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venerdì 28 febbraio 2014

E «Il più grande storico di tutti i tempi» è…

Autore: Amada44. Da Wikipedia.
ResearchBlogging.org
... No, non ve lo dico subito.
La risposta la trovate più avanti, forse la conoscete già (se siete aficionados del blog la ricorderete senz'altro) e, se proprio desiderate spoilerarvi tutto il post, potete andare direttamente all'ultima riga e buonanotte. Ma se invece volete seguirmi un momento, concedetemi di aprire con una banalità bella e buona:
Gli storici hanno sempre utilizzato modelli psicologici e sociologici per spiegare e comprendere l’intenzionalità, i desideri e le azioni dei soggetti studiati.
Bene. E allora, direte voi?
Allora, in quella frase scontata c’è un problema ingombrante quanto un elefante in un negozio di cristalli. Fino ad oggi i modelli di analisi storiografica utilizzati sono stati perlopiù impliciti, o “ingenui”, ossia non sostenuti dalla conoscenza del corretto funzionamento dei meccanismi cognitivi. Vale la pena chiarire di sfuggita che la definizione di “sociologia ingenua”, coniata dall’antropologo Larry Hirschfeld, viene utilizzata per descrivere le interpretazioni antropomorfiche che gli esseri umani applicano inconsciamente quando devono rappresentare le relazioni personali che intercorrono con soggetti collettivi inanimati (come il villaggio, lo stato, la repubblica, ecc.), con elementi naturali animati o inanimati o con soggetti inesistenti ed invisibili come gli dèi. Perché il lettore non cada nella trappola dell’assegnazione di etichette di valore alla suddetta definizione, ricordiamo, seguendo Pascal Boyer, che
«“ingenua” non significa che l’interpretazione sia primitiva o sciatta, ma solo che si sviluppa spontaneamente, in assenza della formazione sistematica necessaria per l’acquisizione di concetti scientifici» (Boyer 2010: 302).
Ora, il compito degli storiografi, come avviene in qualunque altra classe di studiosi impegnata con pattern storici (geologi, paleontologi, biologi evoluzionisti, astronomi, ecc.), è quello di «ricostruire un evento storico unendo i puntini rappresentati dalle evidenze frammentarie nel modo più plausibile» (Martin 2012: 159). Però, come ha notato Luther H. Martin sulla scorta di un importante e recente volume di Daniel Lord Smail, nel campo storiografico-culturale, tale compito è solitamente dipeso più dall’impegno nei confronti di determinati giudizi aprioristici (ideologici, fideistici, teologici, teleologici, politici, antiscientisti in senso lato, ecc.), che dalla valutazione critica, razionale ed epistemologicamente fondata del materiale a disposizione. Campione in negativo di questo modo di procedere è stato lo studio storico-religioso del passato recente, campo nel quale i puntini che rappresentano le informazioni ricavate dai documenti a disposizione sono stati connessi in modo molto spesso arbitrario, producendo «svariati diagrammi privi di senso – una soluzione che ha caratterizzato davvero troppa storiografia» (ibi: 168).
A monte di tutto sta l’impostazione tipica delle narrazioni ingenue (sensu Hirschfeld) che hanno prodotto anche i vetusti modelli di “storia sacra” o teleologica (Smail 2008). Si tratta di un modello dato per scontato fino a tempi relativamente recenti, e che talora fa ancora capolino in testi blasonatissimi senza destare nemmeno un sopracciglio aggrottato tra i lettori. Le radici moderne di tale idea sono reperibili nelle storiografie nazionalistico-teleologiche tipiche dell’Ottocento e contraddistinte dallo sforzo ideologico volto a irreggimentare il processo storico sotto la lente dell’ontogenesi e dell’ortogenesi, ossia evolutivamente incardinate su un percorso rettilineo e orientato a priori (un esame soggetto a molteplici errori di valutazione, talvolta ingenui o incoscienti; cfr. Barsanti 2005: 336). Tale modello si inseriva implicitamente nelle manipolazioni storico-antropologiche antidarwiniane, poiché sostituiva l’idea di un’assenza di progresso teleologico verso una perfezione maggiore con una complessa dialettica della storia e della cultura nella quale coincidevano e coesistevano escatologia, teleologia e direzioni ortogenetiche.
