lunedì 28 luglio 2014

“Ma allora l’evoluzione oggi è terminata, no?!?”

La secca risposta al titolo di questo post. Qui potete anche finire di leggere. Se però non vi basta la risposta del Grumpy Cat, e volete capire cosa diamine c’entrino gli stafilococchi con lo studio storiografico, allora siete invitati a proseguire la lettura qui sotto.
Immagine dal sito Quickmeme, segnalato sul blog ufficiale del ©Grumpy Cat.

ResearchBlogging.org
Siamo nel 1958. Lo storico francese Fernand Braudel ha appena scritto che esistono “strutture” che vincolano e immobilizzano la storia umana, e dalle quali non ci si può liberare. «L’uomo», scrive Braudel, «è prigioniero per secoli di climi, di vegetazioni, di popolazioni animali, di culture, in un equilibrio costruito lentamente dal quale [l’uomo] non si può allontanare senza rischiare di rimettere tutto in discussione» [1]. Torniamo nel presente. Un conoscente che ha compiuto studi umanistici mi domanda: «Con l’arrivo dell’uomo tutto è stato controllato a livello culturale, giusto? Ma quindi l’evoluzione oggi è finita, no? Mica capita più?!?». Ecco, d’un tratto, mentre penso alla faccia di Richard Dawkins rimasto vittima di una trollata creazionista, mi viene in mente che forse c’è un nesso tra le due affermazioni, per quanto differenti, e che vale la pena di indagare. Scusandomi con il mio conoscente, concedo diritto di precedenza allo storico francese e mi concentro per un momento su quelle «realtà biologiche» che Braudel ritiene così difficili da spezzare [2], per cercare di contestualizzarle*.

*: Certo che abbiate letto il trittico di post precedenti, salto a piè pari tutta la lunga e forse noiosa spiegazione su chi è e cosa ha fatto Braudel.

Il nodo fondamentale dell’affermazione di Braudel è un certo pessimismo riguardo all’assoluta lentezza o immobilità della “lunga durata” biologico-geografica. C’è qui all’opera un fraintendimento peculiare. Ritenere che persino su una scala di centinaia di anni, storiograficamente breve e geologicamente infinitesimale, la biologia e la geografia vincolino irreparabilmente la storia significa immaginare una biologia e una geografia sostanzialmente statiche. Ecco che, adottando la prospettiva del tempo profondo, sentire da uno dei fautori dello studio della longue durée che a livello biologico e geografico in fin dei conti è tutto bloccato o fermo, sembra un po’ un paradosso.
Per inquadrare la risposta occorre pertanto tornare ai paletti fondamentali dell’impalcatura evoluzionista. E dato che si è già fatto in tutti i modi possibili e immaginabili, questa volta riprendo una efficace tabella ideata da Edmund Russell, che elenca i fraintendimenti più comuni riguardo al concetto di evoluzione:

Lo specchietto da sussidiario delle elementari che dovrebbe essere obbligatoriamente affisso, in quarta di copertina, sui manuali universitari di storia. Trad. tempiprofondi.blogspot.it

Per quanto incommensurabilmente diverse, le radici del pessimismo braudeliano e del mio interlocutore forse hanno davvero qualcosa in comune, e questo massimo comun denominatore potrebbe essere la griglia mediana delle “idee popolari” presente nello specchietto riportato qui sopra. Ora, in tale prospettiva il luogo d’elezione della cultura umana è proprio la stasi, all’interno di un mondo biologico-geografico ritenuto grosso modo immobile. Insomma, l’evoluzione non è un argomento degno di attenzione storiografica, perché o ha luogo nei milioni di anni (un intervallo al di là di qualunque modello storiografico umanista), o non agisce più (è terminata), oppure è già arrivata all’ultimo piano e nec plus ultra, quasi fosse un’ascensore (destinazione? Homo sapiens, naturalmente).
Lasciamo perdere per un momento le inevitabili deformazioni progressioniste che spesso e volentieri soggiacciono a simili speculazioni. Piuttosto, Russell ha formulato un efficace contro-argomento quando ha notato che si ha sempre l’impressione che, secondo il cosiddetto “senso comune”, «l’evoluzione sia qualcosa che capiti “là fuori” – ben lontana da noi nel tempo, ben lontana da noi nello spazio, ben lontana da noi come specie, e certamente ben lontana da noi come individui» [3]. Tradotto in soldoni: l’evoluzione è qualcosa che è accaduto esclusivamente nel passato (perché oggi gli animali non cambiano più) e, ad ogni modo, se non sono dinosauri pesanti tonnellate, mastodonti o megateri da museo, l’evoluzione non attacca. Sembrano qui convergere due errori da manuale:

