martedì 11 novembre 2014

Why Religion is Natural and Science Is Not (OUP 2011): tutto quello che avreste voluto sapere ma non avete mai osato chiedere

McCauley, R.N. (2011). Why Religion Is Natural and Science Is Not. Oxford-New York: Oxford University Press.
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Tempo fa avevo presentato qui su Tempi profondi un riassunto delle conclusioni di Why Religion Is Natural and Science Is Not (2011), l'ultimo libro di Robert N. McCauley (William Rand Kenan Jr. University Professor e Director, Center for Mind, Brain, and Culture presso la Emory University). Nel corso del tempo ho avuto modo di esplorare sul blog alcuni argomenti del libro sfruttando temi estemporanei, ma sono sempre rimasto insoddisfatto dal risultato. Il libro meritava di più, e così, a distanza di quasi un anno e mezzo dall'inizio di quella serie, ecco senza alcuna pietà per il lettore un mega-riassunto di tutti i contenuti fondamentali del volume, in sole diciassettemila parole (!). Ora non avete più scuse per dire che dopo l'estate non ho postato più nulla sul blog.
Sono ancora insoddisfatto (anche perché, per motivi di tempo, ho riproposto alcune sezioni tali e quali da note sparse in cartaceo sulla mia scrivania e da altri post precedentemente pubblicati), ma almeno la soluzione proposta permette una più rapida ed efficace ricerca degli argomenti rilevanti in un solo post. Per non appesantire ulteriormente la lettura, gran parte dei riferimenti bibliografici e degli approfondimenti è stata eliminata.
Un ultimo appunto: presento questo riassunto per colmare una lacuna nel panorama editoriale italiano (quando un'edizione italiana?), chiedendo al lettore eventualmente interessato a riportare estratti dal mio post di citare questa pagina come fonte secondo la Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported (trovate le indicazioni sulla sidebar qui a destra). In ogni caso, dato che si tratta pur sempre di un blog e non di una rivista peer-review, faccio comunque notare che non c’è stata né una revisione professionale delle mie bozze né un controllo delle pagine da cui provengono le citazioni originali. Si consiglia pertanto di prendere comunque visione del testo originale (anche solo dando un'occhiata su Google Books)!

Buona lettura!



1. Cognizione naturale e naturalità maturativa

«La gente conosce molto più di quanto non immagini» (15) è l’incipit che indica la direzione adottata e l’intento riassuntivo dell’Introduzione e dei primi due capitoli, incentrati sui fondamenti della cognizione naturale. Quest’ultima rappresenta una conoscenza tanto ovvia e intuitiva da risultare «trasparente» e «invisibile» (ibidem). Grazie ad essa è possibile dedurre e interpretare immediatamente gli stati emotivi delle altre persone a partire da una rapida occhiata alla loro postura o dall’espressione del volto, ed è per effetto di tale conoscenza se allunghiamo la mano verso il bicchiere che sta per rotolare giù dal tavolo, senza che si debba articolare alcunché riguardo alla gravità o alle forze fisiche in gioco (14-15). In breve, «quanto più un pensiero ci appare (presumibilmente) sensato e trasparente, e quanto più elaborato e in modo rapido viene in mente un giudizio, tanto più naturale è la cognizione coinvolta. Al contrario, le congetture che approviamo solamente dopo aver passato un po’ di tempo a riflettervi sopra e ponderando con attenzione le evidenze a favore e a sfavore sono comparativamente innaturali. La cognizione naturale è, in pratica, ciò che ci viene in mente con facilità e che pertanto richiede uno sforzo minimo o nullo» (13). Questa tipologia di conoscenza non è sempre affidabile (ad esempio, le interpretazioni di meccanica intuitiva, come la traiettoria di un proiettile, sono spesso e perlopiù errate), e in genere ci si accorge di essa solamente quando intervengono delle violazioni in merito alle nostre aspettative.

Esistono due tipologie di cognizione: una è naturale, ossia «concernente le parti sotterranee della vita mentale composte da un pensiero perlopiù immediato, inconscio, agevole, intuitivo – e i cui contenuti e origine si dimostrano spesso ardui da esplicitare» (ibidem) da parte del soggetto, mentre la seconda è tipica del pensiero «più lento, conscio, faticoso, riflessivo» (4). A sua volta la cognizione naturale si suddivide in naturalità praticata (practiced naturalness) e naturalità maturativa (maturational natural cognition). La prima è una vasta esperienza in un qualche dominio, ovvero l’esperienza accumulata in un dato campo da cui consegue la capacità di fornire un giudizio rapidamente (ad esempio, chi è impiegato nell’edilizia e può decidere in breve tempo quale materiale utilizzare in un data struttura; 5). La naturalità maturativa è invece un pensiero immediato, intuitivo, che viene in mente in modo inaspettato quando si ha a che fare con ambiti nei quali non abbiamo esperienza o per i quali non abbiamo istruzioni valide per orientarci; ad esempio, come esprimere qualcosa nella madrelingua che però non si è mai sentito prima, conoscere lo stato emotivo di chi ci sta di fronte osservando solamente e di sfuggita l’espressioni del viso oppure le conseguenze del contatto anche minimo con agenti ritenuti contaminanti nei bambini in età scolare (ibidem).

Un confronto comparativo può aiutare a comprendere meglio questo punto. Masticare e camminare – al contrario di scrivere e andare in bicicletta – sono capacità cognitive maturative e condividono le seguenti caratteristiche:
  1. sono state acquisite nella primissima infanzia e il ricordo del loro conseguimento di norma non permane;
  2. non sono associate ad alcun uso di artefatti;
  3. non richiedono una strutturazione cosciente dell’insegnamento da impartire da parte degli adulti;
  4. non dipendono da particolari culturali (22).
Si tratta in genere di caratteristiche che non sono state inventate da nessuno (e pertanto non vanno “apprese” nel senso comune del termine) e che spesso condividiamo, pur con i dovuti distinguo, con gli altri vertebrati*. Invece, un diverso tipo di impegno, di concentrazione e, soprattutto, di pratica contraddistingue altre attività, come l’apprendimento della scrittura o l’abilità di andare in bicicletta. Per l’apprendimento di queste ultime è necessario inoltre disporre di assistenza e avere accesso ad alcuni artefatti. Ciò nonostante, al termine del periodo di apprendimento la capacità acquisita sarà tanto assimilata da sembrare innata (24).
*: Tra le eccezioni peculiari di Homo sapiens  ci sarebbe il modello genitoriale umano di base, tale per cui un intenso contatto vis-à-vis viene mantenuto per lunghi periodi di tempo, rispondendo alle emozioni del neonato con determinate espressioni facciali ed emettendo suoni articolati secondo i pattern tipici che imitano il ritmo di una conversazione (i nostri parenti filogenetici più prossimi non sembrano invece indulgere troppo nel contatto visivo; 23). 
Per quanto riguarda il ruolo della cultura, l’infiltrazione culturale non ha alcuna conseguenza sull’acquisizione delle capacità maturative ma si limita a modulare e a fornire a queste ultime caratteristiche specifiche (26). I diversi tipi di linguaggio diffusi nel mondo intero, ad esempio, non hanno alcun impatto differenziale nello sviluppo dell’acquisizione del linguaggio in quanto capacità maturativa, che segue invece pattern comuni e spontanei in qualunque cultura umana (ibidem).

Tale quadro generale sembra offrire sostegno alla tesi di Patricia Churchland secondo la quale «i principi architetturali e operazionali che governano i sistemi e i processi deputati alla gestione dei movimenti del corpo ancorano anche il conseguimento delle capacità cognitive» (29-30). Le conseguenze di ciò per le forme naturali e maturative di conoscenza sarebbero le seguenti:
  1. la maggior parte di esse deve emergere assai presto durante l’ontogenesi dell’individuo;
  2. affrontano alcune azioni basilari dell’esistenza (come masticare e camminare);
  3. sono onnipresenti nelle popolazioni umane e la loro comparsa fa parte del normale sviluppo dell’individuo (30).
Esistono inoltre due caratteristiche che definiscono, secondo McCauley, la cognizione in generale: essa è incarnata ed innestata (nell’ambiente). Seguendo gli spunti offerti da Patricia Churchland in Neurophilosophy (The MIT Press, 1986), McCauley ricorda innanzitutto che le sofisticate forme di cognizione animale (delle quali quella umana rappresenta solamente un sottoinsieme), «hanno le loro radici nei sistemi e nei processi che consentono agli animali di muoversi in ambienti irregolari e spesso pericolosi» (17), sottoposte al vaglio dell’evoluzione nei tempi profondi del pianeta Terra. Tale suggestione è stata successivamente elaborata secondo due indirizzi fondamentali. Secondo il primo, la cognizione è incarnata (embodied cognition): «per comprendere come funziona la mente occorre riconoscere che ogni tipo di capacità mentale, compresa la nostra, è incarnata nei sistemi materiali e che la nostra esperienza corporale modella le nostre idee». La seconda estensione al modello ricordato riguarda il fatto che, operando in contesti multiformi e differenti dall’ambiente circostante, la cognizione si trova ad essere, letteralmente, innestata e compresa in questi ultimi (embedded cognition; 18). La costruzione e manipolazione di utensili e la trasformazione dell’ambiente (caratteristiche peraltro condivise con altri animali) suggeriscono il fatto che «imponendo strutture codificate simbolicamente sugli oggetti presenti nell’ambiente concediamo loro un ruolo essenziale all’interno del nostro processo cognitivo e, pertanto, trasformiamo questi elementi in duraturi accessori cognitivi» (ibidem). L’esternalizzazione della memoria (evidente nella produzione scritta, di qualunque tipo essa sia) si avvale dunque di vere e proprie protesi mnemoniche che diventano parte essenziale del processo cognitivo – e non più solo elementi opzionali: «come ha notato Matthew Day [“Religion, Off-Line Cognition and the Extended Mind”. Journal of Cognition and Culture (4) 2004: 101-121], le soluzioni di molti problemi potrebbero, quasi letteralmente, essere impensabili senza di esse» (ibidem). Allo stesso modo dell’ambiente fisico, l’ambiente sociale umano ha richiesto una suddivisione del lavoro cognitivo – migliaia di anni prima che venisse istituzionalizzata la produzione scritta con l’istituzione di un mercato editoriale – allo scopo di «garantire la distribuzione del problem solving, della conoscenza e della responsabilità»; si pensi all’interazione tra reti sociali e fisico-naturali (evidente nella gestione dell’agricoltura) che ha modellato i sistemi dinamici complessi «capaci di fornire soluzioni a problemi cognitivi tanto grandi che nessun individuo o gruppo di individui avrebbe mai potuto comprendere o gestire» (20).

Il secondo capitolo è interamente dedicato alla naturalità maturativa. Si comincia ricordando il peso delle illusioni nel sistema percettivo, facendo riferimento alla psicologia ecologica di James Gibson, secondo cui il sistema percettivo opera in un contesto inscindibile dal contesto ambientale e dal movimento (34). Da un tale punto di vista le illusioni percettive hanno luogo quando ci si trova ad operare in schemi innaturali, quindi le illusioni visive possono essere cancellate cambiando la prospettiva. Si consideri ad esempio la tripla illusione di Poggendorff. Se si osserva la figura più sottile e scura, i segmenti che la compongono appaiono allineati in un’unica linea. Basta ruotare la figura per accorgersi che, ad un tratto, i segmenti non sono allineati (35): il nostro sistema percettivo elabora oggetti da parte di un soggetto che si muove in un contesto e che, in virtù di ciò, può fornire differenti prospettive sugli oggetti che vede alla propria elaborazione. Le tecnologie che sfidano il nostro sistema percettivo sono perlopiù recenti – si pensi ai mezzi di trasporto attuali e alle deduzioni fallaci, per esempio, durante i casi di movimento relativo tipici dei viaggi in treno, quando sembra di essere in movimento mentre si osserva, a vettura immobile, un altro treno muoversi di fianco – e ci pongono di fronte a situazioni che possono ingannarci, attraverso l’uso di meccanismi talvolta «specificamente progettati per sfruttare la nostra suscettibilità alle illusioni percettive» (36) – come avviene durante le proiezioni nelle sale cinematografiche.

