sabato 28 maggio 2016

Potenziatori culturali, uccelli giardinieri e sense of beauty. Ipotesi sugli inizi della religione a quarant'anni da Il gene egoista

Copertina dell'edizione italiana del libro di Richard Dawkins intitolato Il gene egoista.
ResearchBlogging.org
Per il quarantennale della pubblicazione de Il gene egoista di Richard Dawkins, ho deciso di omaggiare l’idea di evoluzione culturale attraverso i memi in questo e nel prossimo post [1]. Tenuti a battesimo proprio in quel volume, i memi sono elementi culturali sottoposti a immagazzinamento mnemonico e diffusione attraverso modalità imitative. Nei modelli tratti della memetica dawkinsiana i “memi” vengono intesi come «atomi discreti di informazione ereditaria in competizione tra loro», sulla base di un parallelo tra cambiamento genetico e modifiche culturali nel corso del tempo [2]. Come ha scritto Luigi Luca Cavalli Sforza, da questa prospettiva l’«autoriproduzione delle idee» è resa possibile dal fatto che «le idee […] sono oggetti materiali in quanto hanno bisogno di corpi e cervelli in cui essere prodotte per la prima volta e riprodotte nel processo di trasmissione: come il DNA sono materiali, anche se di natura diversa» [3]. Nonostante l'idea di partenza non fosse originale, in quanto influenzata in origine dalle tesi che furono già di Cavalli Sforza (tra gli altri), la portata e l'appeal della proposta dawkinsiana fu semplicemente enorme [4]. Bene o male, il merito di Dawkins sta nell'aver confezionato e semplificato un potenziale modello di ricerca per renderlo fruibile a livello divulgativo. Coniando un'etichetta di grande successo.

Il battesimo dei memi.
Fonte: Dawkins, Richard. 2010. Il gene egoista. Milano: Mondadori. p. 201.
In questo e nel prossimo post, senza alcuna velleità o pretesa di esaustività, riprendo alcune interessanti pubblicazioni recenti di cui mi sono occupato nella mia tesi di dottorato e nel mio librone, tagliando, aggiornando e correggendo dove necessario. Il punto di partenza e il pretesto provengono dall’idea che tratti culturali socialmente accettati e ampiamente diffusi, come i comportamenti religiosi, siano giocoforza e in qualche modo adattativi. Iniziamo allora in medias res con un bel libro pubblicato nel 2012, scritto dal biologo evoluzionista Mark Pagel e intitolato Wired for Culture: The Natural History of Human Cooperation.
In questo libro, Pagel ritiene che all’interno dei meccanismi di co-evoluzione culturale, elementi quali religione, arte e musica abbiano agito come potenziatori culturali (cultural enhancers), volti a massimizzare il successo dei replicatori (gli esseri umani) all’interno dei veicoli di sopravvivenza culturali. Però, secondo l’interessante (e talvolta problematica) prospettiva memetica sposata da Pagel, la religione o, meglio, i vari componenti di una religione possono essere adattativamente neutrali o persino essere deleteri per i singoli o per i gruppi, indipendentemente dalla diffusione di quel potenziatore culturale:
«la proposta secondo la quale abbiamo curato le arti e la religione poiché ci sono utili deve essere confrontata con la più semplice idea che questi elementi culturali possano esistere per nessun’altra ragione al di fuori del fatto che si sono evoluti per essere capaci di manipolare, sfruttare o approfittarsi di noi al fine di diffondersi – non per aiutarci» [5].
Il concetto di potenziatore culturale non è molto lontano dall’ipotesi di Luther H. Martin per cui la religione avrebbe funzionato agli inizi come elemento di selezione sessuale, come dispiego e sfoggio di caratteristiche individuali valide per indicare la propria fitness, sulla scorta del darwiniano sense of beauty, ossia dell’estetica e delle relative capacità valutative esibite da un sesso per giudicare la fitness dell'altro. Nel suo contributo Martin descrive i meccanismi cognitivi, le strabilianti abilità architettoniche e l’esistenza di tratti culturali condivisi a livello regionale dagli uccelli giardinieri dell'Australia e Nuova Guinea (fam. Ptilonorhynchidae) per paragonarli allo storytelling umano e alla narrazione affabulatoria come display orale nella selezione sessuale umana.

