domenica 16 giugno 2013

La fragilità della scienza: Why Religion Is Natural and Science Is Not di Robert N. McCauley #8

Robert N. McCauley, Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford-New York 2011.
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Ultimo appuntamento con le conclusioni del volume di Robert McCauley (per le puntate precedenti si rimanda alla lettura dei seguenti post: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7). Partiamo subito in medias res:
La sopravvivenza della scienza non è scontata perché le basi della sua esistenza sono fragili.
Nel post precedente è stato introdotto il concetto che la scienza dipende dal sostegno istituzionale. Il problema fondamentale per la sopravvivenza della scienza, però, si gioca su più versanti. Li elenchiamo brevemente di seguito:
  1. la libertà della ricerca confligge con i poteri religiosi e politici e propone interpretazioni e soluzioni basate sui fatti ma non congeniali al potere istituzionale, alle pratiche industriali (come il fatto che gli allevamenti industriali di massa favoriscono la presenza di agenti patogeni resistenti agli antibiotici mentre sprecano ingenti quantitativi di risorse idriche), alla moltitudine di qualunque estrazione socio-culturale o paese che condivide credenze fallaci ma fortemente radicate (come la fissità delle specie) e agli interessi delle compagnie che inseguono il profitto capitalistico (si pensi agli studi che dimostrano l’effetto dei combustili fossili sul riscaldamento climatico) . Come ricorda McCauley, «Popper aveva sostenuto che la scienza è stata una delle principali forze nella storia che hanno condotto alla libertà dell’uomo» [1];
  2. i finanziamenti dei quali la scienza necessita possono essere forniti da società o aziende che hanno però come obiettivo principale la risoluzioni di problemi specifici dell’ente finanziatore medesimo (spesso legati all’incremento della produttività e/o del profitto dell’ente); inoltre i risultati delle ricerche in questi casi possono essere posti sotto brevetto e ritenuti proprietà dell’ente stesso (ecco perchée da comitati di scienziati e di addetti ai lavori sulla base del merito scientifico della proposta) [2]. La storia della scienza è imprevedibile (come la storia in generale) e contingente: non si può cercare di incanalare la ricerca, ma si può accompagnare la ricerca con uno «scetticismo disciplinato», rivolto anche nei confronti della scienza stessa [3];
  3. da circa trent’anni, in modo pressoché ininterrotto in ambito occidentale e in particolar modo in quello statunitense, si cerca sistematicamente di «ignorare, oscurare e sovvertire» i risultati e le prove della ricerca scientifica al preciso scopo di «prevenire la disseminazione delle teorie scientifiche prevalenti», di screditare il modello stesso della ricerca e lo standard qualitativo della stessa, allo scopo di imporre ideologie politiche e religiose [4]. La lista pressoché infinita di abusi a fini commerciali, statali e/o religiosi perpetrati ai danni della credibilità dell’impresa scientifica chiarisce la gravità di questo punto: 3.1. antievoluzionismo allo scopo di imporre a livello nazionale l’insegnamento complementare, o sostitutivo, del creazionismo religioso dell’Intelligent Design nelle scuole dell’obbligo; 3.2. negazionismo relativo ai gravi problemi ambientali causati dalla produzione chimico-industriale, dalla deforestazione e dalla costante riduzione della biodiversità; 3.3. pericolose prese di posizione riguardanti l’area medico-sanitaria, quali la negazione di problemi legati alla presenza del fumo passivo e di zuccheri e sale nei prodotti alimentari industriali, la limitazione dell’accesso ai prodotti contraccettivi, alla cosiddetta “pillola del giorno dopo” o all’aborto, e il suggerimento di pratiche inefficaci per limitare le malattie sessualmente trasmissibili (invece di sostenere, ad esempio, l’efficacia comprovata dei preservativi, se utilizzati correttamente); 3.4. limitazioni ideologiche alla ricerca bio-medica, quale la ricerca sulle cellule staminali (embrionali o no) [5].
  4. i danni di tali atteggiamenti sono ingenti, a livello sia internazionale che nazionale. L’impreparazione scientifica favorita a livello nazionale non può produrre una valida risposta alle ondate antiscientifiche tipiche di regioni nelle quali sono particolarmente diffuse istanze fondamentaliste religiose (si pensi ai tristi casi di antivaccinismo promossi di recente in Nigeria e in Pakistan, dove le campagne internazionali di vaccinazione sono state violentemente bloccate e/o ritenute espressione di una cospirazione occidentale anti-islamica) [6].
Alan Leshner, amministratore delegato dell’American Association for the Advancement of Science, ha scritto: «Ciò a cui stiamo assistendo è l’affermazione di ideologi i quali possiedono la capacità di influenzare il corso della scienza come mai prima d’ora. Essi dicono, “Non mi piace la scienza, non mi piace ciò che dimostra”, e quindi la ignorano. E siamo ad un punto, oggi e in questo paese, dove tale posizione può funzionare. L’integrità fondamentale della scienza è sotto assedio» [7]. A livello nazionale, McCauley cita i dati a sostegno del declino della preparazione scientifica degli studenti statunitensi (ma non è difficile traslare tali dati alla situazione italiana, ad esempio), la diminuzione degli studenti statunitensi che scelgono un cursus studiorum nelle discipline scientifiche, un declino nella presenza di studiosi statunitensi nelle pubblicazioni scientifiche e, soprattutto (il punto forse più grave) il progressivo venir meno del sostegno finanziario statale e privato in una moltitudine di aree della ricerca [8].