  1. la fiducia innata nella fallace biologia intuitiva, per cui il simile produce il simile;
  2. il pernicioso errore dell’essenzialismo di cui si discuteva tempo fa, e che ha radici profonde nella storiografia novecentesca

Come nel caso dello studente tolemaico, siamo su una rotta completamente sbagliata. Occorre cambiare completamente prospettiva, e questo è ciò che la scienza ci permette di fare. Come ha scritto Russell, «l’evoluzione è ordinaria, non eccezionale. Ha luogo tutto intorno (e dentro) ad ognuno di noi […]. Raramente ce ne accorgiamo, ma l’evoluzione modella continuamente le nostre vite» [4]. D’accordo, ma a questo punto ci si può legittimamente domandare quale rilevanza questa concezione possa avere per lo studio storiografico.

Là dove Braudel e il mio interlocutore vedevano vincoli e prigioni, o più prosaicamente una “roba scientifica” archiviata molto tempo fa con l’arrivo di H. sapiens, evoluzionisti e cognitivisti vedono oggi un intreccio continuo di vincoli e di contingenze, la cui base è sempre e comunque coevoluzionistica. Quando si tirano in ballo biologia, geografia e altri aspetti del mondo naturale, occorre pertanto riconsiderare e calibrare le cornici di analisi su scale assai differenti. Proviamo a chiarire questo aspetto con un esempio, scelto tra i molti disponibili e ricordati da Russell nella sua monografia (tra cui, ad esempio, elefanti e cacciatori, salmoni e comunità di pescatori, ecc. Per chi fosse interessato, qui si parla di un esperimento in laboratorio sull’osservazione dell’evoluzione in E. coli).

Nel 1958, proprio quando Braudel lamentava l’ingabbiatura dello storiografo (e della storia stessa) all’interno di monolitiche e pressoché insormontabili griglie biologico-geografiche, era all’opera un mirabile esempio di inseguimento, o di “corsa alle armi”, tra evoluzione culturale (che è sempre frutto della storia profonda biologica) ed evoluzione genetica: la resistenza sviluppata dai batteri (nel nostro caso, lo stafilococco, gen. Staphylococcus) agli antibiotici individuati e utilizzati da H. sapiens. Russell ha delineato sinteticamente nove passaggi che rendono conto di un pressoché eterno inseguimento o confronto-scontro tra geni e cultura – insomma, il materiale dell’evoluzione tout court: geneticamente, le popolazioni di stafilococco evolvono l’abilità di infettare le popolazioni umane, ma queste ultime, culturalmente, approdano alla penicillina (nel 1943). Allora, sempre impegnati in ogni sorta di malvagio intrigo come nel cartone animato degli anni Ottanta Siamo fatti così, gli stafilococchi evolvono geneticamente la resistenza alla penicillina nel 1946. Grazie alla loro capacità di individuare e decostruire i rapporti di causa ed effetto e alla condivisione culturale di informazioni simboliche tramite l’esternalizzazione di contenuti scritti [5], tre anni più tardi gli esseri umani sostituiscono la penicillina con la meticillina ma gli stafilococchi, sempre sul pezzo, evolvono la resistenza alla meticillina nel 1961. Tutto da rifare per gli esseri umani, che approdano alla vancomicina, resa inutilizzabile dal 1986 a causa dell’incapacità degli stafilococchi di adeguarsi ai precetti umanistici dell’immobilità braudeliana. E se nel 2001 il linezolid (Zyvox) è diventata la nuova arma di cui disporre, gli stafilococchi sono diventati resistenti a questo antibiotico dal 2001… e così via [5].

