and Laboratory, E.P. Dutton & Co., New York 19681; The Great Dinosaur Hunters and Their Discoveries, Dover, New York 19842).

[4] S. Turner, Reverent and Exemplary: ‘Dinosaur Man’ Friedrich von Huene (187-1969), in Kölbl-Ebert (ed.), Geology and Religion, cit., pp. 223-243: 232.

[5] Rimanendo nell’ambito culturale cristiano, notiamo brevemente che la teodicea dei disastri naturali (intesi come punizione divina) svolge ancora un ruolo peculiare nella comprensione e nella giustificazione degli stessi (come dimostrato anche da recenti e offensivi fatti di cronaca); per una prospettiva storiografica cfr. ad es. D.K. Chester - A.M. Duncan, Responding to Disasters Within the Christian Tradition, With Reference to Volcanic Eruptions and Earthquakes, in «Religion» 40,2 (April 2010), pp. 85-95 (il num. cit. della rivista è interamente dedicato al rapporto tra disastri naturali e religioni; cfr. J.C. Gaillard - P. Texier, Religions, Natural Hazards, and Disasters: An Introduction, in ibi, pp. 81-84). Per le ricadute potenzialmente negative di tale opinione in campo politico-sociale cfr. T. Pievani, La fine del mondo. Guida per apocalittici perplessi, il Mulino, Bologna 2012, in part. pp. 49-50.

[6] E. Mayr, Un lungo ragionamento. Genesi e sviluppo del pensiero darwiniano, Bollati Boringhieri, Torino 1994, pp. 24-38 (ed. or. One Long Argument: Charles Darwin and the Genesis of Modern Evolutionary Thought, Harvard University Press, Cambridge, MA - London 1991).

[7] Sulla figura di Hitchcock cfr. R.T. Steinbock, Ichnology of the Connecticut Valley: A Vignette of American Science in the Early Nineteenth Century, in D.D. Gillette - M.G. Lockley (eds.), Dinosaur Tracks and Traces, Cambridge University Press, Cambridge - New York 1989, pp. 27-32; R.T. Bakker, Dinosaurs Acting Like Birds, and Vice Versa – An Homage to the Reverend Edward Hitchcock, First Director of the Massachusetts Geological Survey, in P.J. Currie et al. (eds.), Feathered Dragons: Studies on the Transition from Dinosaurs to Birds, Indiana University Press, Bloomington 2004, pp. 1-11; J.D. Archibald, Edward Hitchcock’s Pre-Darwinian (1840) “Tree of Life”, in «Journal of the History of Biology» 42 (2009), pp. 561-592.

Artt. citt. e indicizzati in Research Blogging:

Godard, Gaston. (2009). The fossil proboscideans of Utica (Tunisia), a key to the ‘giant’ controversy, from Saint Augustine (424) to Peiresc (1632). Kölbl-Ebert, M. (ed.). Geology and Religion: A History of Harmony and Hostility (Geological Society Special Publication). London: The Geological Society. (310), 67-76 DOI: 10.1144/SP310.8 Luzzini, Francesco (2009). Flood conceptions in Vallisneri's thought. Kölbl-Ebert, M. (ed.). Geology and Religion: A History of Harmony and Hostility (Geological Society Special Publication). London: The Geological Society., 310, 77-81 DOI: 10.1144/SP310.9 Candela, Andrea. (2009). On the Earth's Revolutions: floods and extinct volcanoes in northern Italy at the end of the eighteenth century. Geology and Religion: A History of Harmony and Hostility (Geological Society Special Publication). London: The Geological Society, 310, 89-93 DOI: 10.1144/SP310.11 Rudwick, Martin J.S. (2009). Biblical Flood and geological deluge: the amicable dissociation of geology and Genesis. Kölbl-Ebert, M. (ed.). Geology and Religion: A History of Harmony and Hostility (Geological Society Special Publication). London: The Geological Society, 310, 67-76 DOI: 10.1144/SP310.13 Taquet, Philippe (2009). Cuvier's attitude toward creation and the biblical Flood. Kölbl-Ebert, M. (ed.). Geology and Religion: A History of Harmony and Hostility (Geological Society Special Publication). London: The Geological Society, 310, 127-134 DOI: 10.1144/SP310.15 Roberts, Michael B. (2009). Adam Sedgwick (1785–1873): geologist and evangelical. Kölbl-Ebert, M. (ed.). Geology and Religion: A History of Harmony and Hostility (Geological Society Special Publication). London: The Geological Society, 310, 155-170 DOI: 10.1144/SP310.18 Viohl, Günter K. (2009). Franz X. Mayr, the spiritual father of the Jura-Museum. Kölbl-Ebert, M. (ed.). Geology and Religion: A History of Harmony and Hostility (Geological Society Special Publication). London: The Geological Society., 310, 211-215 DOI: 10.1144/SP310.21 Turner, Susan. (2009). Reverent and exemplary: ‘dinosaur man’ Friedrich von Huene (1875–1969). Geology and Religion: A History of Harmony and Hostility (Geological Society Special Publication). London: The Geological Society, 310, 223-243 DOI: 10.1144/SP310.23 Torrens, H.S. (2009). James Buckman (1814–1884): the scientific career of an English Darwinian thwarted by religious prejudice. Kölbl-Ebert, M. (ed.). Geology and Religion: A History of Harmony and Hostility (Geological Society Special Publication). London: The Geological Society. , 310, 245-258 DOI: 10.1144/SP310.24 Peters, Richard A. (2009). Theodicic creationism: its membership and motivations. Kölbl-Ebert, M. (ed.). Geology and Religion: A History of Harmony and Hostility (Geological Society Special Publication). London: The Geological Society, 310, 317-328 DOI: 10.1144/SP310.30

venerdì 6 settembre 2013

Contro la proposta di istituire una (nuova) materia religionistica nelle scuole dell'obbligo

Fotografia di Hidrafil, 2007 (da Wikipedia).
Un anno fa circa è circolato on line un peculiare comunicato stampa, firmato da alcuni nomi importanti dell'insegnamento accademico italiano. In esso veniva avanzata la proposta di un' "attivazione curriculare di un corso di storia delle religioni" a "livello sperimentazione nazionale, che dia il giusto spazio alla storia delle religioni come elemento fondamentale per l’educazione alla cittadinanza responsabile" [1].

