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venerdì 28 febbraio 2014

E «Il più grande storico di tutti i tempi» è…

Autore: Amada44. Da Wikipedia.
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... No, non ve lo dico subito.
La risposta la trovate più avanti, forse la conoscete già (se siete aficionados del blog la ricorderete senz'altro) e, se proprio desiderate spoilerarvi tutto il post, potete andare direttamente all'ultima riga e buonanotte. Ma se invece volete seguirmi un momento, concedetemi di aprire con una banalità bella e buona:
Gli storici hanno sempre utilizzato modelli psicologici e sociologici per spiegare e comprendere l’intenzionalità, i desideri e le azioni dei soggetti studiati.
Bene. E allora, direte voi?
Allora, in quella frase scontata c’è un problema ingombrante quanto un elefante in un negozio di cristalli. Fino ad oggi i modelli di analisi storiografica utilizzati sono stati perlopiù impliciti, o “ingenui”, ossia non sostenuti dalla conoscenza del corretto funzionamento dei meccanismi cognitivi. Vale la pena chiarire di sfuggita che la definizione di “sociologia ingenua”, coniata dall’antropologo Larry Hirschfeld, viene utilizzata per descrivere le interpretazioni antropomorfiche che gli esseri umani applicano inconsciamente quando devono rappresentare le relazioni personali che intercorrono con soggetti collettivi inanimati (come il villaggio, lo stato, la repubblica, ecc.), con elementi naturali animati o inanimati o con soggetti inesistenti ed invisibili come gli dèi. Perché il lettore non cada nella trappola dell’assegnazione di etichette di valore alla suddetta definizione, ricordiamo, seguendo Pascal Boyer, che
«“ingenua” non significa che l’interpretazione sia primitiva o sciatta, ma solo che si sviluppa spontaneamente, in assenza della formazione sistematica necessaria per l’acquisizione di concetti scientifici» (Boyer 2010: 302).
Ora, il compito degli storiografi, come avviene in qualunque altra classe di studiosi impegnata con pattern storici (geologi, paleontologi, biologi evoluzionisti, astronomi, ecc.), è quello di «ricostruire un evento storico unendo i puntini rappresentati dalle evidenze frammentarie nel modo più plausibile» (Martin 2012: 159). Però, come ha notato Luther H. Martin sulla scorta di un importante e recente volume di Daniel Lord Smail, nel campo storiografico-culturale, tale compito è solitamente dipeso più dall’impegno nei confronti di determinati giudizi aprioristici (ideologici, fideistici, teologici, teleologici, politici, antiscientisti in senso lato, ecc.), che dalla valutazione critica, razionale ed epistemologicamente fondata del materiale a disposizione. Campione in negativo di questo modo di procedere è stato lo studio storico-religioso del passato recente, campo nel quale i puntini che rappresentano le informazioni ricavate dai documenti a disposizione sono stati connessi in modo molto spesso arbitrario, producendo «svariati diagrammi privi di senso – una soluzione che ha caratterizzato davvero troppa storiografia» (ibi: 168).
A monte di tutto sta l’impostazione tipica delle narrazioni ingenue (sensu Hirschfeld) che hanno prodotto anche i vetusti modelli di “storia sacra” o teleologica (Smail 2008). Si tratta di un modello dato per scontato fino a tempi relativamente recenti, e che talora fa ancora capolino in testi blasonatissimi senza destare nemmeno un sopracciglio aggrottato tra i lettori. Le radici moderne di tale idea sono reperibili nelle storiografie nazionalistico-teleologiche tipiche dell’Ottocento e contraddistinte dallo sforzo ideologico volto a irreggimentare il processo storico sotto la lente dell’ontogenesi e dell’ortogenesi, ossia evolutivamente incardinate su un percorso rettilineo e orientato a priori (un esame soggetto a molteplici errori di valutazione, talvolta ingenui o incoscienti; cfr. Barsanti 2005: 336). Tale modello si inseriva implicitamente nelle manipolazioni storico-antropologiche antidarwiniane, poiché sostituiva l’idea di un’assenza di progresso teleologico verso una perfezione maggiore con una complessa dialettica della storia e della cultura nella quale coincidevano e coesistevano escatologia, teleologia e direzioni ortogenetiche.
Come in un gioco di scatole cinesi, questo modello conteneva a sua volta tre differenti moduli di velocità lungo l’asse dell’ortogenesi biologica e storico-culturale, antropologica e religiosa: uno sviluppo orientato verso un fine, sovente impiegato per spiegare escatologicamente anche il destino dell’uomo nel cosmo, una stasi di questo processo (chi non ricorda i cosiddetti «fossili viventi»?) e una degenerazione come semplificazione di una complessità precedente. In questa prospettiva ciò che era ritenuto importante è il punto primigenio di «concepimento o di germinazione», per cui l’origine coincide escatologicamente con il massimo del prestigio e delle supposte potenzialità culturali o biologiche nazionali: «nella narrazione della storia sacra [è] il giardino dell’Eden» (Smail 2008: 80). Non penso ci sia bisogno di chiarire ulteriormente il paragone illecito tra sviluppo, progresso, ideologie politico-religiose e nazionalistici rapporti di forza tra le potenze europee dell'Ottocento e del primo Novecento (ove lo sviluppo teleologico era esplicitamente tradotto con un giudizio di valore ideologico), né di aggiungere che le basi biologiche di tale paragone sono state falsificate da tempo.
Ora, Martin definisce questo tipo di modello di indagine storiografica come un «pensiero storico [definito] da un processo ordinario della cognizione umana», basato a sua volta sul senso comune dei bias cognitivi (Martin 2012: 160), ossia sui vincoli innati che agiscono sulla computazione pregiudiziale delle informazioni (gli stessi, per dire, che fanno sembrare naturale e ovvio il geocentrismo e la fissità delle specie). Benché biologicamente efficace per la costruzione conformista dell’identità in un ambito creato dalla distribuzione del potere sociale, si tratta di un sistema chiaramente fallace, di parte e del tutto inadatto per condurre un’analisi scientifica. Come ha scritto Gilberto Corbellini,
«Le scienze sociali, dall’economia alla sociologia, all’antropologia culturale, alla filosofia, sono […] in ritardo, perché chi le pratica tende spontaneamente e in concorso con i colleghi a deformare la realtà, in primo luogo nel definire i tratti della natura umana da cui si appresta a derivare le descrizioni dei fenomeni di studio, a vantaggio di chi ha o mira ad averne un controllo sociale» (Corbellini 2013: 137-138).
Inoltre, questo modo di procedere offre il fianco, volente o nolente, alle letture propriamente teologiche della storia, poiché si sposa perfettamente con le ipotetiche intenzionalità di invisibili agenti sovrannaturali che muovono i fili delle vicende umane. Anche questo modo di pensare è un riflesso di default della cognizione umana, frutto di un'evoluzione eminentemente fondata sui processi sociali. Il pensiero storiografico dovrebbe invece cercare incessantemente di correggere questi bias impliciti, alla luce dell’autoconsapevolezza scientifica di tali vincoli. Solo in questo modo il meccanismo della correzione degli errori grazie all’impresa collettiva può aspirare all’incremento delle conoscenze razionali. Altrimenti ci si limita a costruire una storiografia ingenua in stile Whiggish, ossia una narrazione di parte, forzata e fallace nella quale i fatti vengono astratti dal contesto generale e ordinati in un modo preciso poiché si sa già, consciamente o inconsciamente, dove si vuole andare a parare nella conclusione (Martin 2012: 160. Sulla responsabilità dello storico cfr. Sagan 2001: 308-309).