«Proprio in prossimità del sentiero, mi trovai in presenza dell'opera più bella che ingegno di animale abbia mai saputo costruire. Era una capanna in mezzo a un praticello smaltato di fiori. Il tutto in miniatura. [...] Mi contentai di esaminare superficialmente per il momento quella meraviglia e proibii severamente a' miei cacciatori di scomporla». Da Beccari, Odoardo. 1877. Le capanne ed i giardini dell'Amblyornis inornata. Genova: Annali del Museo Civico di Storia Naturale di Genova, vol. IX; testo e immagine riprese da Mazzotti, Stefano. 2011. Esploratori perduti. Storie dimenticate di naturalisti italiani di fine Ottocento. Torino: Codice, risp. pp. 114 e 216. Immagine resa disponibile dall'editore qui.



Martin si basa su quanto concluso da Geoffrey Miller nel suo Uomini, donne e code di pavone: la selezione sessuale e l’evoluzione della natura, secondo cui la capacità di cooptare controintuitivamente determinati concetti all’interno delle narrazioni religiose può avere avuto effetti sulla fitness riproduttiva degli individui [6]. Secondo la prospettiva cognitiva milleriana, «molti degli adattamenti mentali che guidano i nostri comportamenti [sono] intuitivamente accurati». Però, come l'autore suggerisce, «i “fuochi d’artificio mentali che costellano lo spettacolo del corteggiamento” indeboliscono la nostra epistemologia evoluzionistica, “trasformando le nostre facoltà cognitive da seguaci della verità in pubblicità ornamentali per la propria fitness”» [7].
Per un esempio di pubblicità ornamentale come sviluppo esagerato di tratti potenzialmente inutili o addirittura nocivi alla sopravvivenza degli individui si pensi alle melodie degli uccelli canori che ne segnalano la presenza ai potenziali predatori. Ma, come la coda del pavone, si tratta di uno sfoggio di qualità che esagera la fitness dell'individuo sia per scoraggiare eventuali predatori (indicandone la salute e la prestanza) sia per incoraggiare eventuali compagne (idem). D'altra parte Mick Jagger, con il suo repertorio di abilità artistiche immortalate nel testo e nel videoclip di una canzone recente, ha avuto sette figli da quattro compagne – e non stiamo nemmeno a fare la conta delle possibili partner a livello non ufficiale.
«Gli inglesi le hanno chiamate playbing o sporting places, halls, play houses, ma più specialmente Bowers, nome che io tradurrei in italiano in quello di pergolati, gallerie o capanne; Bower birds sono chiamati gli uccelli che costruiscono».
Testo: Beccari, Le capanne ed i giardini dell'Amblyornis inornata, cit.; ripreso da Mazzotti, Esploratori perduti, cit., p. 114. Immagine: BBC Earth (Tim Laman / naturepl.com)
Ogni mezzo è lecito, dunque, e fare sfoggio di tratti esagerati diventa parte integrante di un processo a cascata (runaway effect) per cui domanda e offerta dei potenziali partner si rincorrono nel tempo profondo dell'evoluzione fino a fissare elementi potenzialmente nocivi alla fitness. In un apparentemente paradossale scarto di logica, la difficoltà di espletare funzioni normali e/o l'apprendimento di comportamenti costosi e inutili diventa essa stessa vincolo selettivo [8].