Stante la legittima ricerca di un modello di insegnamento che possa rimpiazzare il confessionale e desueto quadro generale offerto dall'IRC nelle scuole medie inf./sup., mi domando se veramente la storia delle religioni rappresenti una risposta efficace. Quale modello sarebbe insegnato e/o privilegiato in un percorso scolastico e in un ipotetico sussidiario/libro di testo? Si percorrerebbero le scuole di pensiero della disciplina, generando così la falsa illusione dello sviluppo di una disciplina "scientifica"? Si passerebbe sotto silenzio che molti "grandi" protagonisti della disciplina nel passato recente sono stati coinvolti politicamente in ambiti antidemocratici (e che i loro sistemi di pensiero storico-religioso hanno inevitabilmente risentito di tali orientamenti)?
Non sono domande peregrine. La disciplina attraversa da decenni una crisi difficilmente reversibile. Prendiamo ad esempio la rinnovata presa di posizione (espressa in part. da Luther H. Martin e Donald Wiebe) contro la storia delle religioni classica come disciplina scientifica. Il suo fallimento consisterebbe nell'esistenza di un «orientamento criptoreligioso» teso «ad inculcare valori negli studenti universitari e a fornire loro strutture di significato» trascendenti e non verificabili. Oltre a ciò, i due autori cit. segnalano la mancata emancipazione dalla/e teologia/e, la mancata ricezione degli strumenti scientifici (evoluzionismo, scienze cognitive, ecc.), la presenza di tendenze criptoreligiose, l'accettazione incondizionata dell'assegnazione di senso e di strutture di significato te(le)ologico. La chiusura incondizionata della disciplina di fronte alla cognitive science of religion, per esempio, starebbe a dimostrare una palese tendenza antiriduzionista e antiscientista [2].

Nel manifesto sopra ricordato non c'è alcun accenno alle scienze cognitive né all'evoluzionismo: come pensare di proporre un insegnamento di storia delle religioni non scientifico ma neutro, eticamente valido per tutti, quando le religioni sono e restano mutualmente esclusive? Si vorrebbe forse evitare tali argomenti per non urtare la sensibilità personale e religiosa dei discenti? Si dovrebbe forse suggerire, sub specie theologiae, che il consensus omnium delle popolazioni in merito all'esistenza di dèi e esseri sovrumani indichi di per sé l'esistenza dell'aldilà e dell'ultramondano? E come verrebbe trattato il "paranormale"? Con l'occhio indulgente di chi sostiene che la "scienza non può spiegare tutto"? E magari, sub specie pshychologiae, che il sacro è una "realtà", che il subconscio dovrebbe essere in collegamento con una funzione verticale e/o trascendente, che rimanda appunto tautologicamente al "sacro" inteso come realtà trascendente (e teologicamente divina), e che perciò tutto il genere umano è "homo religiosus" per sua stessa natura (ignorando atei e agnostici presenti da sempre in tutte le culture umane)? Che la storia è te(le)ologicamente orientata [3]? Oppure ci si limiterebbe alle comparazioni storiche più o meno fondate (o bislacche), magari sorrette dall'incommensurabile discontinuità tra uomo e animali - del tutto arbitraria e antiscientista?
Tutto ciò non ha alcun valore storico né scientifico: al massimo può costituire le basi per una filosofia teologica. Ma, mi chiedo ancora, le linee guida della storia delle religioni non sono già impartite nelle ore di storia? Non si potrebbero potenziare quelle ore? Inoltre, come sarebbe strutturato tale ipotetico insegnamento religionistico? Si passerebbero in rassegna le religioni "primitive" di oggi, come Wunderkammer, come museo a cielo aperto della "nostra" preistoria? Oppure si incoraggerebbe l'apprezzamento implicito di tutto ciò che è "religione" nel mondo di ieri e di oggi, allo scopo di difendere le altrimenti insostenibili ingerenze fideistiche e politiche nell'organizzazione dell'insegnamento nazionale?
Forse si tenterebbe fallacemente di dimostrare, stante il "teorema" dell'homo religiosus, che un ipotetico sciamanesimo preistorico avvalora il fatto che tutta l'umanità è da sempre religiosa. E magari si suggerirebbe anche l'esistenza di una certa scala naturae culminante in una qualche religione dell'attualità (o, verosimilmente, nei monoteismi abramitici). Come verrebbero però trattati in un simile quadro l'ateismo e l'agnosticismo? E quale sarebbe il guadagno scientifico, sociale e civile di un simile anacronistico insegnamento in forma di instrumentum regni? Allora, in definitiva, quale sarebbe il guadagno di tale insegnamento, rispetto all'IRC, nel creare una cittadinanza futura "responsabile" (come scritto nel comunicato stampa), partecipe dei problemi e socialmente attiva?

Lo status quo dell'insegnamento delle materie religionistiche andrebbe certamente cambiato, abbandonando i criptofideismi e l'antiscientismo impliciti. I tempi storici sono cambiati e le conoscenze scientifiche permettono oggi lo studio razionale dei motivi - talvolta non così razionali - per cui la gente crede in ciò in cui crede. Purtroppo la proposta avanzata un anno fa, per quanto meritevole, solleva più questioni di quante non contribuisca a risolvere, perché si pone nella medesima prospettiva della materia che vorrebbe affiancare o sostituire. Non credo che un massimo comun denominatore te(le)ologico, valido per essere accettato da famiglie appartenenti a qualunque credo oggi diffuso, possa rappresentare una risposta adeguata poiché, al di là dei sincretismi esoteristi, le religioni organizzate sono e rimangono mutualmente esclusive ed escludenti. Per tale motivo ci si può ragionevolmente aspettare il fallimento dell'iniziativa: molte famiglie più o meno interessate, prima o poi, potrebbero rifiutare un'eventuale obbligatorietà dell'insegnamento, e non vedo motivi validi perché queste famiglie debbano accettare un insegnamento facoltativo impostato su tali linee.

Io resto dell'avviso che un'ora di Paleontologia e Biologia evoluzionistica in tutto il cursus studiorum delle scuole medie (inf./sup.), senza alcuna infiltrazione di Intelligent Design o di creazionismi vari, magari al posto dell'IRC e dell'ipotetica SdR (e con le ore già destinate all'insegnamento storico debitamente potenziate), rappresenti una proposta molto più efficace per creare quella conoscenza condivisa di cui le generazioni future hanno bisogno [4]. Cittadini maggiormente preparati su questioni scientifiche potrebbero prendere parte attiva nei dibattiti culturali ed esprimere un voto informato in occasione di grandi impegni democratici, come può esserlo ad esempio un referendum su una qualsiasi pressante questione ambientale o di ricerca legata alla medicina. Potrebbero anche comprendere maggiormente le radici biologiche e cognitive (non teologicamente orientate e religiosamente neutre) delle mitologie, delle religioni e - soprattutto - della moralità.
In caso contrario, mi sembra che i rischi di infiltrazioni di temi ideologici, extra-epistemici e non scientifici nella storia delle religioni come materia scolastica superino di gran lunga i possibili benefici provenienti da una conoscenza condivisa dei contenuti delle religiosità del mondo, passate o presenti.