La conclusione del volume è chiara e semplice: la scienza è un’impresa cognitivamente fragile e dipende da un continuo sostegno da parte dei governi e delle società democratiche. I decisori politici devono fare scelte responsabili per permettere che le condizioni di fare scienza possano sussistere. Inoltre, gli immediati interessi privati e industriali nei confronti della ricerca devono essere tenuti a freno e controllati, mentre i dirigenti dovrebbero prendere in considerazione gli interessi (sociali e collettivi) a lungo termine.
Sono punti banali, forse, ma va ricordato ancora una volta che la scienza e i suoi prodromi nell’antica Grecia, in quanto impresa collettiva, sono stati già persi una volta e reinventati nel XVII secolo e.v. Purtroppo, come ammonisce McCauley, la scienza in quanto tale si può perdere nuovamente, specie se consideriamo le limitazioni cognitive che abbiamo già avuto modo di ricordare: «Una delle conseguenze della posizione che ho difeso [nel corso del libro] è che nessun aspetto particolare della natura umana sarà mai in grado di prevenire di nuovo la perdita della scienza» [9].

[1] Robert N. McCauley, Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford-New York 2011, p. 280 (cfr. K. Popper, Conjectures and Refutations: The Growth of Scientific Knowledge, Routledge, London 1992, p. 102).
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. 281.
[4] Ivi, p. 282 (cfr. Chris Mooney, The Republican War on Science. Revised and Updated, Basic Books, New York 2005)
[5] Ivi, pp. 282-283; la lista qui presentata non è esaustiva.
[6] Ivi, p. 283.
[7] Ibidem (cit. presente in M. Specter, Political Science: The Bush Administration’s War on the Laboratory, in «New Yorker», March 13, 2006, pp. 58-69). La sottolineatura appartiene a McCauley.
[8] Ivi, p. 284.
[9] Ivi, p. 286.

sabato 15 giugno 2013

Il sostegno istituzionale è necessario per la ricerca scientifica: Why Religion Is Natural and Science Is Not di Robert N. McCauley #7