In questo senso, raccontare storie esagerate alimenta la diffusione di elementi narrativi che fanno presa cognitiva proprio a causa degli temi inaspettati che esse contengono. Non è difficile intravedere qui in filigrana l'innesco di narrazioni mitologiche vorticosamente controintuitive che diventano vincolo selettivo per nuove storie sempre più mirabolanti. D'altra parte, un'attenzione innata rivolta ai particolari contenuti che violano le nostre aspettative ontologiche nei confronti del mondo esterno è un fattore potenzialmente adattativo. Chiaramente, una storia fatta di dèi che lanciano fulmini quando sono arrabbiati non ha molto valore adattativo di per sé, ma sapere che i fulmini possono colpire gli alberi perché sacri a quella divinità – e quindi starsene ben lontani quando diluvia – non è poi tanto male. Senza contare l'effetto neuroendocrinologico di soddisfazione epistemica conseguente alla condivisione di una bella e piacevole storia. Chiaro, c'è dell'altro. Ma quello che voglio sottolineare qui è che allora lo storytelling mitologico sarebbe in nuce  una sorta di prodotto collaterale, un by-product, poi ripreso e sfruttato anche a fini adattativi [9].
Ma son tutte fole, direte voi. Eppure, dal fingere di credere al credere nella finzione il passo non è poi così incolmabile come si potrebbe pensare di primo acchito. Se si ha cura di collocarsi nella prospettiva dei tempi profondi, ovvio. In effetti, Robert Trivers ha suggerito che
«la logica dell’inganno pervade la storia della vita sulla Terra, dalla competizione all’interno dei genomi ai rapporti familiari e sociali, e che per rendere efficaci strategie di inganno e manipolazione degli altri si è evoluta a sua volta la capacità di autoingannarsi» [10].
Autoingannarsi come prerequisito per competere meglio, quindi? Questa tesi sollevi alcune interessanti e spinose questioni dal punto di vista cognitivo ed evoluzionistico (sulle quali non possiamo soffermarci in questo post), e permette di considerare in un’ottica di lungo periodo il rapporto tra competizione intra- ed inter-sessuale (ossia all'interno e tra i sessi) e uso del linguaggio.

Alcune ricerche di sociolinguistica riprese da Anne Campbell, ad esempio, hanno individuato una correlazione positiva tra questi due elementi negli adolescenti di sesso maschile del genere Homo sapiens, per i quali
«[...] il fattore importante non è il contenuto del discorso, quanto ciò che attraverso di esso si può raggiungere. Parlare equivale a reclamare, mantenere o contestare lo status sociale. Per i ragazzi mantenere l’attenzione di un pubblico è un vero talento perché, a differenza di quanto avviene con le ragazze, l’oratore non può contare su un pubblico paziente e comprensivo: “Narrare storie [storytelling], raccontare barzellette [joke telling] e altre perfomance narrative sono caratteristiche comuni dell’interazione sociale dei ragazzi… Il narratore deve affrontare di frequente la derisione, le sfide e i commenti sulla sua storia. Una delle maggiori abilità sociolinguistiche che un ragazzo deve apprendere per interagire con i suoi pari è superare questa serie di sfide, mantenere l’attenzione del pubblico e arrivare con successo alla fine della sua storia» [11].
La prossima volta che qualcuno tra i vostri amici e conoscenti si mette svergognatamente in mostra in pizzeria, raccontando storie assurde o barzellette penose pensando di essere divertente, attirando l'attenzione di tutti i commensali, non riuscirete a non pensare ad una coda di pavone. O a un pergolato degli uccelli giardinieri.
Metti un Amblyornis inornata in pizzeria... Illustrazione di John Gould.
FonteWikipedia

[continua...]

[1] Dawkins, R. (2010). Il gene egoista. Milano: Mondadori (1992 1a ed.). Ed. orig. The Selfish Gene, Oxford and New York: Oxford University Press, 1976; ristampato nel 1989 e  nel 2006).