[NOTA: post originariamente scritto il 1° ottobre 2012]

[1http://benvenutiinitalia.it/storia-delle-religioni-una-proposta-per-il-ministro-profumo/ [30 settembre 2012; URL desueto: http://benvenutiinitalia.it/2012/09/30/storia-delle-religioni-una-proposta-per-il-ministro-profumo/]

[2Religious Studies as a Scientific Discipline: The Persistence of a Delusion, di Luther H. Martin and Donald Wiebe, in J Am Acad Relig (2012) 80 (3): 587-597. doi: 10.1093/jaarel/lfs030. First published online: July 18, 2012.

[3] Si ricordi lo sconcerto causato nel 2011 dalle farneticazioni fideistiche, escatologiche e te(le)ologiche, deliranti e offensive, di R. De Mattei, il vicepresidente del CNR allora in carica, incompatibili con la carica che egli ricopriva all'epoca. De Mattei è noto inoltre per aver finanziato con denaro pubblico il convegno di stampo antidarwiniano Evoluzionismo: il tramonto di un'ipotesi - con conseguente pubblicazione. Per il primo caso cfr. Massimo Gramellini su «La Stampa», Il buon tsunami, 26 marzo 2011, ripreso nella puntata della trasmissione televisiva Che tempo che fa, 26 marzo 2011; altre esternazioni reperibili presso la pagina dedicata all'affaire De Mattei presso Pikaia. Il portale dell'evoluzione. Pochi anni prima, ma sempre nel medesimo contesto socio-politico, si è assistito al tentativo di eliminare l’insegnamento dell’evoluzione dai banchi di scuola per imposizione ministeriale; per tali motivi non bisogna mai dare per scontate le proprie conquiste culturali. Su quest'ultimo argomento cfr. T. Pievani, Creazione senza Dio, Einaudi, Torino 2006, passim; id. In difesa di In difesa di Darwin. Piccolo bestiario dell’antievoluzionismo all’italiana, Bompiani, Milano 2007, in part. pp. 5-45; C.A. Redi, Il biologo furioso. Provocazioni d’autore tra scienza e politica, Sironi editore, Milano 2011, in part. il cap. Nell’anno 152 a.D., pp. 162-175. Per un inquadramento di tale questione italiana all’interno del panorama internazionale, cfr. la sezione inclusa in R.L. Numbers, The Creationists: From Scientific Creationism to Intelligent Design. Expanded Edition, Harvard University Press, Cambridge, MA - London 20062 (19921), par. intitolato Creationism Goes Global, in part. pp. 411-412.

[4] Proposta avanzata nell'art. dell'autore intitolato Tempi profondi. Geomitologia, storia della natura e studio della religione, in SMSR 79 (1/2013) 152-214.

domenica 1 settembre 2013

Di balene, elefanti e cespugli: Written in Stones: Evolution, the Fossil Record, and Our Place In Nature [repost 2010]

Due edizioni del testo di Brian Switek Written in Stones: da sinistra, Bellevue Literary Press (2010) e Icon Books Ltd (2011).
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In questo post riprendiamo e aggiorniamo una sintesi dei temi presentati da Brian Switek nel suo primo libro, intitolato Written in Stones: Evolution, the Fossil Record, and Our Place In Nature e pubblicato per i tipi di Farrar, Straus & Giroux nel 2010. Il post originale è stato precedentemente pubblicato on line il 23 ottobre 2010. Presso questo link si può invece leggere l'intervista rilasciata all'autore da Switek in quello stesso anno.

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ResearchBlogging.orgL'introduzione è interamente dedicata al fossile battezzato come Darwinius masillae nel 2009, e noto ai media con il nomignolo di Ida. Prendendo spunto dalla scoperta di Ida, Switek propone una riflessione in merito al recente amalgama di media, pubblicità e paleontologia che ha preso piede nel contesto statunitense – peraltro da sempre attento alla spettacolarizzazione delle scoperte paleontologiche allo scopo di ottenere i finanziamenti privati o giustificare un tornaconto dell'investimento effettuato. L'importante reperto, un primate risalente a circa 47 milioni di anni fa, era stato propagandato come il primate antropoideo più antico (e perciò il taxon cronologicamente più distante ma filogeneticamente più vicino a Homo sapiens), ossia una vera e propria pietra miliare della paleontologia dei primati. Il motivo di tale pubblicità è reperibile nei motivi meramente economici che stanno a monte della storia del reperto: il fossile era stato acquistato a carissimo prezzo da un rivenditore intermediario, e come controparte per la spesa erano stati pianificati documentari e un battage pubblicitario degno di Hollywood. Purtroppo la fretta alimentata dalle scadenze e dalle pressioni finanziarie non ha giovato alla descrizione del fossile e la vicinanza filogenetica di Darwinius agli antropoidi (ipotesi già piuttosto debole in partenza) è stata in seguito contestata; attualmente il taxon è riposizionato con Afradapis sul "ramo" che porta ai lemuri attuali. Parenti sì, ma più lontani di quanto ipotizzato. Il contributo di Switek ha il merito di considerare l'importante e decisivo contributo dei blog scientifici nella diatriba seguita alla presentazione pubblica del fossile, e perora la causa di una più equilibrata ed informata valutazione delle notizie, spesso scorrette, diffuse dai media giornalistici [1].