Come in un gioco di scatole cinesi, questo modello conteneva a sua volta tre differenti moduli di velocità lungo l’asse dell’ortogenesi biologica e storico-culturale, antropologica e religiosa: uno sviluppo orientato verso un fine, sovente impiegato per spiegare escatologicamente anche il destino dell’uomo nel cosmo, una stasi di questo processo (chi non ricorda i cosiddetti «fossili viventi»?) e una degenerazione come semplificazione di una complessità precedente. In questa prospettiva ciò che era ritenuto importante è il punto primigenio di «concepimento o di germinazione», per cui l’origine coincide escatologicamente con il massimo del prestigio e delle supposte potenzialità culturali o biologiche nazionali: «nella narrazione della storia sacra [è] il giardino dell’Eden» (Smail 2008: 80). Non penso ci sia bisogno di chiarire ulteriormente il paragone illecito tra sviluppo, progresso, ideologie politico-religiose e nazionalistici rapporti di forza tra le potenze europee dell'Ottocento e del primo Novecento (ove lo sviluppo teleologico era esplicitamente tradotto con un giudizio di valore ideologico), né di aggiungere che le basi biologiche di tale paragone sono state falsificate da tempo.
Ora, Martin definisce questo tipo di modello di indagine storiografica come un «pensiero storico [definito] da un processo ordinario della cognizione umana», basato a sua volta sul senso comune dei bias cognitivi (Martin 2012: 160), ossia sui vincoli innati che agiscono sulla computazione pregiudiziale delle informazioni (gli stessi, per dire, che fanno sembrare naturale e ovvio il geocentrismo e la fissità delle specie). Benché biologicamente efficace per la costruzione conformista dell’identità in un ambito creato dalla distribuzione del potere sociale, si tratta di un sistema chiaramente fallace, di parte e del tutto inadatto per condurre un’analisi scientifica. Come ha scritto Gilberto Corbellini,
«Le scienze sociali, dall’economia alla sociologia, all’antropologia culturale, alla filosofia, sono […] in ritardo, perché chi le pratica tende spontaneamente e in concorso con i colleghi a deformare la realtà, in primo luogo nel definire i tratti della natura umana da cui si appresta a derivare le descrizioni dei fenomeni di studio, a vantaggio di chi ha o mira ad averne un controllo sociale» (Corbellini 2013: 137-138).
Inoltre, questo modo di procedere offre il fianco, volente o nolente, alle letture propriamente teologiche della storia, poiché si sposa perfettamente con le ipotetiche intenzionalità di invisibili agenti sovrannaturali che muovono i fili delle vicende umane. Anche questo modo di pensare è un riflesso di default della cognizione umana, frutto di un'evoluzione eminentemente fondata sui processi sociali. Il pensiero storiografico dovrebbe invece cercare incessantemente di correggere questi bias impliciti, alla luce dell’autoconsapevolezza scientifica di tali vincoli. Solo in questo modo il meccanismo della correzione degli errori grazie all’impresa collettiva può aspirare all’incremento delle conoscenze razionali. Altrimenti ci si limita a costruire una storiografia ingenua in stile Whiggish, ossia una narrazione di parte, forzata e fallace nella quale i fatti vengono astratti dal contesto generale e ordinati in un modo preciso poiché si sa già, consciamente o inconsciamente, dove si vuole andare a parare nella conclusione (Martin 2012: 160. Sulla responsabilità dello storico cfr. Sagan 2001: 308-309).