[2] Pievani, Telmo. 2010. Introduzione alla filosofia della biologia. Roma-Bari: Laterza, p. 73 (2005 1a ed.). Si veda Dawkins, Il gene egoista, cit., pp. 198-210 (cap. Memi: i nuovi replicatori). Passaggio rielaborato da Ambasciano, L. (2014). Sciamanesimo senza sciamanesimo. Le radici intellettuali del modell osciamanico di Mircea Eliade tra evoluzionismo, psicoanalisi, te(le)ologia. Roma: Nuova cultura, p. 495.

[3] Cavalli Sforza, L.L. (2010). L’evoluzione della cultura. Torino: Codice edizioni, p. 131 (2004 1a ed.).

[4] Dawkins ricorda Cavalli Sforza (Il gene egoista, cit., 200), e due suoi testi: Cavalli Sforza, L.L. (1971). "Similarities and Dissimilarities of Sociocultural and Biological Evolution". In Mathematics in the Archaeological and Historical Sciences, edited by Hodson, F.R., Kendall, D.G., and Tăutu, P., 535-541. Edinburgh: Edinburgh University Press, e Cavalli Sforza, L.L. and Feldman, M.W. (1981). Cultural Transmission and Evolution: A Quantitative Approach. Princeton: Princeton University Press (cit. risp. in Dawkins, Il gene egoista, cit.,pp. 336 e 337).

[5] Pagel, M. (2013). Wired Culture: The Natural History of Human Cooperation, Penguin Books, London-New York: Penguin, p. 135 (pubbl. orig. da Allen Lane, London & New York 2012; W.W. Norton & Co., New York 2012).

[6] Miller, G. (2000). The Mating Mind: How Sexual Choice Shaped the Evolution of Human Nature. New York: Random House. Trad. in italiano nel 2002 come Uomini, donne e code di pavone: la selezione sessuale e l’evoluzione della natura. Torino: Einaudi. Si veda inoltre Bartalesi, Lorenzo (2012). Estetica evoluzionistica. Darwin e l'origine del senso estetico. Roma: Carocci.

[7] Martin, L.H. (2013). “The Origins of Religion, Cognition and Culture: The Bowerbird Syndrome”. In Origins of Religion, Cognition and Culture, edited by Geertz, A.W. 178-202; p. 197. Routledge: London and New York. Originally published by Acumen: Durham and Bristol, CT. Citazioni da Miller, G., The Mating Mind, cit., p.p. 423-424.

[8] Cf. Luzzatto, M. (2008). Preghiera darwiniana. Milano: Cortina. p. 48: «E se uno dimostra di sapere a memoria mille poesie, tre lingue, parla bene e sa inventare belle storie, non è forse più attraente agli occhi di un partner? Non potrebbe essere una coda di pavone anche quello?».

[9] Girotto, G., Pievani, T., Vallortigara, G. (2014). Supernatural beliefs: Adaptations for social life or by-products of cognitive adaptations? Evolved Morality: The Biology and Philosophy of Human Conscience, edited by Frans B.M. de Waal, Patricia Smith Churchland, Telmo Pievani, and Stefano Parmigiani. Leiden and Boston: Brill. , 249-266 DOI: 10.1163/9789004263888_019.


[10] Corbellini, G. (2011). Scienza, quindi democrazia. Torino: Einaudi, p. 136. Cfr. Trivers, R. (2011). Deceit and Self-Deception: Fooling Yourself the Better to Fool Others. London: Allen Lane. Trad. in italiano nel 2013 come La follia degli stolti. La logica dell'inganno e dell'autoinganno nella vita umana. Torino: Bollati Boringhieri.

[11] Campbell, A. (2013). A Mind of Her Own: The Evolutionary Psychology of Women. Second Edition, p. 117. Oxford and New York: Oxford University Press (2002 1a ed.). Citazione da (cit. da 208). Maltz, D. and Borker, R. (1982). "A Cultural Approach to Male-Female Miscommunication". In Language and Social Identity, edited by Gumperz, J., pp. 197-216: 208. Cambridge and New York: Cambridge University Press.

giovedì 19 maggio 2016

The Fate of a Healing Goddess _ Supplementary Material: Was the Antonine Plague really that bad?

