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sabato 25 gennaio 2014

Davvero i Boston hanno cantato "Io non ho soldi"? #canzonitravisate, glossolalia e moduli mentali

Dato che non ho trovato immagini sufficientemente buone di giubbetti della ex-DDR, e considerato che i sofficini sono sotto copyright, ecco dei generici doughnuts/donuts, da Wikipedia. Immagine di WestportWiki. Ah, ho anche escluso la numismatica.
Niente paura. Tutto è spiegato qui sotto.
Vi è sembrato che Ian Gillan, il frontman dei Deep Purple, cantasse nel 1984 «Ah!Ah! Ho tre marchi nel giubbetto!» in Knocking at your backdoor?
Oppure che Michael Jackson abbia gridato un «Passa la ciambella!» in rigoroso falsetto nella sua Working Day and Night? Non temete, è normale.

Un programma radiofonico mattutino condotto su un'emittente privata nazionale da un trio comico romano (non nuovo alla divulgazione scientifica e noto per aver condotto il programma televisivo La gaia scienza) segnala da qualche tempo e in un'apposita rubrica le "canzoni travisate". Questa peculiare categoria in costante espansione grazie agli infaticabili segnalatori nasce per indicare quelle canzoni cantate in lingue straniere (molto spesso in inglese) che sembrano contenere frasi o parole pronunciate nella madrelingua nazionale o dialettale. Spesso con esiti a dir poco bizzarri e paradossali, come quel «Io non ho soldi!» gridato dai Boston in More than a Feeling. Oppure il memorabile «this is sof-fi-ci-no!» rigorosamente scandito in Painkiller dei Judas Priest.
A chi non è mai capitato di intuire una parola o una frase italiana in canzoni ascoltate alla radio? Ma come è possibile che quando le ascoltiamo non possiamo fare a meno di sentire quella frase particolare? E soprattutto, c'è un motivo scientifico dietro questo solo apparentemente futile divertissement e che possa giustificare un intero post su questo blog?

Ebbene, un motivo c'è. E si chiama obbligatorietà delle operazioni: allo stesso modo di ciò che avviene con i riflessi, non si può evitare di elaborare in modo (più o meno) sensato l’informazione ricevuta. Siamo nell'ambito della teoria computazionale-rappresentazionale della mente avanzata da Jerry Fodor, secondo la quale il funzionamento della mente dovrebbe corrispondere ad una serie di moduli indipendenti tendenti all’espletazione più o meno ottimale di determinati problem solving. In questo caso, ad esempio, non si può percepire una frase ascoltata in condizioni normali come un inintelligibile disturbo rumoroso. La frase viene quindi "riconvertita" e le parti più somiglianti intese nella propria lingua natia. La stessa cosa accade con i fenomeni religiosi noti come xenoglossia (o eteroglossia) e glossolalia.

La xenoglossia è l’ipotetica capacità di parlare in lingue altrimenti sconosciute e mai apprese in vita, mentre con il termine di glossolalia si indica la capacità di esprimersi più o meno correttamente in lingue estinte o ritenute di origine divina. Si tratta di caratteristiche che attraversano la storia umana e i documenti religiosi noti, da San Paolo agli sciamani asiatici e che oggi, ad esempio, presso le comunità cristiane pentecostali sono ritenute ispirate divinamente dallo Spirito Santo e vengono spiegate (solitamente facendo appello a “traduzioni” assai più lunghe e più complesse dei suoni glossolalici) attraverso un sistema di interpretazioni ispirato divinamente.
Robert N. McCauley (in un recente libro di scienze cognitive che ci è molto piaciuto) ha ripreso gli studi precedenti di Felicitas Goodman e di William Samarin, che avevano a loro volta esaminato nel dettaglio questi fenomeni, e ha concluso che si tratta dell’espressione di uno specifico vincolo modulare cognitivo: dato che non si può percepire una frase ascoltata in condizioni normali come un inintelligibile disturbo rumoroso, i suoni emessi dal soggetto glossolalico vengono interpretati come frasi di senso più o meno compiuto nella propria lingua (esattamente come «Passa la ciambella!»). Anche nel caso dell’enunciazione di una lingua sconosciuta (convenientemente ritenuta estinta), è stato dimostrato che il soggetto xenoglosso, da parte sua, non esprime metriche e ritmiche linguistiche radicalmente diverse, ma si limita perlopiù a ripetere l’alternanza corretta delle sillabe e la stessa metrica che ci aspetterebbe di trovare nella sua lingua natia (non esistono casi di fonemi espressi durante episodi di glossolalia che non siano compresi in un sottoinsieme della madrelingua del parlante).

L’errore cognitivo e quasi automatico che viene commesso da parte dell'ascoltare è di fatto il seguente (uno sbaglio che può trarre in inganno anche studiosi di linguistica ed esperti conoscitori di varie lingue): se sembra una lingua vuol dire che si vuole comunicare qualcosa, e se si vuole comunicare qualcosa significa che il messaggio possiede un senso e un significato, per quanto bizzarro possa essere. Che si tratti di improbabili problemi finanziari, di nostalgici giubbetti dell'ex DDR, o di poco salutari menù comprendenti sofficini o ciambelle.

Riferimenti bibliografici:

Fodor, Jerry. 1988
La mente modulare. Saggio di psicologia delle facoltà, il Mulino, Bologna (ed. orig. The Modularity of Mind: An Essay on Faculty Psychology, The MIT Press, Cambridge-MA 1983)

Goodman, Felicitas D. 1972
Speaking in Tongues: A Cross-Cultural Study of Glossolalia, The University of Chicago Press, Chicago-London

McCauley, Robert N. 2011
Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford-New York

Samarin, William. 1972
Tongues of Men and Angels: The Religious Language of Pentecostalism, MacMillan, New York

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