I due capitoli che seguono affrontano invece la storiografia della biologia evoluzionistica e della paleontologia, ripartendo dalla scarsa rilevanza riservata al tema evoluzionistico e selezionista verso la metà dell'Ottocento nel contesto inglese. L'esempio di Patrick Matthew è esemplare: per quanto in modo incompleto, Matthew aveva grosso modo preceduto editorialmente sia Darwin che Wallace nella sua succinta trattazione del tema evoluzionistico in chiave proto-selezionista, ma questa era stata relegata in un'appendice del testo On Naval Timber and Arboricolture (1831; p. 63. Darwin incluse poi una trattazione delle idee di Matthew nella terza edizione dell'Origin of Species, 1861). La stessa fredda accoglienza delle idee di Darwin e di Wallace da parte della Linnean Society nel 1858 aveva dimostrato la silenziosa inerzia che regnava in quel clima culturale, diviso tra un vitalismo evolutivo e teleologico e l'accettazione del creazionismo teologico (con svariate sfumature tra le due posizioni). Dopo la pubblicazione dell'Origin of Species (24 novembre 1859), però, questo tiepido benvenuto lasciò spazio ad una veemente reazione: gli studiosi, perlopiù attaccati ai due modelli testé ricordati, non tardarono a far sentire la propria voce. A libro ancora caldo di stampa, il biologo e paleontologo Sir Richard Owen dalle colonne dell'Edinbugh Review, protetto da un malcelato quanto riconoscibile anonimato, fu il primo a lamentarsi dell'impostazione gradualistica delle idee darwiniane. Persino i più fervidi sostenitori di Darwin, come il fedele Thomas Henry Huxley e il geologo Charles Lyell, rimasero insoddisfatti della trattazione darwiniana della documentazione fossile, il primo preferendo mutazioni su larga scala per mezzo di salti evolutivi, il secondo essendo rimasto turbato dalla prospettiva sull'evoluzione umana (p. 68). La frustrazione di Darwin è sottolineata da queste parole contenute in una lettera indirizzata al paleontologo statunitense Joseph Leidy:
«Molti paleontologi (con davvero poche buone eccezioni) disprezzano interamente il mio lavoro; di conseguenza la sua approvazione mi ha molto gratificato. Tutti i geologi più anziani (con l'eccezione del solo Lyell, che considero però come un  intero esercito) sono persino più veementi contro le modifiche delle specie di quanto non lo siano i paleontologi» (1861; p. 68). 
Paradossalmente, la critica paleontologica e demolitrice mossa da Owen all'opera di Darwin gettò alcune delle basi teoriche per quanto riguardava il sostegno documentario fossile del paradigma evolutivo darwiniano.