My name is Antonine plague, queen of epidemics: Look on my (few remaining) documents, ye mighty historian, and despair!
Image: screenshot from Centurion: Defender of Rome, © 1990-1991, Magic Bits / EA.

My peer-reviewed paper The Fate of a Healing Goddess: Ocular Pathologies, the Antonine Plague, and the Ancient Roman Cult of Bona Dea was published in the Open Library of Humanities less than ten days ago. The contribution is included in a Special Collection entitled ‘Healing Gods, Heroes and Rituals in the Graeco-Roman World’ and edited by Panayotis Pachis (Aristotle University, Thessaloniki). If you haven't checked that issue out, you definitely should: it looks nothing short of amazing (added bonus: everything is available without paywall).
In the true spirit of open access, I am delighted to provide here an extended discussion on the reliability (or the lack thereof) of the most relevant ancient sources cited in my paper. You may consider this post as a sort of (quite informal) Supplementary material.
Comments are welcome!

I love this vintage poster! Next step: steampunk digital humanities.
Please be sure to check the OLH website!
Source: OLH
Was the Antonine plague really that bad? This banal question lays bare a crucial point. As noted lucidly by Christer Bruun, there are some persistent problems (2012). First of all, we should consider that in-group religious norms tend to strengthen belonging to any community against free-riders whose behaviour risks undermining the established moral code and subverting social relationship within the community and between the community and the god/s. The theodicic short-circuit between so many different cognitive domains, heuristics, and biases usually urges believers to undertake socially sanctioned - and possibly violent - actions. In the words of Richard P. Duncan-Jones, ‘Societies with no effective medical explanation for plague could easily blame it on human agency’ (Duncan-Jones 1996: 115). If the Antonine Plague was really that terrible, where are the ancient documents linking the outbreak of the plague to the persecution of scapegoats chosen among minorities?

Women, for instance, had already been the object of manic repression during the mid-Republic (331 BCE) when, after the death of some eminent men, the Senate sentenced 170 women to death because of the usual Roman obsession with female pudicitia plus paranoid concerns regarding conspiracy plots to poison high-ranking men with veneficia – which were probably just medicinal potions (Livy, Ab Urbe Condita Libri VIII 17; Pliny, Naturalis Historia, XXXIII vi 17; Valerius Maximus, Facta et Dicta Memorabilia, II v 3; see Cantarella 2010a: 70-73; venena were cited also as charge in the Bacchanalia affaire). As noted by Phyllis Culham, ‘It could simply be that an outbreak of illness was blamed on human agents and that women healers [i.e., initially two patrician, Cornelia and Sergia] were targeted’ (Culham 2004: 149). This precedent, expiated as a prodigium, set the route for other similar and more recent events in 180 BCE and 153 BCE (Cantarella 2010a: 70-75; Cantarella 2010b: 189-192). As far as I know, there is no mention whatsoever of women as scapegoats during the outbreak of the Antonine plague nor of the Bona Dea cult, which might be of interest if we consider that herbal medicines prepared by the priestess of the cult are attested (see Macrobius’ account in my paper). This absence, however, could be easily explained by the sheer scale of the disease and by a radically different social milieu (see Cantarella 1999).