Esiste però una tipologia di illusioni che è refrattaria alla risoluzione dell’inganno visivo (a meno di non chiudere gli occhi). In questo caso particolare, le illusioni percettive «nascono dalle operazioni dei sistemi percettivi naturalmente maturativi» (37) che operano al di sotto della coscienza (44). Le caratteristiche di tali illusioni sono le seguenti:
  1. sono prontamente riproducibili;
  2. chiunque può farne esperienza (stante una capacità percettiva nella norma);
  3. esse persistono, poiché anche sapendo perché e in quale modo, esse vengono realizzate non si possono eludere (39). Si pensi, ad esempio, alla forse più celebre illusione di Müller-Lyer, ove la presenza di frecce (ossia, angoli acuti o ottusi) rivolte verso l’esterno o verso l’interno (ovvero, a circa 45° e 135°), poste a ciascuna estremità di due segmenti appaiati, determina la percezione di maggiore o minore brevità degli stessi segmenti, nonostante l’osservatore sappia che in entrambi i casi la lunghezza è la medesima (42).
La descrizione delineata finora dei sistemi maturativamente naturali si avvicina molto ai moduli mentali ipotizzati da Jerry Fodor, asse portante della teoria computazionale-rappresentazionale della mente (45). I moduli fodoriani sono meccanismi computazionali (input systems) che elaborano le informazioni provenienti dai sistemi percettivi (visivo, uditivo, olfattivo, ecc.). Tali sistemi forniscono le informazioni ai processi cognitivi centrali, i quali sono invece preposti al ragionamento e ad altri tipi di analisi più o meno raffinata. Le caratteristiche che secondo Fodor contraddistinguono i moduli mentali in quanto sistemi di elaborazione di input le trovate presso questo post (nel libro di McCauley: 44-49).

Il modello fodoriano originario, eccessivamente rigido e non esente da problemi, è stato successivamente modificato e aggiornato sulla base dell’accumulo di evidenze provenienti dal campo della psicologia sperimentale (50). McCauley fa riferimento alla concezione di una modularità più aperta proposta da Clark Barrett e Robert Kurzban nel 2006 (in “Modularity in Cognition”. Psychological Review (113) 2006: 628-647) per fronteggiare alcuni dei problemi incontrati dal modello fodoriano classico. Innanzitutto, seguendo la formulazione dei due autori, non è detto che un modulo debba manifestare contemporaneamente tutte le nove caratteristiche elencate da Fodor. I due autori fanno poi appello a Dan Sperber, un altro dei pionieri delle scienze cognitive, e ritengono che non si possa escludere che i sistemi cognitivi centrali siano anch’essi specifici per dominio (mentre nel sistema fodoriano, lo ricordiamo, i sistemi cognitivi centrali non sono modulari; 51). Il modello che sostengono, la “specializzazione funzionale” (functional specialization), rifiuta l’annoso dibattito sull’innatismo dei moduli, e si basa su una serie di sistemi specifici per dominio che hanno a che fare con problemi caratteristici e ricorrenti e con input distintivi. Riprendendo l’efficace sintesi di McCauley, la prospettiva che Barrett e Kurzban sostengono si radica su una «“posizione interazionista che include come fattori causali geni, ambiente, interazioni con l’ambiente e processi di auto-organizzazione […]” che insieme producono ciò che essi definiscono come “sviluppo affidabile”. Lo sviluppo affidabile di un sistema centrale modulare, quindi, non richiede che la sua struttura fisica debba essere specifica, localizzata spazialmente, o identica tra individui differenti. Ciò che conta è che questo “presenterà una specializzazione nell’elaborazione di determinate tipologie di informazioni in determinate modalità”, ossia una specializzazione funzionale rilevante» (52).

Una simile concezione abbraccia l’idea della modularità massiva, ossia il fatto che «la mente, come un coltellino svizzero, contiene un assortimento di strumenti adatti a scopi speciali, che possono lavorare in modo relativamente indipendente l’uno dall’altro e che, se assolutamente necessario, possono essere utilizzati per affrontare problemi per i quali non sono stati progettati» (ibidem). Il modello della modularità massiva, che rifiuta la tesi fodoriana per cui la modularità si limiterebbe ai soli meccanismi periferici come la vista, è stata adottata in particolare dagli psicologi evoluzionisti, i quali hanno proposto che una gran parte (o la totalità, a seconda dell’interpretazione) dei sistemi di elaborazione di informazioni potrebbe essere di fatto modulare, ciascuno elaborato nei tempi profondi dell’evoluzione per risolvere problemi ricorrenti, «dalla scelta del partner, all’uso di utensili, al riconoscimento delle emozioni dall’espressione del viso» (53).

Dato che l’evoluzione non può assolutamente raggiungere alcuna perfezione (ammettendo l’esistenza stessa di una perfezione solo a livello teorico), ma si limita al medio termine ad «assicurare un piano complessivo degli organismi che sia abbastanza buono da produrre una successiva generazione nell’ambiente nel quale la specie si è evoluta», è chiaro che «i relativi sistemi cognitivi e percettivi non siano soluzioni ottimali ai problemi che affrontano», ma semplicemente «soluzioni abbastanza buone» (ibidem; ovviamente tale modello si applica anche agli altri animali non-umani, 58). Un modulo mentale, in quest’ottica, possiede una potenzialità adattativa (ossia che rende un organismo più adatto al suo ambiente) in funzione dell’ambiente nel quale tale modulo opera. Dato che secondo gli psicologi evoluzionisti «la selezione naturale agisce sugli output comportamentali, e non sui sistemi cognitivi responsabili di tali comportamenti» (53), in ambienti non consoni i sistemi possono condurre a errori dalle conseguenze più o meno gravi. McCauley fa l’esempio della predisposizione al consumo di cibi ricchi di zuccheri o grassi, utile in un ambiente dove è vantaggioso poter consumare cibi fortemente energetici quando si presenta l’occasione; oggi però questa inclinazione ha condotto alla pandemia di malattie tipiche dei paesi industrializzati quali obesità e diabete. In questo senso, continua McCauley, «i dolcificanti e i sostituti dei grassi agiscono come le proiezioni nelle sale cinematografiche», ossia creando illusioni che dimostrano di poter essere elaborate allo stesso modo dei prodotti che sostituiscono e che, pertanto, mettono in azione le operazioni dei sistemi predisposti, ossia le emozioni positive e il piacere legati al consumo di tali prodotti (54).

Secondo McCauley, la psicologia evoluzionista che ha adottato il criterio della modularità massiva differirebbe sia dalla sociobiologia (perché le spiegazioni del comportamento umano che fanno esclusivo riferimento all’evoluzione biologica non sono sufficienti), sia dalle scienze sociali (perché le spiegazioni che fanno esclusivo riferimento alla trasmissione culturale non prendono in considerazione i meccanismi psicologici specializzati; 54-55). In particolare, ciò che viene solitamente ignorato sono i «pattern ricorrenti nelle diverse culture le cui forme dipendono sostanzialmente dalle disposizioni evolute della mente umana» (55), un concetto noto come “cultura evocata” (evoked culture) secondo la sistematizzazione offerta da Leda Cosmides e John Tooby nel loro contributo intitolato Origins of Domain Specificity: The Evolution of Functional Organization (1994). Ora, il modo in cui si possono testare le ipotesi degli psicologi evoluzionisti in merito all’organizzazione della mente è quello di cercare le eventuali conferme sperimentalmente, a partire dalle «caratteristiche delle performance cognitive umane» (55) e dai pattern ricorrenti della cultura evocata.

Di conseguenza, McCauley riporta una serie di esperimenti fondamentali nella storia recente dello studio della cognizione umana. Si comincia con il compito di selezione di Wason (1966), ove il soggetto sottoposto all’esperimento deve indicare quale carte girare allo scopo di accertare la seguente regola: «se una carta ha una vocale su un lato, allora ha un numero pari sull’altro» (56). La grande maggioranza dei soggetti sottoposti a svariate sessioni di questo esperimento (percentuali comprese tra 70% e 80%) non gira solitamente le carte necessarie per la risoluzione del compito assegnato (dato che occorre verificare i casi in cui l’antecedente è vero ma il conseguente è falso, le carte corrette da controllare sono la “a” perché occorre stabilire che non rechi un numero dispari sull’altro lato e la “3” per accertare che non rechi una vocale sull’altro lato, invalidando l’enunciato iniziale). Cosmides e Tooby hanno dimostrato però che modificando il problema logico del compito di selezione secondo canoni consoni ad un ambiente sociale non astratto (McCauley riporta come test un contratto sociale che stabilisce la soglia dei vent’anni per il consumo di alcolici, ma sempre condotto tramite quattro carte), le percentuali di errore dei partecipanti scendevano al 20%-30%. Ciò dimostra che, lungi dal fornire una verifica perfetta dei modelli psicologico-evoluzionisti, «la riflessione sui processi evolutivi a lungo termine può ispirare modelli nuovi e provocatori sulla moderna mente umana che hanno conseguenze sperimentalmente testabili e che si riallacciano direttamente ai lavori di vecchia data della psicologia cognitiva» (57).

Il filo conduttore dei successivi esperimenti riportati da McCauley riguarda invece il problema dell’innatismo nei neonati e nei bambini. I modelli di indagine riportati da McCauley si rifanno sostanzialmente a due tecniche: lo sguardo preferenziale (preferential looking), per cui si osserva il tempo di reazione del bambino di fronte a due stimoli specifici (in assenza di stimoli dotati di un qualche pattern che riveste un certo interesse, come i volti umani, il bambino tende a soffermarsi maggiormente sullo stimolo che viola le aspettative) e la tecnica dell’abituazione (o familiarizzazione), ove si presenta ripetutamente al bambino una situazione che non presenta problemi interpretativi particolari fintantoché il soggetto, abituatosi, non riduce l’attenzione nei confronti dell’evento al quale assiste. A questo punto gli sperimentatori sottopongono al bambino una nuova scena che presenta nuovi stimoli e caratteristiche particolari.

Seguendo il secondo metodo, un esperimento condotto da Elizabeth Spelke e le sue colleghe in un articolo datato 1992 e intitolato Origins of Knowledge, ha dimostrato che i bambini di quattro mesi possiedono un interesse spiccato nei confronti della violazione del principio di solidità degli oggetti. L’esperimento prevedeva che fosse presentata al soggetto la seguente sequenza di eventi: una pallina viene fatta cadere al di sopra di un ostacolo visivo per colpire una superficie sottostante. Dopo due secondi la barriera che ostacolava la vista viene alzata per mostrare la pallina sulla superficie. Dopo l’abituazione del soggetto allo stimolo visivo, viene mostrata una delle due nuove scene: nella prima la pallina viene fatta cadere e dopo la rimozione della copertura si palesa la caduta del giocattolo sul piano del tavolo; nel secondo caso, invece, la rimozione della barriera visiva rivela il caso impossibile di una pallina caduta sulla superficie sottostante il tavolino (come nel primo caso senza tavolino). Il secondo caso crea così l’illusione di un attraversamento fisico del tavolino da parte della pallina. Ora, i bambini hanno dimostrato una maggiore attenzione visiva nei confronti del caso impossibile. Un secondo esperimento dell’équipe di Spelke parte dalla medesima situazione finale prevista dal primo test descritto (la pallina cade sul piano di un tavolo); superata la soglia dell’abituazione, la nuova scena prevede la caduta della pallina sulla superficie sottostante (stante la rimozione del tavolino prima che il sipario venga sollevato), mentre la situazione impossibile prevede che la pallina si fermi esattamente come se fosse sul tavolino, senza però la presenza fisica del tavolino (dando così l’illusione di una sospensione a mezz’aria). I risultati di questo secondo caso sono stati i seguenti: il tempo di osservazione dello stimolo impossibile non è superiore al tempo di osservazione dello stimolo iniziale; i bambini di quattro mesi sono dunque piuttosto indifferenti ai concetti di gravità e di inerzia (65). I bambini di sei mesi di età, invece, osservano significativamente più a lungo la condizione impossibile della pallina sospesa (66). Sulla base di questi risultati, Spelke e i suoi colleghi hanno stabilito l’innatezza di principi (riguardo a coesione, contatto e continuità) e di vari vincoli fisici (continuità e solidità).