Vediamo un momento cosa capita. Il tasso di mutazione dei batteri, mentre si riproducono da un corpo ospite a un altro, produce talvolta e casualmente una resistenza all’antibiotico (all’inizio del Novecento quest’ultimo veniva ricavato da altri batteri e da funghi); quel ceppo mutato di batteri, magari aiutato da una non accorta terapia farmacologica, sopravvivrà e si diffonderà grazie al rapidissimo tasso di riproduzione dei suddetti batteri, a scapito degli altri conspecifici privi dell’eventuale mutazione.
Ora, la diffusione della malattia nelle popolazioni umane, a seconda delle peculiari distribuzione e frequenza, può diventare a cascata un evento religioso (specie se in tempi premoderni o in località scarsamente interessate dalla secolarizzazione), culturale, socio-politico, economico, finanziario, ecc. Pensiamo, ad esempio, alle campagne antivacciniste oggi in voga che, creando una breccia nell’immunità di gruppo, favoriscono la diffusione di malattie del tutto sotto controllo fino a poco tempo fa. Oppure, prima di qualunque terapia antibiotica, alla peste antonina, un evento cardine all’interno della crisi del III secolo e.v., con tutte le sue ripercussioni di lunga e lunghissima durata sulla (in)stabilità del sistema statale romano. Siamo di fronte a fattori storici con enormi ripercussioni su più livelli biologici, sociali o cognitivi. Ed ecco che l’epidemiologia delle patologie scivola senza soluzione di continuità verso un’epidemiologia delle rappresentazioni culturali. Non a caso la longue durée è stata associata allo studio della frequenza e distribuzione delle patologie nelle popolazioni umane (benché in modo metodologicamente desueto, scientificamente problematico e, come già nel metodo di Braudel, secondo prospettive di analisi essenzialmente statiche... ed ecco riemergere il paradosso della longue durée [6]).

Una comprensione profonda di questi fenomeni esige uno studio che abbia solide basi scientifiche e, soprattutto, impone un cambiamento di prospettiva notevole rispetto ai tradizionali strumenti di indagine. Perché la longue durée delle Annales è uno strumento prezioso che va riaggiornato e attentamente riadattato ancorando lo studio a una cornice temporale e scientifica assai più vasta di quanto gli storiografi non abbiano mai immaginato [7].
Lo studio della storia non può non prendere atto di questo cambiamento epocale. Come ha scritto David Christian, «Vedere la storia umana come parte di una storia molto più vasta inciderà sul modo in cui gli storici pensano la ricerca, sulle domande da porre, sul modo in cui collaborare [con le discipline scientifiche] e sul modo in cui essi giudicano il significato del sapere accademico» [8]. Ce la possiamo fare? Io credo di sì.

[1] Braudel 1973: 65.
[2] Ibidem.
[3] Russell 2011: 5.
[4] Ibidem.
[5] Russell 2011: 98.
[6] Sallares 2005; Sallares 2014: 255.
[7] Armitage e Guldi in press, dove si cita tra laltro Daniel Lord Smail.
[8] Christian 2010: 19.

Armitage, D. & J. Guldi (in press). “Le Retour de la longue durée. Une perspective anglo-saxonne [The return of the long durée: an anglo-american perspective]”. Annales. Histoire, Sciences sociales (69).

Braudel, F. (1973). “Storia e scienze sociali. La 'lunga durata'”. In Scritti sulla storia, 57-74. Milano: Mondadori. Pubblicato originariamente come Braudel, F. (1958). Histoire et sciences sociales: la longue durée. Annales. Histoire, Sciences Sociales, 13 (4), 725-753 DOI: 10.3406/ahess.1958.2781 (raccolto poi in Écrits sur l’histoire, Flammarion, Paris 1969).

Christian, D. (2010). The return of universal history. History and Theory, 49 (4), 6-27 DOI: 10.1111/j.1468-2303.2010.00557.x

Russell, E. (2011). Evolutionary History: Uniting History and Biology to Understand Life on Earth. Cambridge and New York: Cambridge University Press.

Sallares R (2005). Pathocoenoses ancient and modern. History and philosophy of the life sciences, 27 (2), 201-20 PMID: 16602486

Sallares R. (2014). “Disease”. In A Companion to Mediterranean History, edited by Peregrine Horden & Sharon Kinoshita, 250-262. Malden and Oxford: Wiley-Blackwell.