Robert N. McCauley, Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford-New York 2011.
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Penultimo appuntamento con le conclusioni del volume di Robert McCauley (come al solito, per le puntate precedenti cliccate qui: 1, 2, 3, 4, 5, 6).
La scienza dipende profondamente dal sostegno istituzionale
Poiché la scienza è un’attività dispendiosa in termini di tempo, energie e disponibilità materiali, l’attività di ricerca e il controllo delle frodi condotta dalle comunità di scienziati deve essere sostenuta in modo continuo dalle istituzioni e richiede inoltre la disponibilità di un numero consistente di individui che hanno portato a termine un lungo percorso di preparazione intellettuale. La scienza è rara, non richiede solamente la mera alfabetizzazione ma la comprensione avanzata di svariate capacità (linguistiche e matematiche, ad esempio); servono come minimo vent’anni di preparazione formale per poter partecipare ai più alti livelli della discussione scientifica; non esistono molti individui in senso assoluto che raggiungono tali livelli, e i paesi che sostengono la ricerca scientifica in modo adeguato sono una minoranza sul pianeta Terra [1]. Un ultimo punto: a partire dalla costruzione dei complessi apparati di ricerca (come l’Osservatorio di Greenwich, edificato tra 1675-1676) e dai viaggi e dalle esplorazioni intorno al mondo (che coniugavano l’acquisizione di conoscenze dalle quali le compagnie avrebbero potuto trarre vantaggi e eventualmente profitti, con la ricerca scientifica volta ad accumulare dati sensibili biologici o geologici ed esemplari fossili o zoologici), fino alla costruzione degli acceleratori di particelle contemporanei, la scienza ha avuto sempre necessità di ingenti finanziamenti [2].
La religione, al contrario, non necessita di tali prerequisiti. Ora, è senz’altro vero, nota McCauley, che le cosiddette “religioni del libro” condividono alcuni temi comuni, ma la religione nel senso più ampio non si basa né sulla disponibilità di testi stampati, né sull’esistenza di una comunità di individui che hanno studiato per anni (o decenni): gli studiosi in genere sopravvalutano l’importanza del testo stampato (un’innovazione recente) o dell’alfabetizzazione tout court (storicamente recente in senso lato) [3]. Esistono reperti paleoantropologici che, per quanto discutibili, dimostrano come qualcosa di assimilabile almeno lato sensu al sentimento religioso possa precedere in senso assoluto l’invenzione di un alfabeto codificato, senza contare che, banalmente, nel tempo gli etnografi sono venuti a contatto con popolazioni (oggi sempre più rare) che non sapevano nemmeno dell’invenzione dell’alfabetizzazione. Come chiosa McCauley,
«il fatto che la religione preceda sia l’alfabetizzazione sia la nascita della storia umana, che sorga in ogni cultura umana, che ricompaia e persista persino quando viene vigorosamente ostacolata, tutto ciò indica che la religione dipenda assai meno dal sostegno istituzionale di quanto possa sembrare» [4].
continua...

[1] Robert N. McCauley, Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford-New York 2011, p. 277.
[2] Ivi, p. 279.
[3] Ivi, p. 276.
[4] Ibidem.

venerdì 14 giugno 2013

La scienza è un’operazione sociale: Why Religion Is Natural and Science Is Not di Robert N. McCauley #6

Robert N. McCauley, Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford-New York 2011.
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Il quinto punto delle conclusioni del volume di Robert McCauley (come al solito, per le puntate precedenti cliccate qui: 1, 2, 3, 4, 5) contiene probabilmente le considerazioni storiografiche più importanti del volume. In sintesi, 
La scienza è un’operazione eminentemente sociale.
Come già accennato in precedenza, la scienza ovvia alle limitazioni cognitive individuali tramite la sua organizzazione sociale [1]; al contrario dell’idea cartesiana (e largamente condivisa dai media e dai non addetti ai lavori) del pensatore singolo come «una mente isolata, individuale, considerata indipendentemente dalle sue connessioni con il corpo […] e [intenta] ad estrarre inferenze deduttive dai principi teorici» [2], la scienza è un processo sociale – e solo in quanto processo sociale condiviso nel tempo e nello spazio, composto da ricercatori e studiosi, può in buona parte rimediare al fatto che gli studiosi individualmente «dimenticano cose, hanno a che fare con euristiche cognitivamente naturali (ma fallaci), fanno errori nei loro ragionamenti, preferiscono le proprie teorie rispetto a quelle degli altri (e cercano le evidenze di conseguenza) e sono suscettibili all’intrusione delle disposizioni maturativamente cognitivi della mente» [3]. Di fatto, le storie della scienza incentrate su pochi grandi uomini che hanno fatto il corso della storia della ricerca, per quanto utili e in buona parte veritiere, non riflettono il fatto che quelle figure (specie nel passato, talvolta dei veri giganti sulle cui spalle hanno costruito e visto più lontano altri studiosi) hanno interagito con altri studiosi, hanno corretto o modificato le loro ipotesi sulle base di proposte avanzate da terzi, e che le loro idee sono state da subito passate al vaglio dell’analisi di altri studiosi interessati a verificarle, falsificarle o aggiornarle [4].