I capitoli che seguono, e che elenchiamo per punti, trattano delle transizioni evolutive che permisero il "passaggio" contingente tra quelli che un tempo erano riconosciuti come i linneani compartimenti stagni della vita sulla terra. Non si devono però confondere questi "passaggi" con il desueto concetto degli "anelli mancanti". Essendo la variabilità individuale la base sulla quale si innesta il motore dell’evoluzione, qualunque organismo potrebbe benissimo essere un "anello di congiunzione" tra qualcosa di precedente e qualcosa di successivo: la concezione dell'"anello mancante", frutto di un vetusto costrutto intellettuale, ha oggi esaurito la sua funzione euristica ed è stata sostituita (per così dire) dalla ricerca paleontologica e genetica dell’ultimo antenato comune, un territorio esplorato dalla sistematica filogenetica. Inoltre i processi di speciazione non cancellano l'esistenza degli antenati di un nuovo clade, i quali continuano ad evolversi, magari conservando grosso modo il bauplan di partenza (ossia la morfologia anatomica di base).
  • pesci-tetrapodi (From Fins to Finger)
In questo capitolo vengono passate in rassegna le implicazioni del rifiuto di una singola uscita dall'acqua come modello univoco per spiegare la colonizzazione delle terre emerse da parte dei tetrapodi acquatici. In breve, la cooptazione di elementi del bauplan dei tetrapodi per la vita sulla terraferma non corrisponde ad una progressione lineare di forme teleologicamente indirizzate alla "conquista della terra", poiché la radiazione evolutiva dei primi tetrapodi acquatici testimonia un pattern ramificato, fatto di molteplici "entrate" e "uscite" dall'acqua. L'aspetto storiografico resta prominente: le discussioni ottocentesche su Archegosaurus, un temnospondile ritenuto da Owen vicino ai tetrapodi che effettuarono il passaggio definitivo dall'acqua alla terra, conducono fino al recente Tiktaalik (descritto da Daeschler, Shubin e Jenkins nel 2006), un fossile particolarmente importante per comprendere la cooptazione evolutiva di elementi scheletrici ancora utili in un ambiente acquatico (ad esempio, la struttura del cinto scapolare, un tempo legata esclusivamente alla progressione evolutiva verso gli anfibi).
  • dinosauri-uccelli (Footprints and Feathers on the Sands of Time)
Si prosegue con le impronte tridattile di Edward Hitchcock nel Massachusetts ottocentesco, impresse da dinosauri teropodi (ma interpretate come aviane da Hitchcock), per giungere agli stupefacenti fossili di dinosauri piumati cinesi scoperti a partire dalla metà del Novecento e alle più recenti ricerche sui sacchi aerei nei dinosauri saurischi (ossia il complesso sistema di ventilazione collegato ai polmoni presente oggi negli uccelli). Il legame tra dinosauri e uccelli attuali è sottolineato incontrovertibilmente dalle più recenti ricerche paleontologiche: Switek, come esempio tra i molti possibili, cita il curioso caso degli agenti patogeni aviari che affliggevano i teropodi, ereditati dai loro discendenti, gli uccelli (come dimostra il caso dell'analogia tra segni di infezioni nei fossili di teropodi e i segni lasciati sugli individui infettati dall'attuale Trichomonas gallinae).
  • rettili-mammiferi (The Meek Inherit the Earth)
Si giunge poi alla storia evolutiva dei mammiferi, forse quella più bistrattata dal grande pubblico e la meno nota in assoluto. Basti pensare al vituperato Dimetrodon, l'iconico "dinosauro-intruso" presente in qualunque pubblicazione divulgativa di basso livello e nei bustoni estivi colmi di pupazzetti di plastica destinati ad allietare i pomeriggi in spiaggia del pubblico infantile. Dimetrodon non è un dinosauro, bensì un sinapside più antico dei dinosauri, ovvero un taxon più vicino ai mammiferi (e a noi) che ai rettili [2]. Uno dei modi per illustrare le differenze filogenetiche che si sono accumulate nelle generazioni che separano i rettili dai mammiferi è quello di ripercorrere la differente organizzazione dell'orecchio interno nei mammiferi rispetto ai rettili, con la graduale cooptazione nel sistema uditivo di strutture ossee in precedenza coinvolte nei processi di masticazione. Switek utilizza dunque questo schema divulgativo, usando come case-study la discussione dell'orecchio interno di Yanocodon allini (taxon istituito nel 2007).
Nonostante l'impegno dei divulgatori, il Dimetrodon continua purtroppo a troneggiare tra i rappresentanti dei dinosauri. Alcuni luoghi comuni sulla scienza sono molto difficili da contestare. Se in una prospettiva filogenetica e paleontologica è chiaro che le suddivisioni tra le categorie platonico-linneane, relative a una biologia intuitiva e statica (e pertanto fallace), non esistono e perdono di significato nel tempo profondo, anche le convenzioni iconografiche tradiscono prospettive diffuse ma scientificamente del tutto fuorvianti. L'esempio iconoclasta forse più rilevante in tal senso, e trattato in questo capitolo, è costituito da Repenomamus robustus (descritto nel 2000), un mammifero di grande taglia (relativamente all'epoca e alla zona) proveniente dall'attuale territorio cinese. Repenomanus ha rovesciato i cliché iconografici sui voraci dinosauri carnivori sempre illustrati alle prese con la caccia di piccoli e modesti mammiferi – il reperto si contraddistingue infatti per la presenza dei resti di un piccolo dinosauro nello stomaco.
  • mammiferi terrestri-cetacei (As Monstrous as a Whale)
Si arriva così al capitolo dedicato alla storia evolutiva dei cetacei, che contiene alcune delle pagine più vivaci dell'intero volume, dedicate alla descrizione delle peripezie di Albert Koch e del suo baraccone fossile ambulante, una sorta di Circo Barnum itinerante dell'intrattenimento fossile. I suoi scheletri fossili chimerici (Missourium theristrocaulodon e Hydrarcos sillimani) fecero notizia all'epoca per la loro fantasiosa spettacolarità. Se il primo non era altro che un mastodonte ingigantito grazie all'aggiunta di ulteriori vertebre, il rettile marino Hydrarcos avrebbe riservato invece un'interessante sorpresa. Comprato da Guglielmo IV di Prussia per il museo reale di Berlino, il cranio di Hydrarcos si sarebbe rivelato essere quello di una balena. L'identità dei resti fossili del cranio della chimera di Koch si sarebbe palesata anche grazie ad altre scoperte. Nel 1832 e negli stessi sedimenti fossiliferi dai quali venne estratto ciò che sarebbe confluito nella ricostruzione posticcia di Hydrarcos, erano stati recuperati i resti di un curioso nuovo taxon battezzato Basilosaurus: i denti, in particolare, presentavano somiglianze peculiari con quelli dei rettili marini mesozoici. Interpellato in merito, Owen, all'epoca astro nascente dell'anatomia comparata, ristudiò i resti di Basilosaurus, riconobbe lo statuto mammaliano del taxon (la somiglianza dei denti con i rettili marini era il semplice frutto di convergenza evolutiva) e lo ribattezzò Zeuglodon - oggi però, per motivi di priorità di nomenclatura, il primo nome "rettiliano" è quello ufficiale.
Ad ogni modo, la storia evolutiva dei cetacei restava perlopiù ignota: Basilosaurus e le forme affini scoperte più tardi erano già pienamente acquatiche. In assenza di prove paleontologiche rilevanti, in una lettera inviata a Lyell nel 1859 l'antenato comune dei cetacei era stato immaginato da Darwin come un orso (p. 156). Nel 1883, invece, William Henry Flower aveva posto in evidenza le somiglianze osteologiche di Basilosaurus con gli ungulati. Benché già a partire dagli anni Settanta del Novecento nuovi fossili hanno cominciato a chiarire il quadro della storia risalente dei cetacei, solamente le nuove scoperte paleontologiche dei primissimi anni 2000 e i nuovi studi genetico-molecolari hanno potuto confermare l'ipotesi di Flower: dal punto di vista filogenetico, i cetacei sono attualmente collocati vicini agli ippopotami, con i quali, assieme ad una pletora di forme estinte, formano il clade Cetancodontamorpha all'interno degli artiodattili.
  • elefanti (Behemoth)
Il capitolo che segue è dedicato alla storia evolutiva degli elefanti e offre il pretesto per una curiosa incursione storiografica nella vita di Thomas Jefferson (1743-1826), terzo presidente degli Stati Uniti d'America. I resti fossili dei proboscidati americani erano da tempo inseriti nella geomitologia dei Nativi della Virginia e Jefferson, come altri, ritenne che le leggende su animali di enorme taglia testimoniate dai resti fossili potessero trovare il loro fondo di verità in animali ancora vivi, ma ignoti alla scienza, nello sterminato e ancora misterioso Ovest del continente nordamericano.
Dal punto di vista biologico-evoluzionistico, invece, il capitolo comprende una trattazione della teoria degli equilibri punteggiati esposta da Stephen J. Gould e Niles Eldredge a partire dal 1972: un ritmo accelerato della speciazione in determinati casi, che prevede periodi di stasi più o meno lunghi alternati a rapidi processi di speciazione. L'espansione dei proboscidati nel Pleistocene su tutto il globo (ad eccezione dell'Australia e dell'Antartide), viene inquadrata in un contesto puntuazionista, mentre la loro (relativamente) improvvisa scomparsa conduce Switek al tema dell'overkill hypothesis. Questa tesi, sostenuta in particolare da Paul S. Martin, sostiene l'esistenza di una correlazione tra espansione geografica di Homo sapiens e l'estinzione delle megafaune (ossia, le associazione di animali dal peso superiore ai quarantacinque chilogrammi circa): in effetti, le date della colonizzazione delle terre emerse da parte di H. sapiens coincidono grosso modo con la drastica riduzione delle faune locali di mammiferi e di animali di grossa taglia.
Il capitolo si conclude con una riflessione critica sul tema del Pleistocene Rewilding, sostenuta sempre da Martin nel suo recente Twilight of the Mammoth: Ice Age Extinctions and the Rewilding of America (2010). Secondo tale posizione lo squilibrio degli ecosistemi nordamericani, dovuto alla scomparsa della megafauna pleistocenica, potrebbe essere minimizzato con l'importazione nei biomi locali di animali strettamente imparentati con le forme estinte (ad esempio, elefanti, cammelli, grandi felini, ecc.). Ad ogni modo, l'assenza incolmabile di animali estinti senza parenti filogenetici in vita occupanti nicchie equivalenti oggi (come i bradipi terricoli giganti) costituisce il difetto principale della tesi ecologista. Trova spazio inoltre la discussione sulle possibilità di ottenere esemplari di mammut non tanto tramite clonazione quanto per selezione artificiale di esemplari di Elephas maximus (elefante indiano), filogeneticamente vicino al mammut.
  • cavalli (On a Last Leg)
Un grosso tronco principale di successo che arriva fino ad oggi, con alcuni rami secchi collaterali da tempo estinti, surclassati nella competizione ecologica: questa l'idea ortogenetica di un'evoluzione rettilinea e orientata che regnava nel primo Novecento. L'esempio cardine di tale impostazione metodologica era rappresentato dalla storia evolutiva del cavallo, e i suoi ideatori principali furono Othniel Charles Marsh, il grande padre-padrone della nascente paleontologia statunitense, e Thomas Henry Huxley. Tra i sostenitori dell'idea si distinsero, tra gli altri, W.D. Matthew (in un suo studio del 1924) e soprattutto George Gaylord Simpson (negli anni Cinquanta del secolo scorso). Ogni genere fossile di equide scoperto  all'epoca veniva collocato in una elegante successione di forme poste in diretta continuità l'uno con l'altra e guidate verso la produzione, per così dire, delle caratteristiche oggi presenti nel cavallo. Oggi però possiamo affermare con sicurezza che la serie di caratteristiche associate allo sviluppo del cavallo (per es., la riduzione delle dita, il progressivo aumento di stazza dei taxa, l'evoluzione di denti dalla corona alta, l'allungamento del muso, ecc.) non fu armonicamente coordinata per un fine che coincide con il nostro punto di vista contemporaneo, e che i vari generi prima pensati come gradini ordinati di una successione ascendente erano invece sconnessi e sovrapposti: il cavallo attuale non è il punto di arrivo presente di una storia teleologica, poiché non esiste alcun tronco la cui direzione verso l'alto è predeterminata all'origine. Esiste piuttosto un cespuglio o, meglio, un corallo di varianti delle quali il cavallo attuale rappresenta solamente l'ultimo rappresentante in vita.
  • ominidi (Through the Looking Glass)
L'ultimo capitolo è destinato a ribadire quest'ultimo concetto: non esiste una monolitica e prestabilita direzione escatologica dell'evoluzione quanto piuttosto un variegato cespuglio evolutivo. L'esempio di H. sapiens rappresenta in questo senso un caso ancora più emblematico di EquusH. sapiens è solo l'ultimo rappresentante di una folta schiera di generi e specie assai diverse che hanno convissuto per milioni di anni fianco a fianco, nessuno dei quali è considerabile superiore al precedente in senso assoluto, né maggiormente perfetto (l'evoluzione non produce mai "perfezione", qualunque cosa significhi all'interno di un contesto ideologico). La presa di coscienza della nostra storia evolutiva conduce inevitabilmente ad un ripensamento del nostro ruolo nel mondo:
«Non c'è mai stata un' "ascesa dell'uomo", per quanto possiamo disperatamente desiderarla, così come non c'è mai stata una "discesa degenerativa dell'uomo" a partire da un nobile antenato. Non siamo che un tremolante ramoscello, ultimo vestigio di un più ricco albero genealogico. Stupidamente abbiamo interpretato questo nostro isolamento come se fossimo i veri trionfatori nell'implacabile battaglia della vita [...]. La storia ci racconta che non  siamo i discendenti né di un'antropomorfa che si è intenzionalmente impegnata per raggiungere i rami più elevati dello sviluppo cerebrale, né di una coppia divina creata per volere divino. Siamo piuttosto gli eredi di una rara intelligenza capace di sondare i delicati meccanismi della natura ma che teme ciò che vi può trovare. Non c'è alcuna ragione per avere timore. La vita è ancora più preziosa quando la sua unità e rarità sono riconosciute, e noi siamo tra le cose più preziose » (p. 264).
Conclude il volume un epilogo finale dall'atmosfera gouldiana, intitolato Time and Chance, incentrato sulla contingenza e sui vincoli la cui interazione ha modellato la storia della vita sulla Terra, irriducibile ad un modello te(le)ologico o ortogenetico.