A complicare la questione interviene però l’esistenza di una curva di apprendimento a U (U-shaped learning curve), che stabilisce che i bambini di una certa età siano in grado di eseguire un certo compito, in un’età successiva non riescano a portarlo a termine, mentre sarebbero nuovamente in grado di risolvere il compito in un’età ancora successiva. Annette Karmiloff-Smith, nella sua opera intiolata Beyond Modularity (The MIT Press, 1992), ha definito tale curva come “ridescrizione rappresentazionale” (representational redescription), ossia «una serie di cambiamenti sistematici in merito alle rappresentazioni mentali dei bambini, a prescindere dal dominio» (67). In questo schema sono previste tre fasi successive:
  1. in un test riguardante i principi dell’equilibrio è necessario mettere in equilibrio e in pila alcune forme geometriche (avendo a che fare con forme differenti che talvolta, essendo asimmetriche, non possono essere poste in equilibrio facendo affidamento sul centro di gravità: il centro di gravità non cade sempre nel centro della lunghezza geometrica dell’oggetto): i bambini di quattro anni dimostrano di trattare ogni cubo (anche se di forma uguale al precedente) come un nuovo compito a sé stante. Procedono dunque formulando ogni singola volta rappresentazioni implicite alle quali non hanno accesso cosciente (68);
  2. La seconda fase vede il formarsi di rappresentazioni generali, basate sulla raccolta di meta-rappresentazioni implicite collezionate durante la prima fase. In questa fase i bambini non hanno però ancora accesso cosciente alle nuove rappresentazioni; i bambini di sei anni procedono nel test dell’equilibrio poggiando ciascun cubo sulla scorta del principio generale per cui il cubo va posto in equilibrio secondo il suo baricentro. È un principio che funziona fintantoché si ha a che fare con cubi simmetrici; non facendo più affidamento su un processo empirico per tentativi, i soggetti di quest’età persistono invano nel posizionare il cubo asimmetrico dove secondo loro cadrebbe il baricentro, prima di abbandonare del tutto il compito (ibidem);
  3. A otto anni i bambini possiedono la capacità di posizionare i blocchi secondo il loro baricentro, che funziona solo con i cubi simmetrici, e possono bilanciare il posizionamento dei blocchi asimmetrici secondo una sistemazione empirica. I soggetti hanno adottato quindi delle teorie esplicite, accessibili coscientemente (esiste anche un quarto caso, riguardante la possibilità dei soggetti di articolare verbalmente i contenuti delle proprie rappresentazioni coscienti, ma alcuni la acquisiscono più tardi, mentre altri non la acquisiscono; come sottolinea McCauley: «l’incapacità di articolare cose che conosciamo molto bene spiega perché molti grandi atleti non possono allenare e perché alcuni dei più grandi artisti non possono insegnare»; 69).
Il caso studiato da Karmiloff-Smith dimostra che «i pattern dello sviluppo cognitivo sfuggono a spiegazioni eccessivamente semplici, specie se si focalizzano [esclusivamente] sull’innatezza o sull’apprendimento» (71). Si ritorna quindi alle capacità maturativamente naturali e alle capacità cardinali come riconoscere i volti e biascicare o mormorare parole comprensibili; i bambini dimostrano di possedere queste capacità che sfuggono anch’esse alle griglie dell’innatezza o dell’apprendimento (73).

Queste ultime capacità rientrano invece nel quadro più generale della teoria delle mente (theory of mind, o ToM), ossia il riconoscimento che gli altri esseri umani possiedono intenzioni e stati mentali, e che perciò possono crearsi delle rappresentazioni di quelle intenzioni (ibidem). Intorno ai nove mesi di età, i bambini riconoscono le azioni che hanno uno scopo, e smettono di guardare la mano e il dito di colei/colui che indica per concentrarsi su ciò che è indicato; pochi mesi più tardi, anch’essi iniziano a indicare per attirare l’attenzione di chi sta loro intorno. Entro un anno di età diventano consci del fatto che altri esseri umani hanno delle rappresentazioni mentali in merito alle intenzioni, ossia desideri e credenze, iniziano attività cooperative e possono comprendere le intenzioni comunicative degli altri. Sono tutti passaggi essenziali per riuscire a porre in essere i legami tra rappresentazioni mentali, il linguaggio e il mondo (78). Ad ogni modo, a quest’età, i bambini non riescono ancora ad eseguire il compito della cosiddetta “falsa credenza” (false believe task). Nell’esempio riportato da McCauley, i bambini vedono Maxi che a sua volta vede dove è stato posizionato del cioccolato. Maxi esce dalla stanza e qualcuno a sua insaputa nasconde il cioccolato. I bambini cui viene domandato dove Maxi cercherà il cioccolato al suo ritorno, questi rispondono che lo troverà nel secondo luogo (cfr. Heinz, W. & J. Perner. 1983. “Beliefs about Beliefs: Representation and Constraining Function of Wrong Beliefs in Young Children’s Understanding of Deception”. Cognition (13) 1: 103-128). I bambini non iniziano a risolvere questo compito prima dei quattro o cinque anni (78-79; un esperimento condotto attraverso una formulazione non verbale del compito della falsa credenza, grazie alla tecnica dell’abituazione, ha dimostrato che i bambini di quindici mesi possiedono una certa comprensione delle false credenze altrui; come scrive McCauley, «è possibile che le richieste verbali delle varie forme del compito della falsa credenza a cui sono sottoposti i bambini più grandi costituisca un particolare ostacolo nell’elaborazione»; 79).

Nel periodo compreso all’incirca tra i nove mesi o un anno di età e i sei anni, i bambini cominciano a fare uso di ciò che Daniel C. Dennett definisce come “atteggiamento intenzionale” (intentional stance) nei confronti dei soggetti agenti, ossia trattandoli come «se possedessero non solo obiettivi ma vite mentali e rappresentazioni mentali proprie» (80). Questo è il momento cardine dello sviluppo della cognizione del bambino in età scolare – e del futuro adulto: «Acquisire esperienza sociale e assorbire l’imponente materiale narrativo (storie, miti, opere teatrali, romanzi e così via), che saturano gli spazi culturali umani, sono attività che forniscono ampie basi per elaborare, estendere ed abbellire la teoria delle mente dei bambini» (80). Eppure, la teoria delle mente non è un sistema nemmeno lontanamente perfetto. Deborah Kelemen ha documentato la propensione dei bambini nei confronti di ciò che definito come “teleologia promiscua” (promiscuous teleology), ossia «l’attribuzione eccessiva di funzioni ad oggetti inanimati [ad esempio, entità biologiche o oggetti naturali, come tigri e montagne] come risultato della loro nuova capacità e della crescente esperienza con agenti determinati nel perseguire azioni diretti ad uno scopo» (ibidem). Anche gli adulti talvolta si sentono obbligati ad attribuire stati intenzionali ad oggetti inanimati, ad esempio un computer o un automobile in panne, quasi come se far ciò possa in qualche modo compensare la frustrazione nelle situazioni descritte. Gli adulti, rispetto ai bambini che in generale sanno di fingere, non sembrano accorgersi coscientemente di tali situazioni. Il motivo storicamente profondo che gli psicologi evoluzionisti hanno adottato per spiegare queste attribuzioni di intenzionalità è il seguente: «fintantoché i costi dei falsi positivi [ossia, un falso allarme che si rivela innocuo] non sono troppo alti, è conveniente possedere un sistema di rilevamento di agenti che entri in azione con facilità. In un ambiente ostile e competitivo […] il costo dei segnali falsi negativi [ossia, una scelta sbagliata che porta a rifiutare l’allarme iniziale] è elevato in un modo proibitivo» (81-82): la scelta errata basata sull’interpretazione del movimento tra la vegetazione come il prodotto del vento, invece di un predatore, può essere esiziale. Per tali motivi, un sistema iperattivo di rilevamento di agenti (hypersensitive agency detection device, o HADD), è più efficace nella sopravvivenza degli animali di un sistema che invece tende a scartare i potenziali falsi allarmi. Questo sistema modella costantemente il mondo sociale degli esseri umani e fa sì che le categorie della causalità degli agenti vengano immediatamente e inconsciamente allo scoperto ogniqualvolta «si sente qualcosa che spaventa (un intruso?) o quando un evento inaspettato ha luogo nel mezzo della complessa macchina sociale (una cospirazione?)» (82).

In definitiva, i sistemi cognitivi maturativamente naturali degli esseri umani rendono questi ultimi particolarmente inclini a «produrre, conservare, utilizzare e trasmettere rappresentazioni religiose» (ibidem) e, viceversa, rappresentano un ostacolo nei confronti delle spiegazioni alternative (e più precise) della realtà. Il modo in cui ciò avviene è il tema delle seguenti sezioni del libro.

2. Scienza innaturale

La prima grande distinzione che McCauley opera sulla scorta di Lewis Wolpert (The Unnatural Nature of Science, Harvard University Press, 1992) è quella tra scienza e tecnologia. McCauley si pone il compito di separare «la teoria e i metodi scientifici e altri strumenti astratti, ad esempio la matematica e la logica formale, dalla tecnologia materiale, sia essa costituita da artefatti o dalla ristrutturazione dell’ambiente. Qualsiasi cultura possiede una qualche forma di tecnologia materiale, magari anche solo limitata a vestiario, ripari e strumenti rozzi» (88), mentre la scienza, nonostante sia «un’impresa sistematica e continua che non ha eguali per la spiegazione del mondo empirico» (ibidem), è un’attività rara. L’autore cita una frase di John Gribbin: «“la tecnologia precede la scienza poiché è possibile creare macchine per tentativi senza comprendere appieno i principi grazie ai quali esse agiscono. Ciò nonostante, una volta che scienza e tecnologia vengono appaiate, il progresso può veramente decollare”» (89; cit. da Science: A History. London: Penguin 2003: xx), ossia stabilendo un rapporto di reciprocità diretta tra nuove scoperte scientifiche e applicazioni tecnologiche, e viceversa. Come chiosa McCauley, «la tecnologia è una condizione necessaria per la scienza, ma da ciò non segue che qualunque caratteristica della scienza dipenda dalla tecnologia» (ibidem).

Quali sono dunque le basi cognitive per stabilire questa distinzione e per sottolineare l’indipendenza della tecnologia dalla scienza? McCauley articola una duplice risposta che tiene conto sia del lato storico sia di quello afferente alla storia naturale. Per quanto riguarda i dati storici, vigono due osservazioni:
  • 1. la rarità comparativa della scienza nella storia: nel corso della storia umana la scienza assai di rado ha avuto importanza o rilevanza tali da poter esercitare una qualche influenza sulla produzione tecnologica. Secondo criteri restrittivi, solamente gli antichi Greci e la scienza moderna degli ultimi quattro secoli si possono considerare come ricerca scientifica. Anche adottando il punto di vista più clemente e inclusivo, l’attività scientifica organizzata, continua e coscientemente perseguita caratterizzerebbe solamente le seguenti civiltà (e non per tutta la loro durata):
  • 1.1. le conoscenze astronomiche e la relativa documentazione prodotta dalle antiche civiltà dei Cinesi, dei Babilonesi, degli Egizi e dei Maya;
  • 1.2. i Greci antichi;
  • 1.3. alcuni segmenti delle società islamiche e cinesi nel corso di un periodo che va dagli ultimi secoli del primo millennio al Medio Evo;
  • 1.4. gli Europei nel XVI e XVII secolo e.v., i cui lavori ispirarono la nascita della scienza moderna (90);
  • 2. l’ubiquità della tecnologia a partire dalla preistoria, precedendo la ricerca sistematica della scienza di più di 100.000 anni rispetto al caso di cui al precedente punto 1.1., e di un paio di milioni di anni dai nostri più vicini parenti filogenetici (91).
Due punti decisivi per l’argomentazione di McCauley emergono dalla storia naturale e dal tempo profondo:

  1. oltre a Homo sapiens, una mezza dozzina di specie ominine ad oggi note ha prodotto e utilizzato utensili; tra queste H. neanderthalensis, estintosi circa 30.000 anni fa. In questo senso vale la pena citare la concezione di Steven Mithen esposta in The Prehistory of the Mind (1996) che sposa la ridescrizione rappresentazionale di Karmiloff-Smith e rifiuta l’incapsulamento rigido originariamente proposto da Fodor. Secondo tale tesi, le capacità modulari negli ominini nostri antenati non sarebbero state limitate ai sistemi di input; la peculiarità della cognizione di H. sapiens sussisterebbe piuttosto in una rottura delle barriere tra moduli incapsulati e in una “fluidità cognitiva” (cognitive fluidity) tra diversi moduli mentali. Il risultato è la produzione di capacità meta-rappresentazionali, per cui diventa possibile «produrre, ad esempio, rappresentazioni linguistiche di rappresentazioni tecniche» (92). In questo quadro, il “coltellino svizzero” mentale della modularità massiva ipotizzata da Cosmides e Tooby diventa appannaggio non tanto della nostra mente, quanto di quella dei nostri antenati, prima della fluidità cognitiva. Pertanto, mentre l’origine delle capacità tecniche è cognitivamente naturale, «l’originalità teorica della scienza risiede nelle capacità umane di scoprire metafore e analogie che possono sorgere da qualunque aspetto della conoscenza» (93); il prerequisito basilare per fare ciò, secondo Mithen, sarebbe la fluidità cognitiva;
  2. la costruzione di artefatti e strumenti non è una caratteristica peculiare di H. sapiens; una letteratura in crescita esponenziale ha documentato a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso la costruzione di utensili non solo nelle antropomorfe, ma ad esempio anche negli uccelli (94). Ciò espande le teorizzazioni sulla mente estesa e innestata nell’ambiente all’intero mondo animale.