Arriviamo ora – finalmente! – al «il più grande storico di tutti i tempi»  cui si alludeva nel titolo.
Bando alle ciance, quindi: si tratta di Charles Robert Darwin. Avevate dubbi a riguardo?
Di certo non ne ha avuti lo storico della scienza e biologo Frank J. Sulloway quando ha sostenuto questa tesi, dati quantitativi e carte alla mano (Sulloway 1998: 326), sulla base di due motivi fondamentali legati al tema che stiamo trattando in questo post.
Innanzitutto, Darwin aveva unito «il suo grande impegno nella valutazione delle ipotesi» all’uso degli strumenti comunemente utilizzati dagli storici, come ad esempio «la descrizione dettagliata degli oggetti che studiava, unita a un costante interesse per il contesto» (ibi: 326-327). In pratica, il naturalista di Shrewsbury (la città natale di Darwin) era consapevole del bias di conferma (cfr. Shermer 2012: 304 ss.), il processo cognitivo e intuitivo per cui tendiamo a minimizzare le prove e le evidenze che emergono come incongruità rispetto alle nostre aspettative e al pattern narrativo sociale dominante accettato (magari supinamente), tanto da annotare nella sua Autobiografia l’abitudine di segnare negli anni tutti i casi e gli elementi che sembravano contraddire le sue idee (Sulloway 1998: 327). Per questo motivo Darwin ha atteso due decenni raccogliendo materiale scientifico: per testare, verificare, costruire e sostanziare la sua idea (per approfondire cfr. Pievani 2013). Il metodo di lavoro di Darwin, così come il suo programma di ricerca (cliccate su questo link per saperne di più), metteva implicitamente in crisi un modello ben più diffuso, allora come oggi bloccato nel bias di conferma: come ha segnalato il giornalista Adam Gopnick,
«In genere, il teorico che ha previsto che tutti i cigni siano bianchi, messo di fronte a un cigno nero, non risponderà dicendo: “Ma guarda un po’! La mia idea era sbagliata!” bensì “E quello tu lo chiami cigno?”» (Gopnick 2013: 132. Per un confronto con il mondo scientifico si veda invece Dawkins 2011: 279).
In secondo luogo con Darwin, alla fine dell’epoca delle esplorazioni geografiche, le colonne d’Ercole della conoscenza venivano spostate più lontano di quanto si potesse mai immaginare: la storia dell’uomo, del pianeta e, più tardi, quella del cosmo si spalancavano così di fronte alla ricerca scientifica come nuove terre incognite da esplorare, ma infinitamente più vaste di quanto il pensiero storico precedente abbia mai potuto immaginare (Shermer 2012: 359-360).
La morale, allora, è che occorre cercare di ovviare ai vincoli cognitivi nella misura in cui ciò è possibile grazie alla loro conoscenza e al seguente autocontrollo cosciente. Come si traduce tutto ciò per il campo di studio storiografico? Secondo Jesper Sørensen,
«la discrepanza tra la prospettiva dello storico e la limitata conoscenza degli attori storici evidenzia la necessità di una comprensione adeguata dell’accesso alla conoscenza dei medesimi attori [delle rappresentazioni culturali e della loro trasmissione] e di come quella conoscenza ha informato le azioni che costituiscono gli eventi storici» (Sørensen 2011: 193).
Abbiamo quindi sul tavolo agenti storici che interagiscono sulla base di intenzioni e desideri, impegnati nel figurarsi e proiettare automaticamente intenzionalità e desideri su altri agenti. Questi agenti producono informazioni, vi hanno accesso e le trasmettono in vario modo a seconda di vincoli culturali e competitivi, mentali e sociali, materiali e ambientali. Il modo in cui gestiamo e manipoliamo le rappresentazioni culturali è il risultato della nostra risalente storia evolutiva di primati sociali, competitivi e cooperativi, a volte ingannatori e a volte altruisti. Insomma, per farla breve, abbiamo di fronte il variegato mondo della cognizione. Nel 1964 il genetista e biologo evoluzionista Theodosius Dobzhansky (1900-1975) ha affermato che «nulla ha senso nella biologia se non alla luce dell’evoluzione» (Dobzhansky 1964: 449). Parafrasando questa  celeberrima frase a nostro uso e consumo, potremmo dire che nulla ha senso nella cognizione se non alla luce dell'evoluzione*. Se non si conoscono i modi in cui la mente funziona, difficilmente si può essere obiettivi nell'analisi dei processi storiografici.
Tale prospettiva (sulla quale avremo modo di tornare prossimamente) permette, se si agisce con discernimento, di evitare i vicoli ciechi dei vari determinismi umanistici che hanno tentato in qualche modo di spiegare l’interazione tra vincoli storici strutturali ed eventi contingenti. Si pensi al determinismo sociale, ove la mente è stata spesso considerata una tabula rasa sulla quale la cultura viene inscritta attraverso la socializzazione (ibi: 182-183), o al determinismo psicologico, nel quale sia la storia sia i sistemi socio-culturali sono ritenuti completamente contingenti (ibi: 183-185). Un’ottica scientificamente pluralistica e coevoluzionistica, ove gli esseri umani influenzano le pressioni selettive modificando il proprio ambiente in modo non sempre adattativamente favorevole (la cosiddetta niche construction), permette invece di incrociare le spiegazioni multicausali a seconda del quadro temporale di riferimento inscritto nella storia profonda di Homo sapiens (ibi: 185 ss.).
Seguendo la brillante sistematizzazione offerta da Jesper Sørensen, tanto per limitarci a un esempio tra i modelli attualmente disponibili, si può così parlare di
  • un livello macrostorico, all’interno del quale si può avvertire l’impatto dei cambiamenti storico-culturali sulla neurochimica e l’uso deliberato di stratagemmi culturali per alterare neurochimicamente cognizione ed emozioni (si pensi ai «rituali, alle manifestazioni sportive, alla lettura, al canto, agli strumenti musicali, e al raccontare storie, [attività] che possiedono tutte l’obiettivo esplicito di modificare la neurochimica del cervello e in tal modo il nostro funzionamento cognitivo ed emotivo»);
  • un livello microstorico, nella cui analisi predominano le scienze cognitive per spiegare la trasmissione, o epidemiologia, delle rappresentazioni culturali (idee o memi che dir si voglia);
  • infine, di un livello mesostorico, dove ad essere indagati sono l’immunologia delle rappresentazioni (ovvero, la resistenza al cambiamento nelle rappresentazioni culturali), i periodi di stasi, gli stili di apprendimento culturale (ossia come si apprende ad imparare) e l’interazione con gli utensili, ossia come questi modificano ulteriormente i processi di ragionamento (ibi: 187-190).
In tutti i casi descritti la costante fondamentale è l’aspetto biologico-evoluzionistico della storia: «la storia profonda è importante […] perché può essere usata come una mappa per la continua narrazione della coevoluzione tra geni e cultura» (ibi: 190).
Non solo la metodologia della ricerca storica ma anche l'epistemologia storiografica devono allora a Darwin molto più di quanto solitamente non riconoscano. 
E quindi, ricapitolando: sì, il più grande storico di tutti i tempi è Darwin.