Specifically regarding religious minorities, there is a handful of ancient sources (the most pertinent being the martyrdom in Lyon of a group of Christians, in 177 CE) of which, unfortunately, none is proven beyond reasonable doubt to be relevant (Bruun 2012: 153; the case of Lyon has been explained by a senatus consultum which allowed the use of criminals in the arena to cut down the cost of professional gladiatorial fights; ibid., 157). Yet, in a later and much different socio-political milieu, religious minorities (i.e., Christians) were struck by repression during the following outbreak of the so-called plague of Cyprian, from the name of the bishop of Carthage who described the symptomatology of this (probable) second wave of smallpox (ca. 251-270; see Stathakopoulos 2008; for the Christian theodicic explanation of this plague see Marshall 2008: 597). Interestingly, Bruun highlighted a consistent bias among historians to prefer the most catastrophic sources, which usually come from a much later date: Eutropius, Orosius, the sections of the Historia Augusta dedicated to Lucius Verus and Marcus Aurelius, and an epitome of Dio Cassius’ Ῥωμαϊκὴ Ἱστορία (LXXII xxiv 3-4), where he is reported to have famously written that ‘2,000 people often died at Rome in a single day’ during a new outbreak of the same plague (?) in ca. 189 (a guess ‘at least theoretically possible for the very large capital’ that was Rome; Scheidel 2013: 52).

When coeval sources are available, they are incomplete or not directly interested in covering the topic. Lucian of Samosata, for instance, wrote about the plague only when merely concerned to deplore the style chosen by two historians for their description of the disease (Crepereius Calpurnianus and, possibly, Callimorphus; see Πῶς δεῖ ἱστορίαν συγγράφειν 15-16, in Fowler and Fowler 1905: 109-136; cf. Bruun 2012: 129). Even the accounts of Galen might be doubted, for lack of precision: he wrote two different stories concerning the reason why he left the city of Rome, and only the later account clearly links the concern for leaving the city as soon as possible with the epidemic (see Bruun 2012: 145-146). Gilliam (1961) pinpointed the presence of Salus and Pietas in the numismatic record, without being able to detect any significant pattern (see Bruun 2012: 133). There is a significant amount of coeval legislation concerning peculiar situations which may recall the exceptional setting of an epidemics from the Digest, yet there are close to zero citations of the expected seriousness (Bruun 2012: 138-143).

Civil and religious documents possibly from the same period seem to be equally impervious to an unambiguous identification with the Antonine plague. Bruun lists three categories of relevant archaeological documents:
  1. six Eastern oracular responsa from Claros dealing with plagues (λοιμός), whose dating remains highly controversial;
  2. eleven Western inscriptions (one of which in Greek) with the same text (by imperial decree?), dedicated diis deabusque secundum interpretationem oraculi Clari Apollinis which an older generation of scholars ascribed to Caracalla’s concern for his own psychological and physical health, while more recent scholarship is inclined to identify with the consultation of Alexander of Abonuteichos by Marcus Aurelius himself. Interestingly, Alexander was the prophet behind the cult of the snake-god Glycon, and he was responsible for the diffusion of an oracle against the plague in the whole empire (cf. Lucian, Ἀλέξανδρος ἢ Ψευδομάντις, 36; in ibid. 48, however, the reason for the consultation might have been only the military campaign on the Germanic limes; Bruun 2012: 134, note n. 58);
  3. four bilingual inscriptions from the Roman Forum ex oraculo and dedicated to Athena, Zeus and the Ἀπωσίκακοι θεοί, possibly as a consequence of (2) (see Bruun 2012: 136-137 for discussion and bibliography; however, did the Ἀπωσίκακοι θεοί include Bona Dea? Was it possible not to think of her in the Roman Forum?).
It is well beyond the purview of this post to delve deeper into the analysis of these and other sources, which have already been assessed and discussed in the past. Suffice it to remark here that any rebuttal of these sources against a relation with the Antonine plague should take into consideration that the only reliable document dating from the well-attested Justininiac plague (dated 544 CE) merely concerns prices and salaries (Bruun 2012: 143).