Una successiva spiegazione dicotomica sintetizza le differenze della scienza rispetto ad altre attività cognitive. Innanzitutto, rispetto alla tecnologia, la continuità della scienza dipende in massima parte dall’alfabetizzazione. Per quanto la nascita della scienza non dipese da fattori esterni, la capacità di leggere e scrivere si è rivelata fondamentale: i simboli scritti (lettere, numeri, formule, osservazioni, ecc.) sono memorizzabili, diventano un ausilio indispensabile per pensare (si può immaginare di svolgere una complessa operazione matematica senza un foglio di carta?), persistono nel tempo, possono essere trasportati nel tempo e nello spazio e acquistano un’esistenza indipendente rispetto alla vita dei loro creatori (94-95). McCauley segue quanto elaborato da Karl Popper nel suo Objective Knowledge (1972) e insiste sull’indipendenza del testo scritto (che permette la condivisione di stati mentali altrimenti ignoti) rispetto al suo autore (ma anche rispetto al lettore) come prerequisito fondamentale per la nascita dei criteri dell’indagine scientifica e dell’obiettività razionale (96). Da ciò la «disponibilità pubblica dei testi, la libertà, o persino l’obbligo, degli scienziati di criticare e passare sotto attento esame i testi» (ibidem). Ancora, gli autori hanno la possibilità di diventare i lettori dei propri testi e così possono correggere eventuali errori e porvi rimedio prima della pubblicazione (ossia prima che il testo divenga pubblico). Allo stesso modo, i critici hanno tutto il tempo necessario per verificare i contenuti del testo. In secondo luogo la scienza, rispetto ad altre attività, include sempre un interesse astratto rivolto alla comprensione della natura di per sé, ossia cerca spiegazioni più ricche e precise del mondo. In questo senso le teorie scientifiche si espongono al giudizio altrui in modo rischioso poiché non hanno un senso pratico e si scontrano con le conoscenze comuni (98). Ciò che contraddistingue la scienza da altre imprese che cercano di dare un senso generale del mondo e del suo funzionamento e che mettono in relazione elementi disparati grazie ad un principio esplicativo è che le proposte scientifiche garantiscono la testabilità empirica delle conseguenze che postulano, verificabili in un setting che preveda una sperimentazione controllata (100).

Quanto detto non significa che la religione sia al contrario radicata nei sistemi cognitivi maturativi naturali (le complesse speculazioni teologiche non lo sono) o che la scienza sia cognitivamente innaturale tout court. Di fatto, la propensione degli esseri umani a teorizzare e a formulare teorie speculative è una delle basi cognitive naturali della scienza; ciò avviene in tutte le situazioni ove ci si trovi di fronte ad eventi o circostanze che non si confanno alle aspettative di partenza. Nonostante la raccolta di una mole di dati in merito alla relazione ontogenetica tra crescita del neonato e del bambino e sviluppo della comprensione scientifica del mondo (102), che «stabiliscono che i bambini sviluppano nuove prospettive sul mondo» (103; come abbiamo visto nel precedente paragrafo), ciò non è sufficiente. Esistono domini di conoscenze nei confronti dei quali nessuno possiede la minima propensione intuitiva (in un elenco prodotto da Steven Pinker per il suo noto The Blank Slate figurano le seguenti discipline: cosmologia, genetica, biologia evoluzionistica, neuroscienze, embriologia, scienze dell’economia e matematica). Gli esseri umani, come gli altri animali, hanno piuttosto una propensione a formulare teorie in campo sociale e psicologico e le loro formulazioni «prendono solitamente la forma di storie sulle azioni di agenti e sugli stati mentali di terzi per dare un senso alle cose» (ibidem). La causalità degli agenti è il modello comune di spiegazione, e gli interlocutori (immaginari o reali) sono agenti intenzionali che agiscono in modo tale da comunicare qualcosa a qualcuno. Le spiegazioni del mondo naturale che si rifanno alla causalità di agenti sono, secondo McCauley, l’esempio migliore della fluidità cognitiva, poiché fanno uso di una strategia interpretativa tipica di un dominio (socio-psicologico) per spiegare fenomeni esterni (come l’ira di un vulcano in procinto di eruttare e che agisce per comunicare il suo malcontento; 94).

Seguendo Popper, McCauley ricorda che il mito religioso condivide con la scienza questa volontà di rendere conto di ciò che accade attraverso spiegazioni e predizioni, trattando spesso vari fenomeni in modo contrario alle consuete aspettative. Le differenze fondamentali sono però due: innanzitutto, i miti religiosi «si focalizzano sulla causalità degli agenti e prendono una forma narrativa» (104). In secondo luogo le teorie scientifiche devono essere sottoposte a una critica logica ed empirica: «la critica scientifica deve essere rigorosa, sistematica e imparziale. Ciò significa che, evitando di scivolare in uno scetticismo estremo, gli scienziati propongono costantemente teorie le cui conseguenze possono essere testate empiricamente e che forniscono quadri coerenti con le teorie migliori disponibili su argomenti strettamente connessi». Ancora, l’atteggiamento critico nei confronti del mito religioso, sorto sistematicamente nell’antica Grecia con conseguenze documentate sulla raccolta di evidenze empiriche a favore e contro teorie divergenti, è un’altra delle basi della scienza. Come ricorda McCauley, che qui riprende Popper, «“la scienza è uno delle pochissime attività umane – forse l’unica – nella quale gli errori sono sistematicamente criticati e spesso, col tempo, corretti”» (105; cit. da Popper, K. 1992. Conjectures and Refutations: The Growth of Scientific Knowledge. London: Routledge. 216).

Ciò nonostante, come già anticipato, il fatto di aver compreso, studiato e dimostrato che non è il Sole a sorgere su una Terra piatta e immobile al centro dell’universo, il nostro sistema cognitivo continua a percepire la realtà come pre-copernicana. Questo perché l'insieme dei meccanismi cognitivi che regolano la percezione non è nient’altro che un «macchinario abbastanza buono» (e mai perfetto; 106) formatosi nel corso del tempo profondo per svolgere il suo compito. Questa discrepanza tra realtà e percezione cognitiva, ossia il risultato modellato dai nostri sistemi maturativi naturali, è destinata a crescere man mano che la scienza, ora di pari passo con la tecnologia, procede nella sua indagine per il piacere di conoscere sempre di più e sempre meglio e di cui parlava già Aristotele). Oggi tendiamo a dare per scontato che dalla scoperta di Antonie van Leeuwenhoek in merito all’esistenza di microorganismi visibili al microscopio (correva l’anno 1674), si è dovuto attendere un intervallo di due secoli prima che Louis Pasteur e pochi altri scienziati prendessero sul serio il fatto che quelle creaturine di infime dimensioni potessero avere conseguenze tanto gravi come le malattie – una tesi fortemente controintuitiva perché le cause non sembravano corrispondere per nulla agli effetti. Grazie all’ideazione dei sieri per la vaccinazione l’idea poté cominciare ad imporsi, ma si tenga presente che fino all’inizio del XX secolo continuavano a persistere testi di medicina che consigliavano il salasso come cura per la polmonite (108). Un altro esempio capitale è la dissoluzione dell’essenzialismo caratterizzante la biologia intuitiva (ossia, la fissità delle specie) da parte di Charles R. Darwin: se ai bambini «non c’è bisogno di insegnare che i maialini non hanno come genitori dei pony» (109), la realtà è invece che «se teniamo a mente le variazioni che hanno luogo, le pressioni selettive e il computo delle generazioni, tutti gli organismi attuali sono discendenti di organismi che non possono più considerarsi come membri della medesima specie» (ibidem). Lo stesso discorso vale per qualsiasi altra branca della scienza; basti pensare alla fisica ove, mentre il pubblico interessato è ancora alle prese con la comprensione della fisica del XX secolo (teoria della relatività e meccanica quantistica), i modelli attualmente discussi e che si susseguono a cavallo di dati sempre più raffinati spazia dalla teoria delle stringhe, all’anti-materia e ad un universo multidimensionale. La controintuitività delle tesi fisiche ha avuto anche risvolti ideologici, come dimostra il rifiuto da parte della Germania nazista di accettare la teoria della relatività e la meccanica quantistica le quali, secondo gli studiosi che avevano abbracciato l’ideologia del partito prima e della nazione poi, sarebbero state inventate e ideologicamente sostenute da studiosi ebrei. Contro tali “invenzioni” essi invece propugnavano fallacemente e ideologicamente una fisica che fosse «trasparente o intuitiva» (111), ossia in accordo con i vincoli della cognizione e, di conseguenza, con i propri dogmi ideologici e nazionalistici.
Di fatto, la scienza ha necessità di immaginazione controllata, di critica basata su dati empirici e di altre caratteristiche che sono del tutto incompatibili con il monopolio dell’ideologia: «una buona scienza e un buon ordinamento sociale dipendono dalla libertà dei partecipanti di ponderare e criticare apertamente e con onestà, senza il timore di punizioni» (ibidem).

Mentre il ricorso all’agentività è stato una costante nella storia umana, per spiegare praticamente tutto dalle più devastanti forze naturali alle più minute e inaspettate coincidenze tramite l’applicazione cognitivamente fluida della teoria della mente, la storia della scienza si può piuttosto caratterizzare come il progressivo restringimento dei domini della conoscenza in cui il riferimento esplicativo alla causalità degli agenti è ritenuto legittimo e/o plausibile (117). Il fatto che il ricorso all’agentività sia così diffuso, mentre la scienza al contrario sia un’attività estremamente rara, dipende inoltre dai seguenti fattori (119-122):
  1. occorre una lunga preparazione (più di uno o due decenni di studi in genere) per conoscere le teorie grazie alle quali discernere le evidenze più significative (senza vaste conoscenze teoriche si può scartare una prova evidente pur avendola di fronte), e per apprendere discipline come la matematica, le cui «forme di rappresentazione possiedono una precisione che è cruciale per sezionare le dinamiche dei sistemi complessi e per guidare l’esplorazione e la misurazione di tutto ciò che va dalle più comuni circostanze agli ambienti più straordinari» (119);
  2. la raccolta dei dati e la documentazione delle evidenze è un processo che può essere molto lungo, occupare più persone in tempi diversi, che deve essere condotto secondo un protocollo uniforme (Darwin raccolse e soppesò criticamente prove a favore e sfavore per più di venti anni prima di pubblicare l’Origine delle specie, mentre John Flamsteed ha documentato il suo catalogo stellare avendo alle spalle quarant’anni di osservazioni astronomiche);
  3. occorre saper produrre nuove evidenze, grazie all’ideazione di esperimenti controllati che riproducono le condizioni di sistemi complessi per sfuggire ai vincoli cognitivi maturativamente naturali (in casi simili fallaci);
  4. gli scienziati devono inoltre analizzare e valutare le prove raccolte, formulando e testando ipotesi che spiegano i dati in possesso in modo univoco ed empiricamente fondato.

Non si può dare questi punti per scontati o per ovvi. Numerosi studi di psicologia hanno dimostrato la tendenza naturale della cognizione maturativamente naturale a propendere per soluzioni che comprendono la fallacia della negazione dell’antecedente (dalla negazione della premessa si arriva a negare la conclusione) e dell’affermazione del conseguente (si deduce una causa dall’affermazione di un effetto), ove la verità delle premesse non garantisce la validità delle conclusioni a cui si giunge (123) e, soprattutto, hanno documentato le scarsissime capacità naturali di esprimere giudizi probabilistici e statistici precisi. Riguardo a quest’ultimo punto, vale la pena di riportare che la regola di congiunzione del calcolo delle probabilità viene costantemente infranta dalla stragrande maggioranza dei soggetti. Secondo questo enunciato, la probabilità che due affermazioni siano entrambe vere non può mai essere maggiore della probabilità della verità della meno probabile delle due affermazioni (125). Amos Tversky e Daniel Kahneman, nel corso della loro carriera, hanno constatato che i partecipanti ad un loro test reputavano che la possibilità che Linda, una brillante studentessa di filosofia, attiva in numerose attività inerenti alla giustizia sociale, fosse sia impiegata di banca sia femminista militante potesse essere maggiore rispetto alla probabilità che fosse semplicemente un’impiegata di banca (ibidem). Si tratta dell’euristica della rappresentatività (representativeness heuristic), ossia l’attribuzione di caratteristiche simili a oggetti simili (nel caso di Linda hanno agito i pregiudizi sul passato universitario militante del profilo). Tale euristica è ritenuta da alcuni come la causa principale del rifiuto della teoria dei germi come causa delle malattie. Un secondo vincolo cognitivo che affligge il giudizio umano è l’euristica della disponibilità (availability heuristic), ossia «l’inclinazione a stimare le probabilità in accordo alla facilità con cui si ricordano o si ricostruiscono gli esempi più rilevanti (o gli elementi associati)» (ibidem): chi ha familiarità con un certo tipo di animali tipici della zona in cui vive (poniamo una specie di volatili), tenderà a ritenere più diffusa in assoluto quella stessa varietà. Esistono altri vincoli psicologici (e tutti dimostrano sia l’inefficienza della mente umana nella gestione precisa di dati probabilistici sia la persistenza delle illusioni percettive), ma basti ricordare che tali processi emergono spontaneamente per la risoluzione rapida di problemi quotidiani, in modo automatico e non richiedono elaborazione cosciente (ibidem).