Darwin da giovane. Perché, a dispetto delle immagini comunemente usate nei media, anche Darwin ha avuto un'adolescenza e una maturità prima della vecchiaia (altri lo hanno già fatto notare altrove in passato, ma è sempre bene ripeterlo). Opera di George Richmond (1809-1896), da Wikipedia.
*:  In un’elaborazione successiva in merito al medesimo concetto, Dobzhansky (1973: 129) fa riferimento esplicito al pensiero del prete gesuita, paleontologo e filosofo Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955). Questi viene citato come esempio di convivenza tra fede personale ed evoluzione, che il genetista ritiene preferibile, in quel particolare contesto statunitense dell’epoca e nell’ambito di un certo dibattito, al creazionismo letterale fondamentalista.  Peccato che il prete gesuita fosse fautore di quello che oggi etichetteremmo correttamente come un Intelligent Design  (letteralmente “progetto intelligente”) ortogenetico, teleologico ed escatologico di matrice teologica cristiana. Tradotto altrimenti, Teilhard de Chardin sosteneva l’esistenza di una pianificazione divina agente nei processi evolutivi, teleologicamente orientata verso l’evoluzione dell’uomo e la sua storia e culminante cosmologicamente nella propria religione di afferenza. Una “storia sacra”, insomma, e una risposta altrettanto fallace di quella che il genetista avrebbe voluto controbattere, probabilmente ispirata dalle credenze personali di Dobzhansky (Ayala 1976).
Come ha notato sagacemente Telmo Pievani (2011: 134), «la tentazione del finalismo pervade anche le menti degli scienziati». Motivo in più per essere sempre coscienti dei vincoli cognitivi in modo tale da potervi ovviare anzitempo.

Ayala, F. (1976). Theodosius Dobzhansky: The Man and the Scientist Annual Review of Genetics, 10 (1), 1-7 DOI: 10.1146/annurev.ge.10.120176.000245

Barsanti, G. (2005). Una lunga pazienza cieca. Storia dell’evoluzionismo. Torino: Einaudi.

Boyer, P. (2010). E l’uomo creò gli dei. Come spiegare la religione. Bologna: Odoya (ed. orig. 2001. Et l’homme créa les dieux. Comment expliquer la religion. Paris: Éditions Robert Laffont; 2003. Paris: Gallimard. Ed. ingl. 2002. Religion Explained: The Evolutionary Origins of Religious Thought, New York: Basic Books).

Dawkins, R. (2011). L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere. Milano: Mondadori (2007; ed. orig. 2006 The God Delusion. London: Bantam Press).