Arriviamo ora – finalmente! – al «il più grande storico di tutti i tempi»  cui si alludeva nel titolo.
Bando alle ciance, quindi: si tratta di Charles Robert Darwin. Avevate dubbi a riguardo?
Di certo non ne ha avuti lo storico della scienza e biologo Frank J. Sulloway quando ha sostenuto questa tesi, dati quantitativi e carte alla mano (Sulloway 1998: 326), sulla base di due motivi fondamentali legati al tema che stiamo trattando in questo post.
Innanzitutto, Darwin aveva unito «il suo grande impegno nella valutazione delle ipotesi» all’uso degli strumenti comunemente utilizzati dagli storici, come ad esempio «la descrizione dettagliata degli oggetti che studiava, unita a un costante interesse per il contesto» (ibi: 326-327). In pratica, il naturalista di Shrewsbury (la città natale di Darwin) era consapevole del bias di conferma (cfr. Shermer 2012: 304 ss.), il processo cognitivo e intuitivo per cui tendiamo a minimizzare le prove e le evidenze che emergono come incongruità rispetto alle nostre aspettative e al pattern narrativo sociale dominante accettato (magari supinamente), tanto da annotare nella sua Autobiografia l’abitudine di segnare negli anni tutti i casi e gli elementi che sembravano contraddire le sue idee (Sulloway 1998: 327). Per questo motivo Darwin ha atteso due decenni raccogliendo materiale scientifico: per testare, verificare, costruire e sostanziare la sua idea (per approfondire cfr. Pievani 2013). Il metodo di lavoro di Darwin, così come il suo programma di ricerca (cliccate su questo link per saperne di più), metteva implicitamente in crisi un modello ben più diffuso, allora come oggi bloccato nel bias di conferma: come ha segnalato il giornalista Adam Gopnick,
«In genere, il teorico che ha previsto che tutti i cigni siano bianchi, messo di fronte a un cigno nero, non risponderà dicendo: “Ma guarda un po’! La mia idea era sbagliata!” bensì “E quello tu lo chiami cigno?”» (Gopnick 2013: 132. Per un confronto con il mondo scientifico si veda invece Dawkins 2011: 279).
In secondo luogo con Darwin, alla fine dell’epoca delle esplorazioni geografiche, le colonne d’Ercole della conoscenza venivano spostate più lontano di quanto si potesse mai immaginare: la storia dell’uomo, del pianeta e, più tardi, quella del cosmo si spalancavano così di fronte alla ricerca scientifica come nuove terre incognite da esplorare, ma infinitamente più vaste di quanto il pensiero storico precedente abbia mai potuto immaginare (Shermer 2012: 359-360).
La morale, allora, è che occorre cercare di ovviare ai vincoli cognitivi nella misura in cui ciò è possibile grazie alla loro conoscenza e al seguente autocontrollo cosciente. Come si traduce tutto ciò per il campo di studio storiografico? Secondo Jesper Sørensen,
«la discrepanza tra la prospettiva dello storico e la limitata conoscenza degli attori storici evidenzia la necessità di una comprensione adeguata dell’accesso alla conoscenza dei medesimi attori [delle rappresentazioni culturali e della loro trasmissione] e di come quella conoscenza ha informato le azioni che costituiscono gli eventi storici» (Sørensen 2011: 193).
Abbiamo quindi sul tavolo agenti storici che interagiscono sulla base di intenzioni e desideri, impegnati nel figurarsi e proiettare automaticamente intenzionalità e desideri su altri agenti. Questi agenti producono informazioni, vi hanno accesso e le trasmettono in vario modo a seconda di vincoli culturali e competitivi, mentali e sociali, materiali e ambientali. Il modo in cui gestiamo e manipoliamo le rappresentazioni culturali è il risultato della nostra risalente storia evolutiva di primati sociali, competitivi e cooperativi, a volte ingannatori e a volte altruisti. Insomma, per farla breve, abbiamo di fronte il variegato mondo della cognizione. Nel 1964 il genetista e biologo evoluzionista Theodosius Dobzhansky (1900-1975) ha affermato che «nulla ha senso nella biologia se non alla luce dell’evoluzione» (Dobzhansky 1964: 449). Parafrasando questa  celeberrima frase a nostro uso e consumo, potremmo dire che nulla ha senso nella cognizione se non alla luce dell'evoluzione*. Se non si conoscono i modi in cui la mente funziona, difficilmente si può essere obiettivi nell'analisi dei processi storiografici.
Tale prospettiva (sulla quale avremo modo di tornare prossimamente) permette, se si agisce con discernimento, di evitare i vicoli ciechi dei vari determinismi umanistici che hanno tentato in qualche modo di spiegare l’interazione tra vincoli storici strutturali ed eventi contingenti. Si pensi al determinismo sociale, ove la mente è stata spesso considerata una tabula rasa sulla quale la cultura viene inscritta attraverso la socializzazione (ibi: 182-183), o al determinismo psicologico, nel quale sia la storia sia i sistemi socio-culturali sono ritenuti completamente contingenti (ibi: 183-185). Un’ottica scientificamente pluralistica e coevoluzionistica, ove gli esseri umani influenzano le pressioni selettive modificando il proprio ambiente in modo non sempre adattativamente favorevole (la cosiddetta niche construction), permette invece di incrociare le spiegazioni multicausali a seconda del quadro temporale di riferimento inscritto nella storia profonda di Homo sapiens (ibi: 185 ss.).
Seguendo la brillante sistematizzazione offerta da Jesper Sørensen, tanto per limitarci a un esempio tra i modelli attualmente disponibili, si può così parlare di
  • un livello macrostorico, all’interno del quale si può avvertire l’impatto dei cambiamenti storico-culturali sulla neurochimica e l’uso deliberato di stratagemmi culturali per alterare neurochimicamente cognizione ed emozioni (si pensi ai «rituali, alle manifestazioni sportive, alla lettura, al canto, agli strumenti musicali, e al raccontare storie, [attività] che possiedono tutte l’obiettivo esplicito di modificare la neurochimica del cervello e in tal modo il nostro funzionamento cognitivo ed emotivo»);
  • un livello microstorico, nella cui analisi predominano le scienze cognitive per spiegare la trasmissione, o epidemiologia, delle rappresentazioni culturali (idee o memi che dir si voglia);
  • infine, di un livello mesostorico, dove ad essere indagati sono l’immunologia delle rappresentazioni (ovvero, la resistenza al cambiamento nelle rappresentazioni culturali), i periodi di stasi, gli stili di apprendimento culturale (ossia come si apprende ad imparare) e l’interazione con gli utensili, ossia come questi modificano ulteriormente i processi di ragionamento (ibi: 187-190).
In tutti i casi descritti la costante fondamentale è l’aspetto biologico-evoluzionistico della storia: «la storia profonda è importante […] perché può essere usata come una mappa per la continua narrazione della coevoluzione tra geni e cultura» (ibi: 190).
Non solo la metodologia della ricerca storica ma anche l'epistemologia storiografica devono allora a Darwin molto più di quanto solitamente non riconoscano. 
E quindi, ricapitolando: sì, il più grande storico di tutti i tempi è Darwin.