Anche se chi ha ricevuto un’educazione formale possiede più strumenti e un’attenzione specifica che permette di ridurre l’influenza di questi vincoli durante la ricerca scientifica, imparare i modelli scientifici che permettono di mettere in sordina i vincoli cognitivi naturali non può eliminarli. Uno studio condotto da Michael McCloskey e dai suoi colleghi nei primissimi anni Ottanta del secolo scorso ha dimostrato, che nonostante lo studio e le conoscenze di fisica, «le persone sembrano possedere intuizioni sul moto dei corpi che corrispondono quasi da vicino alla teoria medievale dell’impeto» (129). Nel primo esperimento condotto da McCloskey veniva richiesto ai partecipanti, tra le altre cose, di immaginare di lasciar cadere un oggetto su un punto prestabilito sul pavimento mentre camminavano, ma senza muovere le braccia. L’80% dei partecipanti affermò che sarebbe stato corretto lasciar cadere l’oggetto (una palla) quando erano immediatamente sopra l’obiettivo, il 7% rispose che la palla sarebbe caduta lateralmente e nella direzione opposta a quella percorsa, mentre solamente il 13% dei partecipanti rispose correttamente che la palla avrebbe dovuto essere lasciata cadere poco prima di trovarsi sul punto prestabilito. Una meccanica intuitiva errata e l’illusione percettiva del punto di vista dell’osservatore (in questo caso, impegnato a camminare) spiegano la percentuale di errore – anche in studenti che possedevano conoscenze di fisica sopra la media. Un altro esperimento condotto da McCloskey e dai suoi colleghi ha mostrato, ad esempio, che nel tentativo di lanciare un disco attraverso un settore circolare di 90° disegnato su un tavolo, con il divieto di far toccare al disco i bordi della sezione, un quarto dei partecipanti (inclusi alcuni studenti universitari con conoscenze di fisica) ha tentato, nei fatti o nella spiegazione fornita a posteriori, di imprimere un moto curvilineo al disco in modo da fargli assumere la traiettoria ritenuta adeguata per attraversare la sezione disegnata sul tavolo (131). Si tratta, in sostanza, di un altro caso che sembra accordarsi con l’ipotesi dell’infiltrazione e dell’influenza sul giudizio delle capacità maturative (132).

McCauley indica i limiti cognitivi del falsificazionismo popperiano secondo cui, dato che non è possibile raccogliere prove empiriche universalmente valide per sostenere leggi, «la scienza non prova, stabilisce o conferma alcunché di nuovo; una nuova prova può sempre emergere. Si può solo falsificare l’ipotesi di partenza» (134-135; da Objective Knowledge, cit.). In un volume intitolato On Scientific Thinking (Columbia University Press, 1981), Ryan Tweney e i suoi colleghi hanno dimostrato la persistenza del bias di conferma: le persone cercano e interpretano le evidenze selezionate che sostengono le proprie considerazioni (o teorie), e tendono inevitabilmente a scartare quelle che non si addicono al loro costrutto generale. La storia della scienza è piena di possibili esempi (si pensi ai casi già riportati di Darwin e Flamsteed, i quali evitarono questo errore con l’impegno pluridecennale). Tale bias agisce anche durante le revisioni delle ricerche, ove le conclusioni dei ricercatori collimano con quelle dei revisori (135). Gli scienziati inoltre sono soggetti, come tutti gli esseri umani, alla percezione indotta (o motivata; motivated perception), ossia a sovrapporre gli aspetti sociali (le idee e le teorie adottate o condivise) e la cognizione (136). Fodor ha rilevato l’impossibilità di eliminare dalla cognizione le illusioni percettive; Thomas Kuhn, dal canto suo, ha proposto nel celebre The Structure of Scientific Revolutions che «le teorie che apprendiamo – siano esse parte della cultura in generale o degli studi specializzati – esercitano un rigido controllo su ciò che percepiamo e un controllo ancora più rigido nei confronti di ciò che pensiamo» (ibidem). Per questi motivi Kuhn ha insistito sulla stretta relazione tra le dinamiche sociali e la valutazione razionale delle prove scientifiche: Kuhn si è concentrato in particolare su uno «scenario nel quale una giovane generazione di scienziati, che propone una nuova teoria, soppianta i suoi predecessori, che difendevano lo status quo, e ha descritto le trasformazioni in seno alla lealtà teorica all’interno delle comunità di scienziati nei termini di “conversione”» (ibidem). Al di là delle critiche e degli aggiustamenti teorici alla tesi kuhniana, ciò che è rilevante per la discussione di McCauley è che cognitivamente «l’impegno nei confronti di una teoria scientifica impegna lo studioso a vedere il mondo in un modo particolare» (137).

Dunque, anche se le conoscenze scientifiche aiutano, quali sono gli strumenti che permettono agli scienziati di superare almeno in parte queste limitazioni cognitive naturali? Ovvero, come è stato possibile costruire solide conoscenze scientifiche tenendo conto di tali limitazioni cognitive? La risposta, secondo McCauley, è duplice. Innanzitutto la scienza può ovviare alle limitazioni, ai pregiudizi e alle chiusure mentali dei singoli individui sia attraverso il controllo pubblico e libero e la revisione paritaria e indipendente delle ricerche (peer review), sia diacronicamente (in un processo di lungo periodo, altri scienziati potranno rileggere e sottoporre a giudizio critico le teorie più risalenti). Sono prerequisiti fondamentali, poiché «la scienza dipende dal sostegno di una massa critica di individui preparati affinché abbiano il tempo per studiare e criticare pubblicamente le proposte disponibili sul mondo empirico, e per replicare gli esperimenti allo scopo di osservare se essi producono i medesimi risultati riportati da altri studiosi» (139). A monte di questi punti sta ovviamente la possibilità di pubblicare (ovvero, rendere pubblica) la ricerca, di immagazzinare le idee in un supporto durevole grazie all’alfabetizzazione e alla condivisione di codici letterari e matematici. Non si tratta di un metodo perfetto; tutt’altro. Ma è lo strumento migliore finora individuato dall’uomo per produrre conoscenze empiriche affidabili, che dipende dal sostegno pubblico e istituzionale per aggirare i limiti individuali attraverso la condivisione pubblica e la critica razionale dei risultati (143).

3. Religione naturale

McCauley inizia il capitolo dedicato alla naturalità della religione (una naturalità, lo ricordiamo, da intendersi esclusivamente in modo comparativo e relativo rispetto alla scienza) stabilendo le similitudini tra religione e tecnologia e che distinguerebbero queste attività dalla scienza:

  1. entrambe datano dalla preistoria. La religione non necessita né di scrittura né di sedentarizzazione, e precede entrambe; secondo Walter Burkert (Creation of the Sacred, Harvard University Press 1996), l’attività rituale potrebbe essere ancora più antica e precedere anche il linguaggio articolato tipicamente umano (148);
  2. entrambe sono pressoché onnipresenti; «la religione, come la tecnologia, si presenta in ogni cultura umana» (149). Anche se non tutti gli individui sono religiosi, è interessante notare che dove la religione è stata soppressa per motivi storico-politici, essa è riemersa. Per contrasto la scienza è limitata;
  3. entrambe hanno radici biologiche. L’uso e la costruzione di utensili è ora ben documentata ad esempio negli scimpanzé e, dato il ritardo dell’interesse nei confronti di questi aspetti, sussiste la possibilità che altri animali abbiano costruito e costruiscano utensili all’insaputa degli esseri umani. Per quanto riguarda le caratteristiche che la religione condivide con i comportamenti etologici, Burkert ha notato la «somiglianza tra le posizioni del corpo adottate dai partecipanti ai rituali religiosi di fronte ai loro dèi (inginocchiarsi e inchinarsi per pregare e supplicare) e le posizioni dei subordinati di fronte agli individui dominanti nei gruppi di primati» (150). In un articolo datato 1979 e successivamente in un volume dal titolo Rules without Meaning (1989), Frits Staal ha sostenuto che i rituali umani non si differenzino significativamente dai «comportamenti abitudinari contraddistinti da una configurazione fissa degli animali», adottati anche da animali che, secondo Staal, non sarebbero capaci di agire secondo una teoria della mente e dell’intenzionalità (ma su questo aspetto ci sarebbe molto da discutere). Pertanto Staal conclude che il rituale di per sé sia privo di senso (ciò on toglie che in un secondo momento la gente possa trovare un senso, quale che sia, da attribuire a quei rituali).

Ora, il fatto che le forme religiose ricorrano indipendentemente nella storia, attraverso tempi, luoghi e culture differenti, è un dato di fatto che porta ad identificare nelle inclinazioni cognitive naturali della mente umana il motivo di tale ricorrenza (ibidem). Un punto che McCauley non esita a sottolineare è che le religioni, nonostante la varietà e il fatto che sorgano continuamente nuove credenze organizzate, condividono un insieme estremamente limitato di caratteristiche e di varietà (mito, rituale, credenze in merito ad agenti intenzionali con caratteristiche controintuitive, spazi sacri, ecc.): come scrive Steven Pinker «facendo un paragone con le più incredibili idee della scienza moderna, le credenze religiose si distinguono per la loro mancanza di immaginazione» (152; cit. da Pinker, S. 1997. How the Mind Works. New York: Norton 1997. 557). In definitiva, mentre la scienza sovverte i vincoli cognitivi naturali e produce nuove idee radicalmente controintuitive, la religione vi obbedisce e ripropone rappresentazioni modestamente controintuitive e con minime variazioni sullo stesso tema da sempre (ibidem).

La teologia, però, può produrre idee tanto controintuitive quanto le più radicali scoperte della scienza contemporanea. I teologi di fatto si avvalgono di molti strumenti concettuali utilizzati dagli scienziati: «i teologi producono spesso complicate e astratte rappresentazioni religiose che sono altrettanto ostiche da comprendere quanto le più esoteriche idee scientifiche» (153). Tali costruzioni intellettuali, sono basate su un ragionamento cosciente e dipendono organizzazione dai processi di memorizzazione e motivazione per la diffusione delle rappresentazioni. Ora, McCauley chiarisce che la religione di per sé non dipende da istituzioni o riflessioni teologiche particolari, né dall’esistenza di gerarchie ecclesiastiche: «in questo senso, la religione impiega idee e forme di pensiero che sono naturalmente attraenti per la mente umana, perché esse sono radicate nelle disposizioni cognitive maturativamente naturali e nei tipi di conoscenza [intuitiva. N.d.A.] da queste ultime sostenuti, già disponibili alla maggioranza dei bambini in età scolare» (154). Però queste disposizioni non sono precise e sono soggette ad errori di valutazione e di interpretazione, come abbiamo modo di vedere in precedenza. McCauley rifiuta quindi l’interpretazione che fa della religione un comportamento in toto adattativo, classifica i comportamenti religiosi come un effetto secondario (by-product) delle naturali capacità cognitive, e ricorda che stando ai risultati della ricerca scientifica, la mente non possiede un luogo specificamente deputato alla religione (ibidem; cfr. 162). Per esemplificare questa interpretazione, McCauley paragona la religione ad una macchina di Rube Goldberg (1883-1970), vincitore del premio Pulitzer per la satira nel 1948. Goldberg ideò una serie di improbabili assemblaggi di macchine costituite da «oggetti comuni, solitamente posti in relazione tra loro in modalità del tutto fuori dal comune, per portare a termine compiti banali in modo spettacolare, secondo schemi totalmente superflui e complicati» (155). Allo stesso modo, le religioni pongono in connessione propensioni psicologiche altrimenti non legate tra loro, con il risultato di produrre credenze e comportamenti talvolta bizzarri e spesso del tutto superflui per la gestione dei problemi pratici che si presentano quotidianamente (l’autore segnala che qui termina l’analogia con le macchine di Goldberg e ricorda che la scienza, con le sue procedure e le sue spiegazioni, si dimostra cognitivamente assai più dispendiosa rispetto alla religione).