Written in Stones costituisce una lettura affascinante e solidamente costruita, corredata da illustrazioni spesso inedite su carta stampata (oltre alle illustrazioni scientifiche tratte da riviste accademiche, tra gli autori presenti annoveriamo Mark Witton, Matt Celeskey dell'Hairy Museum of Natural History e Brett Booth). Nella recente bibliografia storiografica dedicata alla storia della paleontologia e della biologia evoluzionistica – esplosa con il bicentenario darwiniano del 2009 – Switek ha saputo ritagliarsi uno spazio proprio e affrontare un tema, per quanto già noto e trattato, con un piglio nuovo e con uno stile fresco.

[1]
Switek, Brian. (2010). Ancestor or Adapiform? Darwinius and the Search for Our Early Primate Ancestors. Evolution: Education and Outreach, 3 (3), 468-476 DOI: 10.1007/s12052-010-0261-x

[2]
Angielczyk, Kenneth D. (2009). Dimetrodon Is Not a Dinosaur: Using Tree Thinking to Understand the Ancient Relatives of Mammals and their Evolution. Evolution: Education and Outreach, 2 (2), 257-271 DOI: 10.1007/s12052-009-0117-4

mercoledì 28 agosto 2013

Myth and Geology: estratto da una recensione geomitologica


(c) 2007, The Geological Society, London 

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Risale al 2007 la pubblicazione del primo volume collettivo peer-reviewed dedicato alla geomitologia (per ulteriori informazioni sull'argomento cfr. il link qui indicato), Myth and Geology, curato da Luigi Piccardi, ricercatore presso l’Istituto di Geoscienze e Georisorse (CNR) di Firenze, e W. Bruce Masse del Los Alamos National Laboratory (New Mexico, USA), per conto della Geological Society di Londra. Si tratta di un volume molto ricco, che si compone di un testo introduttivo curato da Dorothy Vitaliano, da una precisa introduzione al tema e da altri ventitré contributi, i cui temi trattati coprono grosso modo tutti i continenti. Si spazia dai fenomeni geologici mediterranei, ai terremoti lungo le faglie tettoniche attive nell’area pacifica tra Giappone e America del Nord, all’attività vulcanica nel continente sudamericano, agli tsunami nell’area oceanica, ai massi erratici piemontesi, ai fossili di proboscidati siciliani e alla litologia dell’isola d’Elba. L’abbondanza del materiale presentato ci vieta di prendere in considerazione tutti gli aspetti meritevoli di approfondimento. Ci concentreremo pertanto su alcuni punti di  interesse generale proponendo alcune considerazioni generali tratte dal corposo secondo capitolo.