Darwin da giovane. Perché, a dispetto delle immagini comunemente usate nei media, anche Darwin ha avuto un'adolescenza e una maturità prima della vecchiaia (altri lo hanno già fatto notare altrove in passato, ma è sempre bene ripeterlo). Opera di George Richmond (1809-1896), da Wikipedia.
*:  In un’elaborazione successiva in merito al medesimo concetto, Dobzhansky (1973: 129) fa riferimento esplicito al pensiero del prete gesuita, paleontologo e filosofo Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955). Questi viene citato come esempio di convivenza tra fede personale ed evoluzione, che il genetista ritiene preferibile, in quel particolare contesto statunitense dell’epoca e nell’ambito di un certo dibattito, al creazionismo letterale fondamentalista.  Peccato che il prete gesuita fosse fautore di quello che oggi etichetteremmo correttamente come un Intelligent Design  (letteralmente “progetto intelligente”) ortogenetico, teleologico ed escatologico di matrice teologica cristiana. Tradotto altrimenti, Teilhard de Chardin sosteneva l’esistenza di una pianificazione divina agente nei processi evolutivi, teleologicamente orientata verso l’evoluzione dell’uomo e la sua storia e culminante cosmologicamente nella propria religione di afferenza. Una “storia sacra”, insomma, e una risposta altrettanto fallace di quella che il genetista avrebbe voluto controbattere, probabilmente ispirata dalle credenze personali di Dobzhansky (Ayala 1976).
Come ha notato sagacemente Telmo Pievani (2011: 134), «la tentazione del finalismo pervade anche le menti degli scienziati». Motivo in più per essere sempre coscienti dei vincoli cognitivi in modo tale da potervi ovviare anzitempo.