Il problema della presenza della scienza nelle società del passato, dunque, è subordinato ai seguenti punti basilari:
  1. La società deve permettere la libera indagine e la libera critica riguardo al modo di funzionamento del mondo e l’esposizione pubblica di tali posizioni;
  2. La società deve sostenere il riconoscimento pubblico dell’importanza di tale pratica, in particolar modo a livello dei decisori politici [5].
I due casi storici che McCauley ripercorre brevemente sono quelli della Cina antica e del mondo islamico medievale. Nel primo caso, benché la Cina abbia goduto di una considerevole conoscenza tecnologica, in taluni periodi persino superiore a quella europea, sono mancate le necessarie condizioni sociali (come il riconoscimento di uno spazio pubblico di libera ricerca) e politiche (sotto le dinastie Sung e Ming, ad esempio, si è privilegiata per gli impiegati statali una preparazione letteraria che non conteneva pressoché nulla di scientifico – i decisori politici non hanno quindi favorito o sostenuto lo sviluppo di discussioni pubbliche) [6].
Nel secondo caso, invece, la questione è forse più complessa. Il retaggio culturale greco per quanto riguarda la filosofia, la matematica e i lavori scientifici, è stato ripreso e persino ampliato e corretto là dove i testi antichi non avevano descritto opportunamente i fatti empirici. Come interpretare allora l’esistenza di un appoggio statale sotto forma di protezione politica, nonché di istituzioni ove condurre ricerche (come osservatori astronomici e ospedali), a fronte di una mancata istituzionalizzazione della ricerca scientifica nel mondo islamico medievale? I problemi che hanno impedito uno sviluppo della ricerca scientifica risiedono innanzitutto in un intreccio contingente di ordine politico-religioso. Ospedali e osservatori erano perlopiù luoghi edificati sulla base di convenzioni e sovvenzioni religiose – pertanto si configuravano come enti ove vigeva l’osservanza di una cornice religiosa, che imponeva giocoforza limiti e vincoli all’attività di ricerca: «la possibilità di stabilire istituti scientifici indipendenti o di incorporare altre branche della scienza (oltre alla matematica e all’astronomia) all’interno di una qualunque forma di educazione religiosamente autorizzata è stata raramente presa in seria considerazione, se mai lo fosse stata in precedenza» [7]. In secondo luogo l’oralità è sempre stata considerata epistemicamente più rilevante ai fini di un’educazione conforme a precetti coranici – ma è del tutto inadatta alla ricerca scientifica. La pedagogia nella madrasa, basata sull’apprendimento mnemonico del Corano e di altri testi religiosi, non facilita la critica di quei testi: «Il tempo e lo sforzo dedicati alla memorizzazione dei testi, siano essi religiosi o scientifici, non lascia molto tempo, energia o motivazione per l’esplorazione delle critiche delle posizioni sostenute in quei testi. È improbabile che la gente che ha investito migliaia di ore della propria vita a memorizzare vari testi si dimostri un pubblico ricettivo nei confronti della critica di quegli stessi testi» [8]. L’ultimo punto riguarda il saltuario e contingente appoggio politico fornito da patroni che spesso hanno offert oa pensatori e studiosi la necessaria protezione dai «meno curiosi e meno tolleranti guardiani dell’ortodossia islamica» [9]. Il risultato di ciò è stato, nelle parole che McCauley riprende da Toby Huff, che «“alla fine, lo sviluppo delle scienze naturali nel mondo islamico ha trovato un punto d’arresto tra il XIII e il XIV secolo”» [10].