Il primo capitolo in esame porta la firma dei due curatori e di E. Wayland Barber e P.T. Barber, autori di un ambizioso testo pubblicato nel 2004 nel quale venivano elencati i principi cognitivi fondamentali grazie ai quali i miti si svilupperebbero e si conserverebbero [1]. Il capitolo propone una storia introduttiva essenziale dello studio accademico della religione, della mitologia e della nascita dei concetti geologici nell’ambito scientifico-occidentale. Viene innanzitutto proposta una griglia dei vari termini inerenti al tema trattato: le folk-tales, ossia storie fittizie non religiose e non storiche, la leggenda, cioè un racconto semi-storico preso per vero, dove vengono miscelati realismo e sovrannaturale (come nell’epica) e infine il mito, che contiene relazioni o resoconti culturali degli eventi più importanti che hanno avuto luogo nel passato remoto di una data cultura.
Nel corso del tempo i contenuti mitici vengono però sottoposti ad una distorsione sistematica, a causa della medesima struttura cognitiva che soggiace all’espressione del mito. In casi specifici questa struttura può essere risolta e ricostruita per giungere al substrato originario [2]. Una definizione preliminare di mito che viene avanzata nel capitolo è la seguente:
«il mito è un racconto articolato, derivato in generale dalla trasmissione orale, e tipicamente creato, o assemblato, e perpetuato da specialisti della conoscenza. Questi ultimi fanno uso di elementi e immagini sovrannaturali allo scopo di classificare e spiegare l’osservazione di fenomeni ed eventi naturali percepiti di vitale importanza, o di speciale rilevanza, per l’ordine sociale e il benessere di una data cultura» [3].
Per comprendere la mitologia nelle sue varie sfaccettature, che è una «funzione della trasmissione orale di dati cifrati linguisticamente» [4], è necessario fare riferimento ad una serie di discipline, ossia le scienze cognitive, l’antropologia, la psicologia evoluzionistica e la neuropsicologia. Ad ogni modo, il mito racchiude anche e soprattutto precetti fondamentali per l’esistenza, quando non addirittura cruciali per la sopravvivenza stessa del gruppo.
L’esempio proposto dagli autori è in tal senso illuminante: quando il devastante tsunami del 26 dicembre 2004 si abbatté nell’Oceano Indiano, alcuni organi di stampa riportarono che certe piccole popolazioni nelle isole Andamane erano sopravvissute grazie ad un mito tramandato di generazione in generazione. Questo mito riguardava “un’onda che mangia la gente” (in realtà, sette onde nel mito) causata dalla rabbia degli spiriti degli antenati e che poteva essere evitata raggiungendo immediatamente un’altura non appena si fosse osservato l’oceano ritirarsi velocemente dalla battigia [5]. Il mito locale può quindi preservare notizie utili in determinate occasioni osservate su una scala temporale molto lunga e codificate secondo stilemi accessibili solo attraverso la struttura integrale della cultura originaria [6]. Non sempre però è possibile risalire all’informazione originaria in forma integrale che ha animato all’origine un mito, a causa di una serie di princìpi che costituisce il nucleo del contributo e che ci limitiamo ad elencare con brevi descrizioni, omettendo le discussioni e gli esempi forniti nel testo:
  1. principio del silenzio: ciò che si ritiene che tutti conoscano viene dato per scontato e perciò o non viene spiegato nei dettagli o viene omesso [7];
  2. invenzione cinematografica: si possiedono solo alcuni fotogrammi e da questi si (ri)costruisce un’intera pellicola. Ci si concentra cioè sulla spiegazione del fenomeno osservato solo a “spezzoni” piuttosto che sul suo sviluppo integrale [8];
  3. principio di analogia: «se due entità o fenomeni recano alcune somiglianze in un qualche aspetto allora queste devono essere collegate tra loro» [9];
  4. fallacia argomentativa dell’affermazione del conseguente: dall’asserzione di un effetto si evince l’esistenza di una causa (ma non è detto che l’implicazione sia sempre vera se inversa: “se piove il prato è bagnato” è senz’altro vero, ma lo potrebbe essere anche con la rugiada dell’alba, se nella notte un vicino affluente ha esondato, o se qualcuno ha innaffiato il prato, ecc.) [10];
  5. principio dell’intenzionalità: si tratta di un punto fondamentale stabilito dalla ricerca delle scienze cognitive, che assume l’esistenza di una volontà, più o meno latente, dietro un avvenimento indipendente ed esterno all’attività umana. In sostanza, poiché gli uomini agiscono volontariamente sulle cose, se qualcosa succede in natura deve essere stata voluta [11];
  6. principio di affinità o di parentela: «poiché i familiari si somigliano l’un l’altro, i fenomeni che si somigliano devono essere imparentati» [12];
  7. principio degli aspetti multipli: «un fenomeno può essere spiegato miticamente tante volte quanti sono gli aspetti differenti e significativi che lo compongono» [13];
  8. principio dell’angolo di ripresa: diretta conseguenza del precedente, in quanto per comprendere di che cosa tratta una storia bisogna osservare la situazione da uno o più punti di vista particolari [14];
  9. principio dell’attrazione: una volta che le storie riguardanti qualcosa o qualcuno raggiungono una massa critica sufficiente, quella particolare cosa o persona attrarrà altre storie, tramite qualsiasi punto di somiglianza significativa, per quanto vago possa essere (i punti di attrazione includono il medesimo tipo di evento, di luogo, di nome, di carica ricoperta [come i faraoni nella Bibbia, che tendono tutti ad essere riassunti in un’unica figura], ecc.) [15];
  10. principio della prospettiva: man mano che ci si allontana da un evento, la nostra prospettiva si schiaccia e non è più possibile distinguere cronologicamente in modo agevole gli eventi che hanno avuto luogo prima da quelli che sono successi più tardi (ad un certo punto tutto tende ad essere sussunto sotto l’etichetta “a quei tempi…”) [16];
  11. principio della foto istantanea: «talvolta la narrazione del mito viene creata durante o immediatamente dopo l’osservazione di un importante evento naturale» [17];
  12. principio della competenza: i miti sono stati probabilmente creati (e allo stesso tempo perpetuati) da esperti qualifi cati, professionali e capaci [18];
  13. principio della rappresentazione: la trasmissione del mito non si limita ad una comunicazione orale, ma viene condotta e guidata all’interno di una performance; la trama del mito viene sistematicamente recitata durante determinati rituali facendo appello ad una vasta gamma di mezzi espressivi, volti a rafforzare il messaggio negli spettatori per mezzo di accorgimenti mnemonici [19];
  14. principio di ridondanza: «aspetti chiave delle trame mitiche sono spesso ripetuti più volte per rafforzare l’importanza di una data parte della storia e la capacità degli spettatori di ricordarli» [20].
Come aveva già segnalato lo storico Jan Vansina, uno dei metodi per uscire dall’impasse cognitivo sarebbe quello di ancorare i dati mitici, nei casi ove ciò fosse possibile, alle conoscenze astronomiche e geologiche delle zone in questione [21]. Ad ogni modo, questi princìpi sono applicabili ovunque e in ogni caso? Come ammettono gli autori, la risposta non è così facile come potrebbe sembrare a prima vista. Essa può essere affermativa, perché questi criteri sono riferibili a numerose zone del globo le cui culture sono molto differenti tra loro, e possono aiutare a comprendere alcuni dei principali meccanismi che hanno agito nel passato. Eppure si potrebbe anche rispondere negativamente, perché esistono differenti modalità di trasmissione che agiscono contemporaneamente nel corso delle generazioni. Un conto è la trasmissione culturale verticale, a base familiare, di determinate popolazioni la cui religione è etichettabile come sciamanica (ammesso che lo siano sempre state in un determinato luogo), un altro sono le elaborazioni sociali orizzontali che si intrecciano e si rifrangono in una focalizzazione esterna multipla nella quale coesistono molti punti di vista. Come riconoscono gli autori, esistono oggettive difficoltà in determinati contesti, responsabili «almeno parzialmente della
mancata comprensione da parte della scienza occidentale dei fondamenti storici delle osservazioni raccolte e raccontate nel mito» [22]. Ad ogni modo gli autori ritengono anche che «gli antropologi, i folkloristi e altri studiosi del mito non abbiano esaminato con attenzione questo problema e che possono aver fatto confusione tra queste distinte tipologie di trasmissione mitica» [23] .
Un passaggio tratto da un articolo di Robert Segal, che riportiamo in parte di seguito, introduce la sezione conclusiva del testo:
«[…] la principale sfida moderna al mito, comunque, è giunta dalle scienze naturali, le quali fanno benissimo ciò che il mito si riteneva facesse: spiegare le origini e il funzionamento del mondo fisico […]. Accettare la spiegazione scientifica del mondo equivale a rendere quella mitica sia superflua che apertamente falsa – superflua perché resa antiquata dalla spiegazione scientifica, falsa perché incompatibile con quella scientifica» [24].
La risposta articolata dagli autori elude in parte la dicotomia delineata da Segal, poiché il mito rappresenterebbe in primo luogo «la sorprendente opportunità di ricavare dalla documentazione storica e culturale di molte regioni un punto di vista straordinario sull’impatto di eventi e processi geologici e astronomici nel corso dei millenni passati» [25]. In conclusione, sono due i fattori positivi fondamentali che si impongono a seguito dello studio della geomitologia. Innanzitutto, i miti gettano luce su aspetti cognitivi, storici, sociali e letterari del pensiero umano, sui quali è necessario insistere maggiormente: ammesso e non concesso che il mito abbia rappresentato un vantaggio competitivo per certi gruppi culturali, per organizzare la propria esistenza rispetto ad altri gruppi, è compito delle scienze cognitive e di altre discipline scientifiche indagare il guadagno sociale, ossia i vantaggi psicologici, la riduzione della tensione emotiva o mentale, la migliore organizzazione riguardo una più complessa articolazione sociale, ecc. [26]. In secondo luogo, l’analisi dei fenomeni geologici codificati nel mito in zone scarsamente studiate dal punto di vista geologico, o nelle altre zone dove la documentazione scientifica in merito non può risalire oltre un certo limite cronologico, può aiutare a comprendere meglio e a prevenire i rischi geofisici di specifiche regioni.