Ayala, F. (1976). Theodosius Dobzhansky: The Man and the Scientist Annual Review of Genetics, 10 (1), 1-7 DOI: 10.1146/annurev.ge.10.120176.000245

Barsanti, G. (2005). Una lunga pazienza cieca. Storia dell’evoluzionismo. Torino: Einaudi.

Boyer, P. (2010). E l’uomo creò gli dei. Come spiegare la religione. Bologna: Odoya (ed. orig. 2001. Et l’homme créa les dieux. Comment expliquer la religion. Paris: Éditions Robert Laffont; 2003. Paris: Gallimard. Ed. ingl. 2002. Religion Explained: The Evolutionary Origins of Religious Thought, New York: Basic Books).

Dawkins, R. (2011). L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere. Milano: Mondadori (2007; ed. orig. 2006 The God Delusion. London: Bantam Press).

Dobzhansky, T. (1964). Biology, molecular and organismic. Integrative and Comparative Biology, 4 (4), 443-452 DOI: 10.1093/icb/4.4.443

Dobzhansky, T. (1973). Nothing in Biology Makes Sense except in the Light of Evolution The American Biology Teacher, 35 (3), 125-129 DOI: 10.2307/4444260

Gopnick, A. (2013). Il sogno di una vita. Lincoln e Darwin. Parma: Guanda (ed. orig. 2009. Angels and Ages: A Short Book About Darwin, Lincoln, and Modern Life. New York: Alfred A. Knopf. A Division of Random House).

Corbellini, G. (2013). Scienza. Torino: Bollati Boringhieri.

Martin, L.H. (2012). The Future of the Past: The History of Religions and Cognitive Historiography. Religio. Revue pro religionistiku. (XX) 2: 155-172.

Pievani, T. (2011). La vita inaspettata. Il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Pievani, T. (2013). Anatomia di una rivoluzione. La logica della scoperta scientifica di Darwin. Milano-Udine: Mimesis.

Sagan, C. (2001). Il mondo infestato dai demoni. La scienza e il nuovo oscurantismo. Milano: Baldini e Castoldi (1997; ed. orig. 1996. The Demon-Haunted World: Science as a Candle in the Dark. New York: Ballantine Books. A Division of Random House).

Shermer, M.. (2012). The Believing Brain: From Spiritual Faiths to Political Convinctions. How We Construct Beliefs and Reinforce Them as Truths. London: Robinson (ed. orig. 2011. The Believing Brain: From Ghosts and Gods to Politics and Conspiracies. How We Construct Beliefs and Reinforce Them as Truths. New York: Times Books - Henry Holt).

Smail, D.L.. (2008). On Deep History and the Brain. Berkeley-Los Angeles-London: University of California Press.

Sørensen, J. (2011). Past Minds: Present Historiography and Cognitive Science. In Martin, L.H., Sørensen, J. (eds.). Past Minds: Studies in Cognitive Historiography (179-196). London-Oakville: Equinox.

Sulloway, F.J. (1998). Fratelli maggiori, fratelli minori. Come la competizione tra fratelli determina la personalità. Milano: Mondadori. (ed. orig. 1996. Born to Rebel: Birth Order, Family Dynamics, and Creative Lives. New York: Pantheon Books).

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