Se si stratta di una cooptazione di capacità cognitive altrimenti non operanti in ambiti terzi, come è possibile che i moduli cognitivi possano essere utilizzati per elaborare informazioni differenti rispetto a quelle per cui essi si sono evoluti? McCauley riprende in questo caso un contributo di Dan Sperber intitolato The Modularity of Thought and the Epidemiology of Representations (1994) e la sua distinzione tra «disposizioni cognitive adattative e le loro varie e latenti predisposizioni» (157). In breve, il dominio di elaborazione comprende non solo le disposizioni evolutesi per fornire un adattamento in qualche modo utile all’organismo (dominio proprio), ma anche l’elaborazione di stimoli più o meno simili ma che non rientrano nel dominio originario (dominio reale). Il risultato dell’elaborazione dei dati che non rientrano all’interno del dominio proprio fa parte dei prodotti secondari, siano essi comportamentali o intellettuali, e soggiace all’acquisizione cognitiva dei dati (cognitive capture) così descritta da Pierre Liénard e Pascal Boyer: «l’attivazione [modulare] tramite segnali che non fanno parte del repertorio funzionale intrinseco» del dominio proprio. Dunque, quando gli esseri umani si trovano a doversi confrontare con «fenomeni che violano le loro aspettative intuitive essi non possiedono altre opzioni intellettuali plausibili se non quella di produrre teorie controintuitive» per spiegare «esperienze inesplicabili, inaspettate e controintuitive» (158; cfr. “Whence Collective Ritual?”  American Anthropologist (108) 2006: 814-827).

La scienza moderna si è però accorta che il ricorso all’intenzionalità degli agenti sovrannaturali non è reale ma è un prodotto psicologico; è invece consuetudine della religione “popolare” (come la definisce McCauley) farvi ricorso per spiegare le cose del mondo fisico-biologico e sociale, attraverso l’azione di agenti che possiedono stati mentali e che hanno solamente alcune proprietà controintuitive (171). Il problema è che «i sistemi maturativamente naturali non sono rilevatori perfetti» né affidabili (158) e, dato che ogni essere umano normalmente dotato di questi meccanismi cognitivi è soggetto agli stessi errori (per cui, ad esempio, se un certo rumore viene identificato come proveniente da una fonte animata e intenzionale, nonostante questa non sia stata trovata, viene subito da pensare di aver sbagliato a cercare – e non che la fonte non sia animata), «qualunque cultura umana ha istituito una collezione di antenati, angeli, demoni o diavoli, fantasmi o folletti, fate o golem che possiedono proprietà controintuitive» (159). Le culture umane hanno così manipolato, indirizzato e assecondato le nostre predilezioni cognitive naturali. All’interno di queste predilezioni, quelle religiose si contraddistinguono come particolarmente interessanti da pensare (così come certi cibi piacciono di più, esistono anche pensieri più gradevoli da pensare) e da trasmettere per la seguente serie di motivi (che vale per qualsiasi altra idea da trasmettere a terzi):
  1. sono immediatamente riconoscibili e catturano l’attenzione;
  2. sono facili da ricordare (specie se veicolate tramite certi ritmi metrici e rime);
  3. hanno un potenziale esplicativo nei confronti della vita quotidiana;
  4. sono comunicabili;
  5. motivano la gente a investire tempo ed energie perché altri ne vengano a conoscenza (159-160).

In tali termini le religioni sarebbero il risultato della «distribuzione di determinate rappresentazioni, comportamenti e credenze incentrati in particolare su agenti controintuitivi, all’interno di una popolazione composta da menti umane, le quali sono in relazione tra loro in una rete di connessioni causali e con un insieme di rappresentazioni pubbliche (affermazioni, rituali, pratiche, vestiario, icone, statue, edifici, ecc.)» (160).

La religionistica classica, secondo McCauley, «ha prosperato per decenni documentando e cercando temi comuni nelle più marginali macchinosità dell’intreccio delle credenze e delle pratiche delle miriadi dei sistemi religiosi del mondo. Nel complesso questo lavoro costituisce un enorme compendio di dettagli religiosi, compilati a partire dalla ricerca condotta sui gruppi religiosi di ogni era e provenienti da ogni angolo della Terra. Tuttavia, senza teorie esplicitamente articolate e testabili, le quali dovrebbero cercare di identificare sia l’ordine soggiacente sia i meccanismi responsabili, un compendio rischia di assomigliare più ad una svendita casalinga di chincaglierie che al catalogo ordinato di un museo» (163). Difatti, da un punto di vista cognitivo, come già accennato, la religione popolare produce solamente rappresentazioni modestamente controintuitive e assai limitate in quanto a varietà. Queste rappresentazioni si basano su peculiari tipologie di agenti che soggiacciono a determinate variazioni nel campo dell’equipaggiamento cognitivo. Pascal Boyer ha definito questi vincoli rappresentazionali come ontologie religiose, a loro volta suddivise in trasferimenti di caratteristiche (quando determinate proprietà appropriate in un dominio fisico, psicologico o biologico vengono trasferite ad oggetti animati o inanimati che non le possiedono) o violazioni (quando una caratteristica trasgredisce un principio normalmente applicato ad un oggetto animato o inanimato, 163; si veda il volume di Boyer Religion Explained, Basic Books, 2002). Queste violazioni, secondo McCauley, si inseriscono nel contesto della fluidità cognitiva teorizzata da Mithen. La capacità di trasferire proprietà da un dominio cognitivo ad un altro ha permesso, ad esempio, di utilizzare la conoscenza biologica per costruire utensili (oggetti inanimati) a partire da prodotti di origine animale/vegetale, ad esempio da ossa, pelli, tendini, fibre vegetali, ecc.

L’aspetto forse più sorprendente è che non solo gli scimpanzé possiedono, come ricordava Mithen, capacità modulari e intelligenza sociale, ma stando alle ricerche più aggiornate, possiedono anch’essi un certo grado di fluidità cognitiva; in particolare, utilizzano «una strategia sociale per risolvere un problema presentato dal loro ambiente naturale» (166; il riferimento è al celebre caso della danza della pioggia, o rain dance, ove i maschi esibiscono comportamenti tipici volti a dimostrare la propria posizione sociale di fronte a cascate o a temporali; nel primo caso, talvolta, gli scimpanzé rimangono seduti ad osservare con attenzione o stupore l’acqua che scorre). Come scrive McCauley, non si tratta tanto di assimilare questi comportamenti ad un comportamento semi (o proto-) religioso, quanto di dimostrare che i nostri cugini possiedono in nuce la possibilità di attuare la medesima gamma di comportamenti basilari che i partecipanti ai rituali religiosi sono soliti assumere durante carestie, eruzioni vulcaniche o temporali (ibidem).

Ora, Boyer e Charles Ramble in un articolo risalente al 2001 (“Cognitive Templates for Religious Concepts”. Cognitive Science (25) 2001: 535-564) hanno mostrato sperimentalmente, e su un campione interculturale, che le rappresentazioni che hanno più possibilità di catturare l’attenzione dell’ascoltatore/interlocutore sono quelle che contengono più di una violazione controintuitiva; però, in modo abbastanza interessante, più di una violazione rischia di nuocere al ricordo del racconto. Barrett e Melanie Nyhof hanno confermato ulteriormente che gli oggetti minimamente controintuitivi vengono ricordati meglio rispetto a quelli comuni sia a breve termine sia dopo un periodo di tre mesi, e, in un secondo esperimento sociale, che i partecipanti tendevano a trasformare gli oggetti esotici che ricordavano meno rispetto a quelli controintuitivi, in oggetti minimamente contro intuitivi (“Spreading Non-natural Concepts”. Journal of Cognition and Culture (1) 1 2001: 69-100).

Pertanto, le rappresentazioni religiose resistono al processo di attenzione e trasmissione dell’informazione secondo uno schema di equilibrio (ad esempio, massima attenzione corrisponde ad una minima trasmissione) e vengono descritte come «tutt’al più modestamente controintuitive» (167), poiché in gran parte contengono una o al massimo due violazioni o trasferimenti di dominio («Mosé, dopo tutto, conversò con un roveto ardente che non si consumava», 168). Secondo Boyer, le rappresentazioni religiose minimamente controintuitive raggiungono il livello cognitivo ottimale (cognitive optimum) tale per cui si trovano ad essere associati i livelli più alti di cattura dell’attenzione dell’interlocutore, di memorizzazione dei contenuti e di potenziale deduttivo (o esplicativo; 170-171). Tali rappresentazioni permettono di usufruire in modo intuitivo e facile dellaecapacità cognitive maturativamente naturali: se un serpente parla, ciò significa che possiede stati mentali e, perciò, pensa e agisce come un agente intenzionale dotato di scopi (169).

Il dato fondamentale riguarda però gli agenti nel mito religioso, entità invisibili moltiplicate spesso a dismisura: «una pletora di agenti invisibili, o la presenza di uno solo ma onnipotente, è una fonte inesauribile di risorse esplicative. Gli dèi fanno ciò che fanno o falliscono nel tentativo di fare ciò che vogliono perché essi possiedono credenze, valori, interessi, preferenze, e così via. Le cose brutte capitano perché gli dèi offesi le hanno lasciate volutamente accadere o perché dèi facili allo sconcerto le hanno causate. A divinità distanti e imperturbabili, invece, queste cose non importano (e pertanto non ci dobbiamo preoccupare di essi). Le spiegazioni richieste dal caso si focalizzano su particolari incidenti, e non su classi generali di eventi, perché gli agenti agiscono in circostanze specifiche» (170). Questi insiemi rappresentano la norma cognitiva, ossia sono “normali”, poiché sono diffuse con alcune variazioni pressoché ovunque, dalle «rappresentazioni di fate madrine, e da lupi che possono essere verosimilmente scambiati per nonne», alle «credenze riguardanti Superman o Lassie, Babbo Natale, elfi, folletti, antenati, angeli, e dèi», alle «pratiche che comprendono parate o processioni, drammi teatrali e rituali». Come conclude McCauley, «tali variazioni appaiono ovunque, dai racconti folklorici, alla letteratura fantasy ai romanzi tout court, fino alla letteratura a fumetti, alle pubblicità e ai cartoni animati» (tutte le citt. da 171).

La cooptazione di capacità cognitive evolutesi per altri scopi, e che agisce nella produzione dei pensieri religiosi, è chiara nei tre studi di caso affrontati da McCauley: il linguaggio, i contaminanti e la ToM.
Nel primo caso, l’autore analizza la xenoglossia (o eteroglossia, ossia la presunta capacità di parlare in lingue altrimenti sconosciute e mai apprese in vita) e la glossolalia (ovvero l’immaginata capacità di esprimersi più o meno correttamente in lingue estinte o ritenute di origine divina; 173). Ne abbiamo parlato in questo post.
Il secondo esempio di cooptazione religiosa di contenuti terzi riguarda un’altra competenza specifica per dominio e che riguarda la contaminazione per contagio, ossia l’adozione di gradi di cautela e di precauzioni quando si viene a contatto con sostanze particolari (in particolare quelle che si devono ingerire; 177). Come altre capacità modulari è una caratteristica condivisa con molti animali; nell’uomo lo sviluppo di tale competenza segue un pattern maturativamente naturale che ha luogo tra i tre anni di età e la prima adolescenza. McCauley elenca i sei principi che regolano la risposta cognitiva (anche se quest’ultima è in parte modulata in un secondo momento dai contesti culturali locali, le reazioni di base e i sentimenti e i comportamenti risultanti sono gli stessi, guidati innanzitutto dalla sensazione di disgusto):
  1. qualunque contatto può trasmettere qualunque caratteristica del contaminante;
  2. qualunque contatto può trasmettere la peculiarità perniciosa;
  3. basta un contatto per contaminare totalmente il soggetto;
  4. la fonte della pericolosità non è percepibile;
  5. la contaminazione tende ad essere permanente (177);
  6. la contaminazione con effetti negativi tende ad essere più potente di quella positiva (182).

Un interessante studio interculturale ha mostrato che i partecipanti ad un esperimento hanno deciso di non bere da un bicchiere che era stato precedentemente in contatto con uno scarafaggio, nonostante il bicchiere fosse stato lavato e poi disinfettato (178; lo studio è il seguente: Hejmadi, A., P. Rozin & M. Siegal. 2004. “Once in Contact, always in Contact: Contagious Essence and Conceptions of Purification in American and Hindu Indian Children”. Developmental Psychology (40) 4: 467-476). Si tratta di capacità cognitive maturativamente naturali che precedono i sistemi moderni di disinfezione e pulizia (nonché la conoscenza dei sistemi di infezioni dovuti a batteri o virus) e che persistono nonostante le infiltrazioni culturali (come nel caso dello studio sulla fisica ingenua condotto da McCloskey).