Screenshot from the OLH homepage.
Source: OLH
To the list of possibly converging evidence, albeit questionable, we could add the increased recruitment of castris to ensure a flux of new soldiers after 168 CE (the Historia Augusta relate about the decision of Marcus Aurelius to enrol ‘freedmen, gladiators, Dalmatian and Dardanian bandits, and German tribesmen as soldiers’; Phang 2001: 342). Unfortunately no direct mention of the plague in the relevant sources, as usual. A matter of cultural sensibility, perhaps?
On the other hand, the terminus a quo for the rise of Christian apologetics is exactly the reign of Marcus Aurelius, and this fact may provide another clue to spot a significant change in the coeval mindscape (Bruun 2012: 155). Did Marcus Aurelius really mention simply en passant the plague in his Meditations because of its unimportance (Τὰ εἰς ἑαυτόν IX 2; but see also the reference to physicians and astrologers in ibid., IV 48)? Yet, he was a Stoic who was supposed to endure such dire situations.
Moreover, it could possibly be that the epidemic did not infect the whole empire. Duncan-Jones (1996), for instance, excluded Africa. However, we know from the available African inscriptions described in the paper that local military settlements were significantly devoted to Bona Dea, to Asclepius and Hygieia, and this for decades to come (Phang 2001: 342, note n. 77). Additionally, notwithstanding an approximate dating, the Roman African inscriptions testify to a significant devotion to Asclepius under the reigns of Marcus Aurelius and Commodus (Cadotte 2002; cf. Bruun 2012: 137 for an evaluation). Since the army was reputed the main vehicle of the epidemic since antiquity, a proposographical network analysis of the legions and their movements could provide us with the most interesting results.

It has also been noted that previous statistical analysis concerning the imperial building activity in Italy cannot yield definitive or convincing results of a decline from the 2nd century onward (Duncan-Jones 1996; Horster 2001). Bruun, who re-run the analyses to check them, argues that ‘the material lends itself to different conclusions, depending on the pattern one wants to see and the periods one construes’, not to mention the other factors at play which might swamp any identification such as ideological acts like ‘imperial self-glorification’ (Bruun 2007: 213). He also ‘underlined the fragility of this kind of proof by statistics’, while suggesting that the ‘dearth of projects under Marcus [Aurelius]’ might be an artefact due to the fact that many projects built under Hadrian might have been dedicated by Antoninus Pius (ibid.), therefore saturating the local demand (if any).

It could not be denied that, when approximate and fragmentary data rule, there could hardly be salvation in statistics. Yet, this is the only data available. In cases like this one, as ancient historians, we should be concerned with providing the most statistically plausible reconstruction at the time being, even if the data are nothing more than a historiographical cullender. This is a common theme in other historical natural sciences (palaeontology, palaeoclimatology, epidemiology, evolutionary biology, historical geology, cosmology). As Carol E. Cleland and Sheralee Brindell have observed, the causal connection of localised events studied by these sciences is characterised by an overdetermination of causes and an underdetermination of effects. As in our case, the main goal is to look for ‘telling traces’, or smoking guns, that ‘when added to the prior body of evidence establish that one (or more) of the hypotheses being entertained provides a better explanation for the total body of evidence now available than the other’ (Cleland and Brindell 2013: 194).

Contrary to what has been ascertained beyond any reasonable doubt for the spread of the Justinianic plague (Harbeck et al. 2013), in the case of the Antonine plague we still lack microbiological material from skeletal remains which might help researchers in narrowing the focus for further investigations. Unfortunately, we still rely on symptomatological descriptions from contemporary sources. Sure enough, a definitive answer will come from the recovery of microbiological analysis of samples from multiple, comparable, and trustworthy evidence, e.g., burial sites from the 2nd century CE in good taphonomic conditions. Yet, given that scientific results might still not yield definitive answers (see Manley 2014: 395), interdisciplinary historiographical research might unexpectedly contribute to uncover some distinct patterns, possibly more epistemically reliable than before. In the meantime, we can continue to gather epistemically warranted evidence in the framework of a consilience of induction, which, is consistently pointing to a pattern of anomalies from different historical sources.
Until proven otherwise, of course.