La situazione europea era per certi versi peggiore dei due casi storici citati, almeno fino all’avvento di due casi particolari: la riscoperta e la traduzione dei testi greci tramite il mondo arabo e la nascita delle università come istituzioni indipendenti, i cui curricula hanno costituito i prodromi dell’insegnamento scientifico e nel contempo hanno fornito le credenziali appropriate per coloro i quali intendevano dedicarsi alle scienze naturali. Le università hanno inoltre contribuito, sul lungo periodo, «all’esclusione delle pseudoscienze e delle pratiche occulte come l’astrologia, la magia e l’alchimia dall’educazione formalmente sancita» [11]. La ricerca empirica che si diffuse poi nella cultura europea tra XVII e XVIII secolo e.v., recuperando e superando il livello di indagine a tutto campo che fu già perseguito nella Grecia antica, «trasformò l’Europa dal luogo remoto e impermeabile alle innovazioni che era nel principale centro della vita intellettuale del pianeta» [12]. La fondazione di accademie scientifiche nazionali (la Royal Society nel 1660 e l’Académie Royale des Sciences nel 1666) per la libera discussione e la condivisione interna degli studi e la cooperazione sovranazionale tra studiosi (in particolare dell’Inghilterra, della Francia e della Repubblica delle Sette Province Unite – che sarebbe diventata poi l’Olanda), rendono chiara l’interazione di due elementi indispensabili: benché le ostilità tra studiosi abbia talvolta costellato la storiografia della scienza (in particolare durante i confronti bellici tra gli stati dai quali provenivano gli studiosi), è stata solamente la cooperazione a rendere possibile lo sviluppo della scienza (si pensi ai dati astronomici confermati e verificati da osservazioni ripetute tra località diverse sul globo terrestre, oppure all’osservazione e lo studio di esemplari provenienti da ogni parte del mondo per la biologia e la zoologia) [13].
La competizione, ovviamente, è un elemento chiave per lo sviluppo della scienza, e dalla competizione possono nascere le frodi e le manipolazioni dei dati. Ma, e questo è forse uno dei punti più importanti del capitolo conclusivo, la scienza ad oggi si è dimostrata uno strumento migliore per regolare la competizione (surclassando il modello bancario e capitalistico di concorrenza: «gli scienziati hanno imparato molto tempo fa ciò che i capitalisti e i banchieri, in particolare, non sembrano essere stati mai in grado di apprendere, ossia che la competizione deve essere regolata con attenzione per assicurare trasparenza e correttezza all’interno del mercato, sia esso commerciale o scientifico») e per controllare l’onestà interna della ricerca («[…] c’è sempre virtualmente un altro membro della comunità scientifica pronto a verificare e, nel caso, a smascherare i malfattori. […] Nessun’altra istituzione, nemmeno la giurisprudenza, è maggiormente impegnata nel garantire l’integrità del controllo interno. Tutte le evidenze suggeriscono che la scienza faccia un lavoro migliore riguardo al monitoraggio interno di qualunque altra istituzione pubblica della storia umana») [14]. I mezzi per attuare questo continuo autocontrollo, e che abbiamo già ricordato in precedenza, sono i seguenti: replicabilità dei risultati sperimentali, revisione paritaria (peer review), revisione cieca o a doppio cieco (ove l’identità dell’autore della ricerca viene nascosta ai revisori – e viceversa – per evitare di incorrere in pregiudizi potenzialmente nocivi per la revisione), disponibilità pubblica delle ricerche e degli apparati scientifici [15]. Una volta pubblicato lo studio diventerà oggetto di indagine, di scrutinio e di verifica da parte di altri studiosi – e così via.

I punti fondamentali della moderna ricerca scientifica possono dunque essere così sintetizzati:
  1. condivisione;
  2. diffusione;
  3. critica;
  4. verifica;
  5. cooperazione;
  6. autocontrollo interno delle norme di condotta (volto allo smascheramento di eventuali frodi).
continua...

[1] Robert N. McCauley, Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford-New York 2011, p. 269.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Ivi, p. 270.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p. 271 (cfr. Toby E. Huff, The Rise of Early Modern Science: Islam, China and the West, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1993, pp. 308-309).
[7] Ibidem.
[8] Ivi, p. 272.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem (cit. da T.E. Huff, The Rise of Early Modern Science, cit., p. 168).
[11] Ivi, p. 278.
[12] Ivi, p. 273.
[13] Ibidem.
[14] Tutte le citt. da ivi, p. 274.
[15] Ibidem.

martedì 4 giugno 2013

Menti sistematizzanti, empatiche e autistiche: Why Religion Is Natural and Science Is Not di Robert N. McCauley #5

Robert N. McCauley, Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford-New York 2011.
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ResearchBlogging.org Siamo arrivati al quinto punto delle conclusioni di Why Religion Is Natural and Science Is Not di Robert N. McCauley (per le puntate precedenti si vedano i seguenti link: prima parte; seconda parte; terza parte; quarta parte). Il tema trattato in questa sezione riguarda il modo in cui determinati problemi relativi al cablaggio della mente possono rendere inoperosi i concetti religiosi. Come sintetizza McCauley, dunque,
4.4. Alcune disabilità nell’ambito cognitivo vanificano la presa cognitiva della religione.
La domanda di partenza è la seguente: nonostante la presenza pervasiva dei sistemi cognitivi maturativamente naturali (teoria della mente [ToM, theory of mind], agentività, ecc.), esistono casi in cui gli individui non possano o non riescano a rappresentarsi gli stati mentali e intenzionali degli agenti controintuivi tipici delle religioni?
Per rispondere a questa domanda, McCauley parte da un punto preciso della modularità fodoriana, ossia da quella danneggiabilità selettiva che conferma la specificità per dominio, per cui eventuali problemi dei sistemi neurali dovuti a incidenti o malattie non intaccano né diminuiscono le altre competenze e le capacità cognitive del soggetto, bensì mostrano deficit assai specifici. L’autore riporta come esempio gli individui affetti da afasia (deficit nell’elaborazione del linguaggio), da prosopagnosia (deficit nel riconoscimento facciale; il soggetto non riconosce i volti, nemmeno di persone familiari) e agnosia acustica (pattern simile al caso precedente, ma concernente il mancato riconoscimento delle voci) [1]