Nella religione, i sistemi di gestione della contaminazione e del contagio permettono intuitivamente ai fedeli di agire secondo una certa condotta nei confronti di oggetti o spazi ritenuti sacri (così come ci si dovrebbe comportare nei musei o negli spazi pubblici). In questa tipologia di relazione, però, vengono invertiti i termini del confronto: i contaminanti potenziali sono gli esseri umani (gli stessi fedeli; 179-181). I fedeli devono pertanto sottoporsi ad abluzioni rituali, o a complessi rituali di purificazione, che hanno luogo (e devono avere luogo) prima di entrare in contatto con gli agenti controintuitivi locali. Svariate codifiche sociali si basano in particolare sul quinto principio dell’elenco ricordato (gli effetti del contatto sono permanenti), ad esempio nella costituzione di gruppi socialmente screditati (effetti negativi) o privilegiati (effetti positivi): caste rigidamente stratificate e gruppi sociali con funzioni sacerdotali hanno relazioni con spazi, luoghi ritenuti sacri (abitati da dèi o venuti in qualche modo a contatto con le divinità locali) e pertanto devono essere socialmente separati per evitare la contaminazione (nel secondo caso, il prestigio che deriva dal contatto privilegiato può essere speso o imposto nella gestione dell’intero gruppo sociale). La risoluzione controintuitiva fornita (nella maggior parte dei casi) religiosamente al problema della contaminazione negativa è «l’introduzione della possibilità di un effetto contagioso positivo», che consiste nella «vita eterna acquisita a partire dagli effetti contagiosi positivi in seguito al contatto con gli dèi (o con i loro rappresentanti appropriatamente autorizzati), [e che rappresenta] l’antidoto adatto all’irrevocabilità della morte e dei pericoli impliciti in qualsiasi contaminante o oggetto negativamente contagioso presente nell’ambiente» (181).

Il terzo caso proposto da McCauley riguarda la ToM. Si tratta di un sistema di inferenze onnipervasivo pesantemente implicato nei processi cognitivi religiosi, del quale abbiamo già parlato in precedenza: «nessun’altro sistema mentale cognitivamente naturale fornisce agli esseri umani uno strumento più versatile per dare un senso al mondo» (183). Si pensi ai neonati che cominciano a riconoscere gradualmente i comportamenti causali degli agenti dotati di uno scopo, e che pertanto possiedono stati mentali, desideri e credenze, oppure al fatto che solitamente non è raro riferirsi a gruppi di individui come un agente collettivo collettivi (nei quotidiani è moneta corrente imbattersi in frasi fatte riguardo «a cosa “pensa” la Francia, cosa “vuole” l’Iran, o come la Casa Bianca vede la questione»; ibidem). Ora, perché tutta questa attenzione cognitiva nei confronti degli agenti intenzionali? Perché questi rappresentano «le variabili causali principali del mondo sociale. Di conseguenza, gli agenti sono i candidati naturali per fare accadere le cose che accadono nel mondo naturale» (ibidem). Il mito, quindi pone attenzione alla diacronia degli stati mentali degli agenti, utilizzando storie la cui comprensione sfrutta gli stati intenzionali e le azioni degli agenti per memorizzare narrazioni ed episodi ritenuti significativi, così come le conseguenze delle azioni degli agenti di cui si narra. I miti, dunque, organizzano gli eventi temporalmente (non importa quanto razionalmente slegati) e danno un senso ai ricordi rendendoli non casuali (185). In questo senso, i miti e le storie permettono di organizzare modelli di riferimento e «costituiscono proto-teorie per dare un senso e spiegare l’esperienza – passata, presente e futura – e per vedere in quale modo si possa acquisire una certa influenza sul corso degli eventi. Tale formula narrativa incarnata dai miti e dalle storie precede la teorizzazione scientifica che è priva del ricorso alla causalità degli agenti» (186). I miti, allo stesso e identico modo delle storie fantastiche, letterarie, fittizie o fantascientifiche, hanno un valore cognitivo e in quanto tali sono strumenti che servono per inserire una gamma disparata di eventi all’interno di una cornice intenzionale – da qui la predilezione delle menti umane nei confronti delle storie, di qualunque genere esse siano. Queste forniscono informazioni sulle personalità di agenti, sui loro interessi e sui loro motivi (189) – nel caso della religione tali inferenze riguardo gli stati intenzionali degli agenti orientano le deduzioni e i comportamenti quasi senza riflettere. Massimo Piattelli Palmarini ha definito la predisposizione cognitiva ad organizzare eventi differenti all’interno di una storia sensata e coerente, che altrimenti rimarrebbero episodi scollegati l’uno dall’altro, come “Effetto Otello”. Il riferimento è alla manipolazione degli eventi condotta da Iago sfruttando la psicologia intuitiva degli interlocutori del dramma shakespeariano allo scopo di ottenere una plausibilità tale per cui Otello possa cominciare a nutrire sospetti altrimenti infondati, basati su evidenze scarsissime (187-188; cfr. Piattelli-Palmarini, M. [ed.]. (1994). Inevitable Illusions. New York: Wiley).

In quale modo il ricorso naturale e ovvio alla ToM e all’agentività entrano specificamente nella gestione dei rituali? Se la religione introduce agenti nelle transazioni con gli esseri umani, costoro saranno implicati in relazioni sociali (189); pertanto i rituali religiosi non rappresentano nulla di cognitivamente ineccepibile o irriducibile (193). Piuttosto, questi «mimano un numero sufficiente di caratteristiche quotidiane e relative alle azioni intenzionali tale per cui l’equipaggiamento mentale umano possa rappresentarsi il confronto con agenti intenzionali» (190), non hanno apparenti finalità o motivazioni tecniche, come l’espressione artistica (e come tale svincolano in parte il grado di coinvolgimento – si può pensare a tutt’altro durante un rito; 192), e si basano su una serie di vincoli cognitivi che soggiacciono all’apparente variabilità dei riti (191). Per spiegare l’organizzazione cognitiva dei rituali, McCauley e Thomas Lawson, ispirandosi alla grammativa generativa e innata chomskyana, fanno riferimento a una griglia che comprende le seguenti caselle:
  1. gli agenti attivi (agents);
  2. gli atti che vengono effettuati;
  3. i soggetti passivi, o pazienti (patients);
  4. le proprietà e le condizioni che soggiacciono ai punti precedenti (193).

Secondo tale prospettiva, esposta dai due autori in due libri (Rethinking Religion, Cambridge University Press 1990; Bringing Ritual to Mind, Cambridge University Press, 2002), qualunque rituale impegna due soggetti e comporta un’azione*.
*: È interessante notare che Barrett ha proposto una classificazione per cui gli dèi coinvolti nel rito come “intelligenti”, ossia che sono a conoscenza dello stato mentale dei partecipanti, e “stupidi”, ossia che non possono venire a conoscenza delle menti dei partecipanti al rito, e che pertanto devono essere messi al corrente di queste ultime, per così dire, attraverso i rituali (192; sull’argomento si veda Barrett, J.L. 2002. “Smart Gods, Dumb Gods, and the Role of Social Cognition in Structuring Ritual Intuitions”. Journal of Cognition and Culture (2) 2002: 183-193).
Il fattore determinante è individuato da McCauley e Lawson nel principio dell’agentività sovrumana (principle of superhuman agency, o PSA). Secondo tale principio, il ruolo occupato da un agente controintuitivo all’interno dei primi tre punti elencati poc’anzi modifica conseguentemente tutta la struttura del rito (ovvero, il riferimento ad un agente controintuitivo può essere rivolto all’agente attivo, al soggetto passivo o all’atto per mezzo di strumenti). Conoscendo quindi il ruolo occupato dalla divinità nel rituale si può verosimilmente ricostruire o prevedere quali saranno le caratteristiche degli altri punti. Ad esempio, se l’agente controintuitivo agisce nel primo punto (tramite intermediari), il rituale si svolge una volta sola su ciascun paziente (ad esempio nel battesimo cristiano). I rituali sono condotti da agenti peculiari (special agent rituals) e le conseguenze di tali rituali sono definitive “super permanenti”, e possono avere conseguenze sull’intera vita del soggetto passivo e su quello che si ritiene essere l’aldilà. Questa tipologia di rituali può essere accompagnata da livelli elevati di esibizione o sfarzo sensoriale (high levels of sensory pageantry), i quali per quanto siano declinati secondo sensibilità culturali locali, comprendono sempre cibi o bevande speciali, musica, danze, aromi particolari, ecc. Allo scopo di coinvolgere il soggetto e stimolare la reazione desiderata si può ricorrere al consumo di sostanze psicotrope oppure alla privazione sensoriale tout court, o addirittura a varie forme di tortura fisica o psicologica. Il fine di tutto ciò è sollecitare il soggetto partecipante a porsi come direttamente coinvolto nel rituale attraverso stimolazioni cognitive, inducendolo a imprimere l’evento nella memoria e, nel contempo, a dimostrare all’intera comunità (non partecipante) l’importanza fondamentale del rituale. La sovraeccitazione attiva una vivida e dettagliata memoria episodica, che talvolta assume la forma di quello che viene chiamato ricordo fotografico o flash di memoria (flashbulb memory): il ricordo si imprime con le sue coordinate (dove ci si trovava, che cosa si stava facendo e con chi ci si trovava; 195-198).

Un secondo tipo di rituale è contraddistinto dalla presenza di un paziente e da strumenti speciali (special patient rituals) ove, a differenza del precedente modello, è la ripetitività a caratterizzare il rituale (per riprendere l’esempio della religione cristiana, l’eucarestia domenicale e festiva è ripetuta incessantemente). Come nota McCauley, si tratta della medesima abitudinarietà sviluppata quando si impara ad andare in bicicletta o a leggere (solo in casi eccezionali il partecipante adulto ricorda la prima volta in cui ha preso parte ad un’eucarestia domenicale); inoltre, il livello di esibizione e di sfarzo sensoriale è solitamente di gran lunga inferiore rispetto alla tipologia descritta precedentemente (201). Anche il tipo di memoria coinvolto è differente: la ripetizione frequente attiva la memoria semantica, la quale consiste di tutte le informazioni che possiamo avere a disposizione e che solitamente non possiamo riconoscere o ricordare di avere appreso.

Ora, le due tipologie, basate sullo sfruttamento di differenti processi mnemonici e cognitivi, sono state descritte da Harvey Whitehouse come le due modalità della religiosità, e specificamente come imagista e dottrinale. Nel primo caso la memoria episodica innesca una riflessione esegetica spontanea (spontaneous exegetical reflection, o SER) per cui viene incoraggiata la riflessione personale sull’esperienza vissuta, solitamente in uno stato di sovraeccitazione sensoriale (203). Nel secondo caso, invece, il rituale si configura come un sistema monotono per la trasmissione di specifici concetti codificati in modalità peculiari e controllate dall’alto. Il sistema imagista è caratteristico di gruppi sociali piuttosto limitati numericamente, mentre il modello dottrinale è tipico di società più grandi. Ovviamente, solo di rado si riscontrano le due modalità secondo un modello “puro”; occorre piuttosto immaginare i due fattori chiave (ossia il livello di partecipazione e di eccitazione sensoriale e la frequenza) come attrattori in un sistema dinamico, come calamite che orientano e attraggono il modello culturale locale e, perciò, che ordinano le forme rituali, a seconda del caso, nelle forme dell’agente speciale e del paziente. Inoltre, McCauley considera come il modo imagista abbia verosimilmente preceduto quello dottrinale (considerando che l’attività etichettabile come “religiosa” precede di decine di migliaia di anni l’alfabetizzazione e la codifica scritta di contenuti e interpretazioni teologiche, sulla quale si basa in gran parte il modo dottrinale); i principi secondo i quali la trasmissione delle credenze e dei rituali si basa sull’apprezzamento delle rappresentazioni e sulla possibilità di memorizzare e motivare la trasmissione ha dominato il paradigma della trasmissione delle idee religiose anche in assenza di testi scritti (204). Talvolta è stato anche possibile documentare i processi di innovazione religiosa da una modalità all'altra. Il case study di cui si è occupato Whitehouse testimonia le trasformazioni socio-rituali di un culto del cargo (o cargo cult), ossia di una forma religiosa tipica delle società della zona pacifico-melanesiana venuta a contatto in epoca moderna con i colonizzatori europei – e in particolare con i missionari cristiani. Questa tipologia di culto è contraddistinta dall’attesa millenaristica dell’abbondanza delle merci e dei beni giunti un tempo via nave, solitamente durante il periodo coloniale (e perciò da luoghi lontani e misteriosi solitamente identificati religiosamente con i luoghi propri degli antenati locali). Ebbene, nel caso di un gruppo staccatosi dal Pomio Kivung, un tipo di culto del cargo della Papua Nuova Guina, Whitehouse ha documentato il passaggio da un modo imagista ad uno dottrinale, che corrisponde ai casi previsti dalla teoria (ossia è stato confermato il cambiamento della forma rituale dell’agente speciale ad uno ove predomina il soggetto passivo o paziente, con una sensibile diminuzione del livello di sovraeccitazione e un aumento inversamente proporzionale della frequenza del rito; 205-207. Il libro nel quale Whitehouse ha esplorato questo aspetto è Inside the Cult, Oxford University Press 1995).