Dobzhansky, T. (1964). Biology, molecular and organismic. Integrative and Comparative Biology, 4 (4), 443-452 DOI: 10.1093/icb/4.4.443

Dobzhansky, T. (1973). Nothing in Biology Makes Sense except in the Light of Evolution The American Biology Teacher, 35 (3), 125-129 DOI: 10.2307/4444260

Gopnick, A. (2013). Il sogno di una vita. Lincoln e Darwin. Parma: Guanda (ed. orig. 2009. Angels and Ages: A Short Book About Darwin, Lincoln, and Modern Life. New York: Alfred A. Knopf. A Division of Random House).

Corbellini, G. (2013). Scienza. Torino: Bollati Boringhieri.

Martin, L.H. (2012). The Future of the Past: The History of Religions and Cognitive Historiography. Religio. Revue pro religionistiku. (XX) 2: 155-172.

Pievani, T. (2011). La vita inaspettata. Il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Pievani, T. (2013). Anatomia di una rivoluzione. La logica della scoperta scientifica di Darwin. Milano-Udine: Mimesis.

Sagan, C. (2001). Il mondo infestato dai demoni. La scienza e il nuovo oscurantismo. Milano: Baldini e Castoldi (1997; ed. orig. 1996. The Demon-Haunted World: Science as a Candle in the Dark. New York: Ballantine Books. A Division of Random House).

Shermer, M.. (2012). The Believing Brain: From Spiritual Faiths to Political Convinctions. How We Construct Beliefs and Reinforce Them as Truths. London: Robinson (ed. orig. 2011. The Believing Brain: From Ghosts and Gods to Politics and Conspiracies. How We Construct Beliefs and Reinforce Them as Truths. New York: Times Books - Henry Holt).

Smail, D.L.. (2008). On Deep History and the Brain. Berkeley-Los Angeles-London: University of California Press.

Sørensen, J. (2011). Past Minds: Present Historiography and Cognitive Science. In Martin, L.H., Sørensen, J. (eds.). Past Minds: Studies in Cognitive Historiography (179-196). London-Oakville: Equinox.

Sulloway, F.J. (1998). Fratelli maggiori, fratelli minori. Come la competizione tra fratelli determina la personalità. Milano: Mondadori. (ed. orig. 1996. Born to Rebel: Birth Order, Family Dynamics, and Creative Lives. New York: Pantheon Books).

mercoledì 12 febbraio 2014

Darwin Day 2014. L’appetito vien mangiando: le tesi di Richard Wrangham tra cibo, cognizione ed evoluzione

Wrangham; Richard. (2011a). L’intelligenza del fuoco. l’invenzione della cottura e l’evoluzione dell’uomo. Torino: Bollati Boringhieri (2009. Catching Fire: How Cooking Made Us Human. Profile Books: London / New York: Basic books)
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«[Le persone] non hanno bisogno di cuocere il cibo: lo fanno per ragioni simboliche, per dimostrare che sono uomini, non bestie» (Leach 1970: 92; cit. in Wrangham 2011: 17).
Così l’antropologo Edmund Leach, ricapitolando una posizione già esposta da Claude Lévi-Strauss nel celebre Il crudo e il cotto (1966), ha sintetizzato il ruolo della cucina nell’ambito della cultura umana. Insomma, cucinare, preparare e cuocere gli alimenti sono attività prettamente culturali la cui analisi biologico-evolutiva non avrebbe molto senso dal punto di vista antropologico. L’ambito è quello del modello umanistico che vuole l’uomo completamente avulso e libero dal contesto naturale poiché, come hanno scritto Maurice Bloch e Dan Sperber, «gli esseri umani possono trasmettere informazioni tra gli individui attraverso qualsiasi comunicazione simbolica», e quindi sarebbero «liberi da qualunque vincolo naturale […] differenziandosi essenzialmente dagli altri animali, i quali trasmettono l’informazione perlopiù, se non completamente, in modo genetico» (Bloch e Sperber 2002: 725).
Nulla di più sbagliato. «Noi esseri umani siamo le scimmie che sanno cucinare, le creature del fuoco». Queste sono invece le parole di Richard Wrangham (2011a: 20), antropologo a Harvard e studioso dei primati non umani presso il Peabody Museum, che introducono il tema della monografia intitolata L’intelligenza del fuoco, dedicata interamente al ruolo della preparazione e della cottura del cibo dal punto di vista dell’evoluzione e della cognizione umana.