References

Bruun, C 2007 The Antonine Plague and the ‘Third-Century Crisis’. In: Hekster O, de Kleijn, G and Slootjes, D (eds.), Crises and the Roman Empire: Proceedings of the Seventh Workshop of the International Network Impact of Empire (Nijmegen, June 20-24, 2006). Leiden and Boston: Brill. pp. 201-217.

Bruun, C 2012 La mancanza di prove di un effetto catastrofico della ‘peste antonina’ (dal 166 d.C. in poi). In: Lo Cascio, E (ed.), L’impatto della “peste antonina”. Bari: Edipuglia. pp. 123-165.

Cadotte, A 2002 Une double dédicace à Apollon et à Esculape en provenance de Mactar. Epigraphica. Periodico internazionale di epigrafia 64: 93-106.

Cantarella, E 1999 La vita delle donne. In: Giardina, A and Schiavone, A (eds.), Storia di Roma. Turin: Einaudi. pp. 867-894.

Cantarella, E 2010a (1996) Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia. Milan: Feltrinelli.

Cantarella, E 2010b (1995) Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico. Milan: Rizzoli

Cleland, C E and Brindell, S 2013 Science and the Messy, Uncontrollable World of Nature. In: Pigliucci, M and Boudry, M (eds.), Philosophy of Pseudoscience: Reconsidering the Demarcation Problem. Chicago and London: The University of Chicago Press. pp. 183-202.

Culham, P 2004 Women in the Roman Republic. In: Flower, H I (ed.), The Cambridge Companion to the Roman Republic. Cambridge: Cambridge University Press. pp. 139-159.

Duncan-Jones, R P 1996 The Impact of the Antonine Plague. Journal of Roman Archaeology 9: 108-136. DOI: http://dx.doi.org/10.1017/S1047759400016524

Fowler, H W and Fowler, F G 1905 The Works of Lucian of Samosata, Complete with Exceptions Specified in the Preface, translated by H. W. Fowler and F.G. Fowler. In Four Volumes. Volume II. Oxford: Claredon Press.

Gilliam, J F 1961 The Plague under Marcus Aurelius. The American Journal of Philology 82(3): 225-251. DOI: http://dx.doi.org/10.2307/292367

Harbeck M, Seifert L, Hänsch S, Wagner D M, Birdsell D, Parise K L, Wiechmann, I, Grupe, G, Thomas, A, Keim, P, Zöller, L, Bramanti, B Riehm, J and Scholz, H G 2013 Yersinia pestis DNA from Skeletal Remains from the 6th Century AD Reveals Insights into Justinianic Plague. PLoS Pathogens 9(5): e1003349. DOI: http://dx.doi.org/10.1371/journal.ppat.1003349

Horster, M 2001 Bauinschriften römischer Kaiser: Untersuchungen zu Inschriftenpraxis und Bautätigkeit in Städten des westlichen Imperium Romanum in der Zeit des Prinzipats. Stuttgart: Steiner.

Manley, J 2014 Measles and Ancient Plagues: A Note on New Scientific Evidence. Classical World 107(3): 393-397. DOI: http://dx.doi.org/10.1353/clw.2014.0001

Marshall L 2008 Religion and Epidemic Disease. In: Byrne, J P (ed.), Encyclopedia of Pestilence, Pandemics, and Plagues. Volume 2, N-Z. Westoport, CT and London: Greenwood Press. pp. 593-600.

Phang, S E 2001 The Marriage of Roman Soldiers (13 BC-AD 235): Law and Family in the Imperial Army. Leiden, Boston and Köln: Brill.

Scheidel, W 2013 Disease and Death. In: Erdkamp, P (ed.), The Cambridge Companion to Ancient Rome. Cambridge: Cambridge University Press. pp. 46-59.

Stathakopoulos, D 2008 Plagues of the Roman Empire. In: Byrne, J P (ed.), Encyclopedia of Pestilence, Pandemics, and Plagues. Volume 2, N-Z. Westoport, CT and London: Greenwood Press. pp. 536-538.