L’ultimo punto che riguarda l’impatto della ToM e dell’agentività nello studio della religione è forse il più ovvio: «gli dèi pensano e agiscono perlopiù come noi» (207). Si tratta in sostanza della naturale conseguenza dell’antropomorfizzazione dell’ambiente non umano teorizzato da Stewart Guthrie in un titolo rinomato (Faces in the Clouds, Oxford University Press 1993) con abbondanza di dimostrazioni tratti dalla biologia riguardanti l’importanza della vista (ad esempio l’importanza assegnata ai falsi occhi nel mimetismo), ed esempi visivi o descrizioni provenienti dal mondo della cultura umana (si pensi all’illusione della pareidolia, ossia il reperire automaticamente volti o forme antropomorfe, o zoomorfe, in contesti casuali non antropizzati). I neonati, ad esempio, dimostrano già un’attenzione peculiare nei confronti delle forme simili ad occhi in contesti che possono ricordare volti umani (e dell’importanza del contatto visivo per i neonati abbiamo già parlato nel primo paragrafo). A tre mesi circa un bambino è già in grado di dissociare l’intenzionalità di oggetti dalla forma umana. Entro i quattro anni i bambini utilizzano le loro abilità cognitive «indipendentemente dalle forme fisicamente simili a quelle umane [e] capiscono prontamente storie riguardanti agenti intenzionali di tutti i generi e tutte le forme presenti nelle fiabe, nel folklore, nei miti religiosi e nei film della Disney» (209). Le scienze cognitive hanno costruito su questo assunto dimostrando ad esempio che, per quanto possano essere controintuitivamente elaborate le credenze dottrinali imparate, ricordate o enunciate, inconsciamente si tende sempre e comunque ad assegnare alle divinità nelle quali si crede le caratteristiche antropomorfiche tipiche dei sistemi naturali maturativamente cognitivi – il risultato è ciò che D. Jason Slone nel 2004 ha etichettato come “scorrettezza teologica” – che non è un’etichetta impiegata per descrivere ipotetiche eresie rispetto ad altrettanto ipotetiche ortodossie religiose, bensì una precisa definizione cognitiva (241).

Nel 1996 Barrett e Frank Keil hanno ideato un esperimento controllato volto a indagare questa scorrettezza teologica, attraverso l’acquisizione di alcune narrazioni e la loro successiva rievocazione, nel quale i partecipanti vengono sottoposti a quattro fasi specifiche (l’art. è “Conceptualizing a Nonnatural Entity”. Cognitive Psychology 31: 219-247). Nella prima viene loro richiesto di esprimere le convenzionali e complesse credenze dottrinali e teologiche riguardanti gli agenti controintuitivi tipici della propria religione (contraddistinte da un rifiuto dell’antropomorfismo e da una caratterizzazione delle capacità onniscienti, onnipotenti e onnipresenti previste dalle dottrine ufficiali; 210 ss.). Nella seconda è prevista la lettura di alcune narrazioni che implicano un’interazione tra la divinità e gli esseri umani; nella fase seguente i partecipanti vengono sottoposti a un compito distraente, come esercizio per focalizzare l’attenzione su argomenti senza relazione con il tema di indagine. L’ultimo compito è quello di memorizzazione, nel quale viene richiesto ai partecipanti di ricordare i passaggi letti durante la seconda fase. I risultati hanno dimostrato che riguardo alle letture affrontate con attenzione nella seconda fase (tutte congruenti rispetto ai contenuti teologici esposti nella prima fase, ad eccezione di alcuni punti chiave che si prestavano a più di un’interpretazione), i partecipanti ricordavano i passaggi letti in modo «non conforme rispetto alle rappresentazioni religiose teologicamente corrette e disponibili coscientemente» (217) enunciate solo qualche minuto prima. Al contrario, il ricordo era impregnato dei contenuti maturativamente naturali tipici della cognizione umana. Ad esempio, un racconto proponeva la seguente situazione: un ragazzo sta rischiando di annegare in un torrente a causa di una gamba rimasta incastrata tra le rocce, inizia a pregare Dio (il quale sta rispondendo ad un’altra preghiera nel mondo), e «in breve tempo Dio risponde spostando una delle rocce permettendo al ragazzo di liberarsi» (216). I partecipanti chiamati a ricordare questo passaggio spiegavano che il ritardo nella risposta era necessario a Dio per spostarsi (in ciò «piuttosto simile a Superman»; 217) oppure che «Dio, per quanto onnipresente, doveva finire di rispondere alla precedente preghiera prima di aiutare il ragazzo» (ibidem). Quasi la totalità delle risposte dei partecipanti ha dimostrato l'interpolazione da parte dei sistemi cognitivi maturativamente naturali; in pratica, durante la gestione dei problemi quotidiani, le credenze teologiche ortodosse vengono del tutto abbandonate nei processi cognitivi (come nell’esempio riportato, ossia il processo di acquisizione e di rievocazione). La caratteristica forse più significativa è che il test è stato poi ripetuto su differenti campioni interculturali (ebraici, induisti e islamici), senza che ciò alterasse significativamente i risultati: come ricorda McCauley, l’ideazione e lo svolgimento di esperimenti psicologici interculturali rappresenta «uno dei contributi più importanti delle scienze cognitive della religione alle scienze psicologiche e cognitivo-sperimentali» (299, nota n° 158). Per troppo tempo, difatti, si è fatto affidamento su campioni di partecipanti quasi esclusivamente provenienti da volontari euro-americani (spesso studenti universitari di varia estrazione) come base per affermare generalità estese alla cognizione dell’intero genere umano (ibidem).

A questo punto McCauley stabilisce quindi i punti che accomunano cognitivamente la teologia con la scienza, e che distanziano la teologia dalla “religione popolare”, ossia dall’insieme dei sistemi cognitivi maturativamente naturali che intervengono e soggiacciono alle operazioni cognitive. La teologia, quindi:
  1. si basa sulla produzione codificata di letteratura, contraddistinta da aspetti teorici, polemici, analitici e sintetici e cercando prove a favore delle proprie asserzioni;
  2. fa uso degli stessi strumenti della scienza (probabilità, deduzione, induzione e talvolta abduzione);
  3. fino al XVII secolo ha fatto uso delle conquiste scientifiche precedenti;
  4. richiede la conoscenza approfondita di strumenti intellettuali per cui sono necessari lunghi periodi di studio e preparazione (212-213).

Le differenze tra teologia e scienza rintracciate da McCauley vengono invece elencate come segue:

  1. la teologia formula ipotesi non testabili empiricamente in alcun modo: «ad oggi, la “teologia sperimentale” ha dimostrato una maggiore vitalità nel mondo fittizio che Philip Pulman ha descritto nel romanzo La bussola d’oro che non nel mondo reale […]»;
  2. la teologia continua a moralizzare ambiti e a giudicare eventi non riconducibili all’intenzionalità in natura, come se fossero espressione di un agente: «La scienza concepisce scrupolosamente meccanismi controintuitivi per spiegare gli eventi catastrofici, nei confronti dei quali gli specialisti religiosi dimostrano [al contrario] una pulsione incontrollabile alla moralizzazione, allo stesso modo degli eventi quotidiani e comuni […]»;
  3. la teologia ha agito nella storia perlopiù come un instrumentum regni, ossia in quanto forza allineata al potere politico-sociale che ha fornito giustificazione e sostegno per le cleptocrazie delle organizzazioni statali, investite da un diritto divino a governare (dalle statualità degli Inca e degli Egizi, fino alle monarchie dei secoli passati): «Da Guglielmo di Occam a Martin Lutero, da Billy Graham a Pat Robertson, gli specialisti religiosi e i teologi del mondo occidentale hanno ottenuto benessere, potere, prestigio e protezione come ricompensa per la creazione, il sostegno o almeno per la tolleranza dimostrata nei confronti di ideologie che garantivano le macchinazioni e gli schemi dei potenti e dei politici» (tutte le citt. da 213-215).

Ora, di fronte a tali posizioni, come si colloca dunque l’ateismo? La conclusione del capitolo è dedicata alla dimostrazione del fatto che l’ateismo rappresenti una posizione intellettuale da conquistare, rispetto alla naturalità cognitiva della religione nei suoi tratti popolari. Ritornando sui temi del primo capitolo, McCauley ricorda che i bambini in età scolare possiedono già implicitamente tutto ciò che serve per mettere in funzione un pensiero religioso coerente con lo sviluppo delle capacità naturali maturativamente cognitive. L’elenco degli studi fondamentali in questo senso comprende almeno i seguenti lavori. Barrett ha dimostrato che prima dei cinque anni di età i bambini non riescono a portare a compimento il compito della falsa credenza nella sua variante verbale (220; l’art. di rif. è Barrett, J.L. & R.A. Richert. 2003. “Anthropomorphism or Preparedness? Exploring Children’s God Concepts”. Review of Religious Research 44: 300-3129; a quell’età quindi, non possedendo una completa ToM, «non risulta per nulla difficile concepire una mente infallibile» (ibidem). Kelemen invece, come abbiamo ricordato in precedenza, ha stabilito l’esistenza di un atteggiamento teleologico promiscuo, assegnato dai bambini ad oggetti naturali e no presenti nell’ambiente circostante (cfr. Kelemen, D. 2004. “Are Children ‘Intuitive Theists’? Reasoning about Purpose and Design in Nature”. Psychological Science 15: 295-301). Jesse Bering con i suoi colleghi, infine, ha provato con fondatezza che i bambini, in taluni casi persino in età pre-scolare, «sono assai ricettivi nei confronti della nozione di agente invisibile e della persistenza psicologica delle menti degli agenti morti» (ibidem); in entrambi i casi i bambini non dimostrano alcuna difficoltà ad immaginare gli stati mentali di agenti inesistenti e invisibili (e pertanto a formulare inferenze su di essi; cfr. Bering, J.M. & D.F. Bjorklund. 2004. “The Natural Emergence of Reasoning about the Afterlife as a Developmental Regularity”. Developmental Psychology (40) 2: 217-233; Bering, J.M., C.H. Blasi & D.F. Bjorklund. 2005. “The Development of ‘Afterlife’ Beliefs in Secularly and Religiously Schooled Children”. British Journal of Developmental Psychology 23: 587-607; Bering, J.M. & B.D. Parker. 2006. “Children’s Attributions of Intentions to an Invisible Agent”. Developmental Psychology (42) 2: 253-262).

Tutto ciò conduce McCauley alle soglie del capitolo conclusivo, ove si discute delle conseguenze (più o meno spiacevoli) del fatto che la mente umana sia naturalmente ricettiva nei confronti della religione.

4. Conclusioni

Il capitolo finale si apre con la sintetica rappresentazione delle due posizioni fondamentali in merito al confronto tradizionale tra scienza e religione, di cui abbiamo parlato a queste coordinate. L'escamotage del rinvio a un post precedentemente pubblicato sul blog mi permette di passare all'elenco dei punti cardinali e conclusivi della ricerca dello studioso, che i lettori del blog possono trovare, corredati delle necessarie spiegazioni, cliccando su ciascun punto:

  1. i paragoni solitamente condotti tra scienza e religione sono basati su fondamenti errati;
  2. la produzione di contenuti teologicamente scorretti è inevitabile;
  3. la scienza in quanto tale non pone alcun pericolo per la sopravvivenza della religione;
  4. alcune disabilità nell’ambito cognitivo vanificano la presa cognitiva della religione;
  5. la scienza è un’operazione eminentemente sociale;
  6. la scienza dipende profondamente dal sostegno istituzionale;
  7. la sopravvivenza della scienza non è scontata perché le basi della sua esistenza sono fragili (9, 230).

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