La tesi di Wrangham è che la dieta alimentare, attraverso le innovazioni legate alla manipolazione e alla cottura degli alimenti, abbia profondamente influenzato la storia profonda del taxon Homo. I nostri antenati ominini, mangiando prima cibi più morbidi, lavorati a freddo, e più ricchi dal punto di vista dell’apporto energetico, avrebbero imposto un vincolo per la selezione di denti più piccoli e di un intestino meno elaborato perché non era più necessario masticare e digerire vegetali o carne cruda (alimenti più duri e fibrosi). In secondo luogo, la cottura avrebbe «aumentato la quantità di energia che il nostro corpo ricava dal cibo» (Wrangham 2011a: 19; cfr. Carmody et al. 2011), con conseguenze decisive sull’organizzazione sociale e infine, in una serie di ricadute a cascata, sulla cognizione.
Wrangham si spinge ancora più in là. Secondo la sua ricostruzione, i metodi e le tecniche per cucinare non solo sarebbero i principali responsabili dell’aumento delle dimensione del cervello nel genere Homo, ma sarebbero da retrodatare significativamente. La cottura pertanto ricoprirebbe un ruolo evolutivo strategico pari a quello della manipolazione degli utensili e dell’interazione sociale, e questa rappresenterebbe solamente uno stadio all’interno di un più complesso e risalente processo di innovazione culturale. Innanzitutto, Wrangham riprende una tesi avanzata da Leslie C. Aiello e Peter Wheeler (1995) definita expensive tissue hypothesis (ossia l’«ipotesi del tessuto costoso»; Wrangham 2011a: 129), per cui esisterebbe una relazione inversamente proporzionale tra dimensioni dell’apparato digerente e quelle cerebrali nei primati. Questo perché il cervello è un organo che consuma molta energia, come l’apparato digerente, e la cui espansione nel tempo profondo può avere luogo solo a scapito delle dimensioni del secondo e solo stante l’adozione di abitudini alimentari comprendenti cibo energeticamente molto ricco. Insomma, più semplicemente, il corpo è un sistema composto dalla relazione tra gli elementi che lo compongono e gli organi sono parti correlate che vanno studiate in rapporto le une con le altre, specialmente dal punto di vista della scala temporale evolutiva.
Rispetto alla tesi di Aiello e Wheleer, però, Wrangham ritiene che per quanto concerne la situazione di Homo l’expensive tissue hypothesis vada posta in relazione con le tecniche di preparazione del cibo e con l’esistenza di contesti sociali particolarmente competitivi e basati sulla cooperazione. Pertanto, l’antropologo sostiene una decisa retrodatazione degli eventi evolutivi.
La prima soglia evolutiva all’interno del panorama ricostruito da Wrangham (2011a: 9 ss.) è incentrata su un gruppo chiave dell’evoluzione umana, le habilines (ca. 2,3 milioni di anni fa), che precedono H. erectus (ca. 1,9 milioni di anni fa) e seguono alle australopitecine (ca. 3 milioni di anni fa). Le habilines testimoniano un aumento del volume cerebrale del 36% rispetto alle precedenti australopitecine e a parità di peso corporeo (rispettivamente 612 cc. vs. 450 cc.; Wrangham 2011: 130). Sulla base dell’analisi di dati paleoantropologici, fisiologici, primatologico-comparativi e morfologici, Wrangham ritiene che con questo gruppo abbia avuto inizio una significativa riduzione dei costi di digestione attraverso l’implementazione e il continuo miglioramento di tecniche di lavorazione a freddo, come la macinazione, la miscelazione, o battere la carne per renderla più morbida (ibid.: 133).
Il passo successivo è rappresentato dalla cottura del cibo attraverso il controllo del fuoco, che Aiello e Wheeler riservavano a H. heidelbergensis (ca. 800.000/600.000 anni fa) mentre Wrangham retrodata di un milione di anni ca., attribuendolo a H. erectus. In termini di volume cerebrale siamo a ca. 950 cc. contro 1200 cc. rispettivamente per H. erectus e H. heidelbergensis (Wrangham 2011a: 130, 133). Rispetto ai taxa precedenti, H. erectus avrebbe quindi subito un aumento del volume cerebrale del 55% se paragonato alle habilines (e del 111% rispetto alle australopitecine), mentre H. heidelbergensis un 96% rispetto a H. erectus (e addirittura un 166% rispetto alle australopitecine).

Wrangham lega la expensive tissue hypothesis alla tesi secondo la quale il cervello dei primati non umani si sia evoluto innanzitutto per fronteggiare la complessità dei rapporti sociali. Il tempo impiegato nella gestione delle interazioni sociali dei primati è sempre una delle costanti basilari di cui tenere conto durante le speculazioni e le ricostruzioni paleoantropologiche. Proprio sulla base della valutazione dei tempi da dedicare alle attività di gruppo, l’antropologo Robin Dunbar ha sostenuto che il linguaggio, tra le altre possibili concause, abbia assolto alla funzione socialmente essenziale della toelettatura (grooming) in gruppi man mano più numerosi:
«c’è un limite […] alla quantità di tempo che un individuo può passare a spulciare la pelliccia dei suoi amici; bisogna anche andare in cerca di cibo, accoppiarsi e fare attenzione ai predatori […] Quindi, questa pratica può tenere insieme solo gruppi relativamente piccoli»  (Ehrlich 2005: 193. Cfr. Dunbar 1998; Wrangham 2011a: 119-123).
Il linguaggio avrebbe pertanto funzionato come surrogato neurofisiologico della medesima attività sociale riuscendo a coinvolgere più individui contemporaneamente e nello stesso intervallo di tempo. Come scrive Wrangham,
«il risultato è una soap opera di affetti, alleanze, inimicizie in perenne trasformazione e una spinta costante a battere in astuzia gli altri» (2011a: 132).
Sulla scia di questa tesi Wrangham aggiunge il contributo delle valutazioni dei tempi di masticazione, delle calorie introdotte e del consumo energetico: una madre scimpanzé consuma ca. 1800 calorie al giorno, e mastica per sei ore ca. In pratica, sono 300 calorie all’ora. Un individuo adulto di H. sapiens (stante attività fisica e possibilità di approvvigionamento) dovrebbe consumare ca. 2000 calorie, ma mastica per una sola ora al giorno in totale. Significa aver liberato circa cinque ore al giorno dalla masticazione (ibid.: 156). Nel 2012 Karina Fonseca-Azevedo e Suzana Herculano-Houzel hanno dimostrato che per sostenere il consumo metabolico di un organo come il cervello di H. sapiens sulla base di soli alimenti crudi sarebbe necessario disporre di un numero spropositato di ore da dedicare alla ricerca del cibo e alla masticazione. L’evoluzione lineare del volume cerebrale e del numero di neuroni nei nostri antenati avrebbe quindi beneficiato anche, o soprattutto, dal passaggio a un’alimentazione composta da cibi cotti già dai tempi di H. erectus (Fonseca-Azevedo & Herculano-Houzel 2012). Ovviamente, questo è il punto d’arrivo di un risalente processo graduale di lavorazione del cibo – e poi di cottura – cominciato con le habilines.