[Estratto e modificato dall'art. dell'autore intitolato Tempi profondi. Geomitologia, storia della natura e studio della religione, in SMSR 79 (1/2013) 152-214]

[1]  Wayland Barber, E. & P.T. Barber, When They Severed Earth From Sky: How the Human Mind Shapes Myth, Princeton University Press, Princeton - Oxford 20062 (20041).
[2] Masse, Wayland Barber, Piccardi & Barber, Exploring the Nature of Myth and Its Role in Science, in Piccardi -
Masse (eds.), Myth and Geology, cit., pp. 9-28: 10.
[3] Ibi, p. 17
[4] Ibi, p. 18.
[5] Ibidem.
[6] Ibi, p. 19.
[7] Ibi, p. 18.
[8] Ibi, p. 19.
[9] Ibidem.
[10] Ibi, p. 20.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] Ibidem.
[14] Ibidem.
[15] Ibi, p. 21.
[16] Ibi, p. 22.
[17] Ibi, p. 23.
[18] Ibi, p. 24.
[19] Ibidem.
[20] Ibi, p. 25.
[21] Cfr. J. Vansina, Oral Tradition: A Study in Historical Methodology, Aldine Transaction. A Division of Transaction Publishers, Rutgers - The State University, New York 2006 (19611); Id., Oral Tradition As History, University of Wisconsin Press, Madison 1985.
[22] Masse et al., Exploring the Nature of Myth and Its Role in Science, cit., p. 25.
[23] Ibidem.
[24] Ibidem. Cit. tratta da R.A. Segal, Does Myth Have a Future?, in Patton L.L. & W. Doniger (eds.), Myth and Method, The University Press of Virginia, Charlottesville 1996, pp. 82-106: 82.
[25] Masse et al., Exploring the Nature of Myth and Its Role in Science, cit., p. 25.
[26] Ibi, p. 26.

Art. indicizzato in Research Blogging: W. Bruce Masse, Elizabeth Wayland Barber, Luigi Piccardi, & Paul T. Barber (2007). Exploring the nature of myth and its role in science Piccardi, L. & W.B. Masse. (eds.). Myth and Geology, (Geological Society Special Publication 273). London: The Geological Society., 9-28 DOI: 10.1144/GSL.SP.2007.273.01.02