Secondo Wrangham, inoltre, la cucina avrebbe anche vincolato i rapporti tra i sessi contribuendo a fissare la subordinazione degli individui di sesso femminile all’interno dei rapporti di coppia di H. sapiens:
«La cottura comportò incredibili benefici dal punto di vista nutritivo, ma per le donne l’avvento della cottura si tradusse in maggior vulnerabilità all’autorità maschile. […] La cottura creò e perpetuò un nuovo sistema di superiorità culturale del maschio» (Wrangham 2011a: 194).
Come ha potuto aver luogo tutto ciò? A seguito di una rassegna antropologico-culturale, Wrangham descrive quello che avrebbe potuto essere un «primitivo racket di protezione» (ibid.: 170), per cui i maschi avrebbero offerto protezione alle donne impegnate nei processi di preparazione del cibo e di cottura da altri maschi, interessati al furto degli alimenti. In quest’ottica, la cooperazione e il controllo dei free-rider si uniscono nel tempo profondo alla vulnerabilità di chi è impegnato a cucinare.
Ancora, l’uso del fuoco come strumento di illuminazione notturna e mezzo di dissuasione contro gli animali può aver vincolato anche la selezione di arti posteriori più lunghi e la perdita della capacità di arrampicarsi e di dormire sugli alberi (come riparo da competitori e da altri animali), sempre a partire da H. erectus (ibid.: 114).

 Indicator "albirostris" (Indicator indicator).
Temminck, C.J. (1838). Nouveau recueil de planches coloriées d'oiseaux: pour servir de suite et de complément aux planches enluminées de Buffon, édition in-folio et in-4⁰ de l'Imprimerie royale. Paris & Strasbourg: F.G. Levrault/Amsterdam: Chez Legras Imbert et Comp. P. 526. Fonte: Wikipedia
Una delle prove più recenti che Wrangham ha aggiunto al novero delle tesi già presentato nella sua monografia verte su un peculiare rapporto ecologico tra un uccello africano, l’indicatore dalla gola nera (Indicator indicator), e H. sapiens. Questo uccello è attratto dai rumori e dalle attività umane, e attira l’attenzione degli abitanti locali per condurli, tramite richiami, fino agli alveari ricchi di miele che ha già individuato in precedenza. Le persone coinvolte fanno poi solitamente evacuare l’alveare attraverso il fumo, e lo aprono per raggiungere il miele e le larve. L’indicatore dalla gola nera può così raggiunge la cera e le api per cibarsene. Ora, si pensa che questo interessante rapporto di coevoluzione abbia interessato l’indicatore e il tasso del miele (Mellivora capensis), e che l’uomo abbia solamente approfittato di questo interazione ecologica stabilitasi nel tempo profondo tra gli altri due taxa.
Wrangham invece sostiene che il partner evolutivo dell’antenato dell’indicatore dalla gola nera sia stato un ominine. Per affermare ciò, l’antropologo si appoggia a recenti studi genetici che, calibrando il tasso di mutazione sulla base del DNA mitocondriale, hanno stabilito che la divergenza tra due specie attuali di indicatore (la prima che nidifica sugli alberi, la seconda a terra) abbia come termine a quo 3 milioni di anni fa ca. (Wrangham 2011b; cfr. Wong 2013). Si tratta ovviamente di una stima e quel peculiare comportamento può essersi fissato anche successivamente, ma nondimeno ciò offre lo spunto a Wrangham per confortare provvisoriamente la sua ipotesi sull’uso del fuoco: anche le antropomorfe sanno che il fuoco si spegne e gli esemplari che sono stati a contatto con l’uomo o in cattività sanno come servirsene e come tenerlo acceso (Wrangham 2011a: 207-208). Inoltre, le antropomorfe preferiscono cibi cotti (ibid.: 105). Non dovrebbe stupire quindi che il fuoco (e il suo prodotto collaterale, il fumo) sia stato sfruttato pur in assenza di una conoscenza diretta della sua produzione, magari già al tempo delle australopitecine, ossia a partire da ca. 3 milioni di anni fa (ibid.: 208-209). D’altra parte, la produzione del fuoco può essere stata attivata proprio a seguito della fabbricazione e l’uso di utensili litici, beneficiando di un processo di trial and error e di implementazione evolutivo-culturale a partire dalla constatazione dei risultati dello sfregamento di pirite (minerale composto da ferro e zolfo) contro selce (ibid.: 209).

Video dal sito ufficiale del documentario The Hadza: Last of the First (2012)

Mancano ancora prove genetiche per sostenere l’adattamento alla cottura alla base dell’ipotesi della relazione evolutiva tra manipolazione del cibo, cottura ed evoluzione della cognizione in Homo. Tuttavia, come ha affermato Wrangham in una recente intervista,
«una questione di grandissimo interesse sarà vedere se riusciremo o meno a trovare nel genoma umano prove di una selezione per geni legati all’uso di cibi cotti. Potrebbero riguardare il metabolismo o il sistema immunitario. O potrebbero riguardare le risposte ai composti di Meillard [la cui presenza è “facilmente riconoscibile nel colore bruno della cotenna di maiale arrostita o nella crosta di pane”; da Wrangham 2011a: 63], che sono sostanze potenzialmente pericolose prodotte durante la cottura» (Wong 2013: 51).
Perdere abitudini parzialmente arboricole per dormire la notte, tenere lontano i competitori e gli altri animali non-umani, influire sulla conformazione di denti e intestini, influenzare il rapporto culturale di subordinazione sessuale e sociale, sfruttare un by-product del fuoco come il fumo per raggiungere cibi altamente energetici come il miele, ottenere cibi più digeribili e più calorici, riduzione dei tempi di masticazione. Secondo Wrangham tutto questo, e altro ancora, avrebbe permesso ai nostri antenati di intraprendere fortuitamente la strada che avrebbe condotto alle attuali capacità cognitive del genere Homo.
Darwin aveva scritto che «La scoperta del fuoco, probabilmente la maggiore mai compiuta dall’uomo, tranne il linguaggio, precede l’alba della storia», e la sua importanza fondamentale starebbe proprio nella capacità di rendere digeribili «radici dure e fibrose» e di far diventare «innocue» erbe velenose (Darwin 1990: 75; cfr. Wrangham 2011a: 140). Secondo Wrangham il legame tra cibo, evoluzione e cognizione sembra essere ancora più profondo e significativo di quanto Darwin abbia immaginato. E questo, a Darwin, sarebbe probabilmente piaciuto moltissimo.
Buon Darwin Day 2014!

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Ehrlich, Paul. (2005). Le nature umane. Geni, Culture e prospettive. Ed. it. a cura di Telmo Pievani, Torino: Codice edizioni (ed. orig. 2000. Human Natures: Genes, Cultures, and the Human Prospect. Washington: Island Press)

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domenica 2 febbraio 2014

Quando il tempo dell'analisi si ferma agli anni Settanta del Novecento. Alcune note critiche su Religion in Human Evolution di Robert N. Bellah (2011)

Bellah, Robert N. (2011). Religion in Human Evolution: From the Paleolithic to the Axial Age. Cambridge-MA: Harvard University Press. Fonte: HUP
ResearchBlogging.org La (ri)lettura di un interessante articolo on line, scritto da Matteo Bortolini (2012) e incentrato sull'ultimo libro di Robert N. Bellah, Religion in Human Evolution: From the Paleolithic to the Axial Age, mi ha spronato a redigere un post a commento dell'opus magnum del sociologo statunitense, pubblicato nel 2011.
L'articolo di Bortolini pone con efficacia e in prospettiva il lavoro di Bellah, ma se l'autore propende per un punto di vista "discontinuista" (tra 'RIHE' con il suo antenato risalente al 1965, Religious Evolution, e la produzione legata alla c.d. "religione civile") io tendo piuttosto a leggere la "continuità" con quella produzione sociologica. Questioni di tempo mi impediscono di dedicare maggiore spazio alle osservazioni che seguono, ma mi fa piacere provare comunque a mettere su un tavolo qualche argomento critico in ordine sparso, ripreso e adattato dalla mia tesi di dottorato. Ad esempio:
  1. Bellah rifiuta la teoria computazionale-rappresentazionale della mente  (Bellah 2011: 632, nota n. 15) e fa affidamento sulla psicologia piagetiana - perché, dato che Piaget è stato scientificamente falsificato negli anni Settanta (per quanto ancora intellettualmente stimolante; Piattelli-Palmarini 1979)?
  2. Nonostante l’interesse nei confronti della cognizione umana e della biologia dimostrato nel suo recente libro, Bellah sembra fraintendere i modelli ai quali dice di appellarsi e afferma di aver «trovato particolarmente inutili [i lavori di] coloro i quali ritengono che la mente sia composta da moduli e che la religione sia spiegata da moduli per il rilevamento di agenti (sovrannaturali)» (benché l’autore ammetta di basarsi su un paio di sintesi altrui e non si sia dato la pena di leggere i testi in questione; Bellah 2011: 629, nota n. 154). Il sociologo quindi rifiuta in blocco la CSR (cognitive science of religion), giustificando la sua posizione con un giudizio di valore in una nota e ripiegando sull'interessante modello cognitivista di Merlin Donald, che però soffre di una serie di problemi non indifferenti;
  3. perché riesumare il concetto te(le)ologico di "età assiale", quando esistono modelli scientifici di evoluzione culturale più sofisticati? (cfr. Bulbulia et al. 2013; Turchin et al. 2013). L’uso stesso del concetto di “età assiale” – con il quale si vorrebbe indicare un periodo avente un fulcro cronologico grosso modo incentrato intorno al 500 a.e.v., durante il quale sarebbero fiorite civiltà e religiosità classiche, in particolare eurasiatiche – istituisce delle teleologie implicite e tende a sminuire le profondissime differenze tra i modelli culturali delle varie società analizzate, creando tassonomie personali in ultima istanza opinabili. Come ha scritto Black (2008: 39): «la tesi assiale coniata da [Karl] Jaspers venne presentata al culmine della Guerra Fredda. Può darsi che parte del suo fascino fosse dovuto a un racconto non materialistico dei cambiamenti storici più significativi. Il suo articolo iniziava con la straordinaria affermazione che “nel mondo occidentale la filosofia della storia è stata fondata sulla fede cristiana”; tale proclama è più comprensibile se inteso come mossa tesa a contrastare le posizioni marxiste. Perchè ignorare Tucidide e Polibio se non per preoccuparsi esclusivamente di una visione della filosofia della storia come spiegazione onnicomprensiva?»;
  4. secondo Bellah l’accettazione del pluralismo religioso nelle indagini accademiche, abbandonando il richiamo alla superiorità di una data tradizione religiosa, dovrebbe rappresentare uno degli obiettivi dell’indagine storico-religiosa (Bellah 2011: 603 ss.). Nel far ciò si richiama esplicitamente al concetto di età assiale (comunque di origine cristocentrica) e al libro di Wilfred Cantwell Smith intiolato Toward a World Theology (1981; cit. in Bellah 2011: 604). Nonostante il lodevole richiamo all’abbandono di posizioni “x-centriche”, si tratta di un atteggiamento che esula dai confini di una disciplina scientifico-accademica, e che in ultima istanza fallisce nel tentativo utopico di “purificare” lo studio delle religioni attraverso la condivisione disciplinare di una sorta di meta/sovrateologia mondiale. Bellah sembra ignorare che la storia delle religioni classica ha giocato (e gioca tuttora) con teologie e teleologie spesso occidentali, ma ora e sempre più anche con altri punti di vista che adottano l’illusorio modus operandi di una superiorità umana nella storia naturale del pianeta. Per dirla con le parole di Donald Wiebe (2005): «Il compito dello studioso di religione, in quanto scienziato, non è quello di creare una buona società. […] [C]on l’infiltrazione dell’ideale dello studioso di religione come intellettuale pubblico […], l’agenda scientifica della ricerca di una conoscenza disinteressata sulla religione e sulle religioni è stata, e continua ad essere, indebolita se non destituita»;
  5. punto che discende direttamente dal precedente, perché propendere aprioristicamente, senza aver valutato lo stato della questione disciplinare e le prove scientifiche in merito (cfr. il punto n° 2) per l'idea che la religione - sic et simpliciter - sia una funzione evolutivamente (e positivamente) adattativa del genere umano (Bellah 2011: 100) – un tema che però è dibattuto e non è accolto in tali termini nel generale consenso cognitivista (che peraltro è del tutto assente nell’opera di Bellah)? Chiaramente, molti aspetti della religione hanno avuto potenziali effetti positivi e pro-sociali sulla cooperazione di Homo sapiens, ma purtroppo qui manca proprio la dimostrazione comparativa, quantitativa e qualitativa di come ciò sia implicato con l'etichetta di "età assiale". Diventa ora palese che quei testi appartenenti alla CSR siano stati ritenuti “inutili” poiché (in quanto perlopiù incentrati sul concetto di religione come prodotto secondario di altre capacità cognitive) non si confanno alle aspettative che Bellah ha per le conclusioni delle sue indagini, già stabilite a priori. Così facendo il sociologo perde una eccellente occasione di confronto critico. Nel frattempo Bellah sceglie di giustificare “scientificamente” (ma non di dimostrare) e di limitare quasi ortogeneticamente a una specifica fase dell'intera storia profonda del genere umano (ossia quella interessata dall'“età assiale”) la «dimensione metasociale» della cosiddetta “religione civile”. Con questa etichetta, teorizzata dallo stesso Bellah nella seconda metà degli anni Sessanta del Novecento (Bellah 1973), si intende «il sistema di credenze e di riti mediante il quale una società sacralizza il suo “essere insieme” e alimenta una pietà collettiva verso il proprio ordinamento» (Willaime 1996: 80);
  6. ultima grande domanda inevasa: come comprendere l'evoluzione culturale (la diversità delle culture umane e animali) senza conoscere o citare alcuna delle scuole scientifiche dedicate all'evoluzione culturale (in ordine sparso e senza pretesa di completezza, Richerson, Boyd, Cavalli Sforza, Feldman, Norenzayan, Atran, Boyer, Whitehouse, ecc.)? Le varianti culturali competono, e così le varianti religiose, ma senza l'uso di strumenti provenienti dallo studio scientifico dell'evoluzione culturale, quale valore accademico possiedono le idee espresse? Un lavoro in parte simile a quello di Bellah è stato condotto in modo divulgativo da Robert Wright (2009), ma chiaramente da un testo in gestazione per decenni da uno dei massimi sociologi del Novecento ci si attende qualcosa di più scientifico. 
Non si può che accogliere con piacere l'immenso e naturale panorama nel quale finalmente Homo sapiens viene inserito (a partire dal Big Bang, come nota giustamente Bortolini), in vista della realizzazione - senza più pregiudizi umanistici - di una consilient third culture (Slingerland & Collard 2012), ma se proprio si vuole comprendere la scala del tempo profondo in modo scientifico, senza cedere alle tentazioni teleologico-umanistiche, allora forse è scientificamente più corretto rivolgersi direttamente alle più aggiornate biologia evoluzionistica e CSR tout court, oppure alla Deep History (Smail 2008) e alla Big History (Christian 2011, pur citato nell'introduzione del volume di Bellah). O forse sono io che avevo aspettative davvero troppo elevate.

Insomma vedo che, proprio come afferma Bortolini nell'articolo linkato in alto, il tempo dell'analisi scientifico-critica di Bellah si è fermato tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, con alcuni sporadici aggiornamenti scientifici e scarsamente omogenei rispetto al resto del volume (si cfr. l'introduzione e le conclusioni con il resto del testo). Lo stesso avviene con il background generale e con la forma mentis evolutiva e progressionista testimoniata dall'impianto del volume di Bellah, e questo è senza dubbio deleterio rispetto al notevole tema trattato nel libro (pubblicato - lo ricordo - nel 2011). Il progresso scientifico nei campi delle neuroscienze, della cognizione e dell'evoluzione ha reso molti assunti dati per scontati nel mondo umanistico superflui o desueti. Come ha scritto Stephen J. Gould in merito alle idee evoluzionistiche di Freud, «viviamo in un mondo di privilegio dove solo i grandissimi pensatori si conquistano il diritto di commettere errori grandissimi» (Gould 2002; trad. it. da Gould 2009: 155). Forse il Bellah scrittore di 'RIHU' è uno di quegli esempi.

Bellah, Robert N. (1964). Religious Evolution. American Sociological Review., 29 (3), 358-374 DOI: 10.2307/2091480

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Bellah, Robert N. (2011). Religion in Human Evolution: From the Paleolithic to the Axial Age. Cambridge, MA-London: The Belknap Press of Harvard University Press

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Bulbulia, J., Geertz, A.W., Atkinson, Q.D., Cohen, E., Evans, N., François, P., Gintis, H., Gray, R.D., Henrich, J., Jordon, F.M., Norenzayan, A., Richerson, P.J., Slingerland, E., Turchin, P., Whitehouse, H., Widlok, T. & Wilson, D.S. (2013). The Cultural Evolution of Religion, in Richerson Peter J. e Morten H. Christiansen (eds.), Cultural Evolution: Society, Technology, Language, and Religion, The MIT Press, Cambridge, MA, pp. 381-404

Christian, David. (2011). Maps of Time: An Introduction to Big History. With a New Preface. Berkeley-Los Angeles-London: University of California Press.

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Piattelli Palmarini, Massimo (1979). Théories du langage, Théories de l’apprentissage. Le débat entre Jean Piaget et Noam Chomsky, organisé et recueilli par M. Piattelli Palmarini. Paris: Éditions du Seuil

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