Ora, gli individui che non possiedono una «teoria maturativamente naturale della mente» [2] dovrebbero trovare non istintivo e «perlopiù imperscrutabile» il riferimento ad un’agentività fatta di rappresentazioni di stati intenzionali e desideri altrui. Tale cecità mentale (o mindblindness) è in effetti una delle disabilità maggiori riscontrate nello spettro dell’autismo: «Non solo i bambini autistici ricordano gli edifici e i paesaggi meglio di quanto non facciano con i volti umani, ma essi sembrano anche indifferenti al fatto che qualcosa sia animato» [3]. Il ritardo dello sviluppo delle capacità maturative, o il loro mancato sviluppo, si stabilisce grosso modo già a partire dal primo anno di età, quando i bambini autistici non stabiliscono un contatto visivo con coloro i quali se ne prendono cura in quel momento; inoltre non riescono né a tradurre l’indicazione di oggetti animati e inanimati da parte di terzi come qualcosa cui rivolgersi, né ad indicare per attirare l’attenzione visiva di qualcuno su qualcosa (in seguito, generalmente, non indicano nemmeno a parole per attirare l’attenzione). Tale disabilità è correlata con il ritardo nell’acquisizione del linguaggio.

L’autismo classico comprende dunque difficoltà nella comunicazione sociale, azioni ripetitive, interesse altamente focalizzato e il ritardo nell’inizio della comprensione e della produzione del linguaggio [4]. Come nota McCauley, esiste però un’ampia gamma di disabilità che vanno dalla versione “classica” appena ricordata per giungere, al capo opposto dello spettro, fino ai punti ove tali disabilità sfumano in segmenti popolazionali che manifestano versioni meno estreme di alcuni dei tratti tipici dell’autismo. In questo spettro di disabilità, la sindrome di Asperger, ad esempio, si differenzia dall’autismo classico poiché non coinvolge il ritardo nell’apprendimento del linguaggio e generalmente riguarda individui con un’intelligenza nella media o superiore alla media; essi possiedono invece gli altri tratti caratteristici, ossia la ristrettezza degli interessi, la ripetitività dei comportamenti e la difficoltà nelle relazioni sociali. Alcune di queste caratteristiche si ritrovano «a livello subclinico nel resto dell’umanità» [5].

Come sottolinea giustamente McCauley in talune circostanze alcune di queste caratteristiche possono essere vantaggiose (ad esempio, la memoria per i dettagli dell’ambiente circostante). Di fronte a tale complessità, però, come rendere conto del deficit della ToM in un così vasto repertorio di caratteristiche cognitive? Simon Baron-Cohen ha proposto una teoria che mette a confronto comparativamente le predilezioni umane nell’empatizzare e nel sistematizzare; in particolare, mentre la maggior parte delle persone sviluppa capacità in entrambi i campi, «le persone affette dai disturbi tipici dello spettro autistico manifestano ritardi e deficit nei compiti che richiedono di empatizzare, mentre possiedono abilità normali o addirittura amplificate per la sistematizzazione» [6]. Il ritardo nello sviluppo, o il mancato sviluppo, della capacità di individuare nei soggetti animati agenti intenzionali dotati di obiettivi e desideri causa un ritardo nel compito della falsa credenza (ossia un test in ambiente controllato che dimostra se il bambino è in grado di attribuire a terzi rappresentazioni mentali che differiscono dal suo stato di conoscenza), che i bambini affetti dalla sindrome di Asperger non riescono a portare a compimento se non dopo il decimo anno di età [7]. Nel contempo, possiedono una eccellente propensione alla sistematizzazione (McCauley riporta l’esempio di «relazioni matematiche tra elementi come calendari, elenchi telefonici, orari dei treni, targhe automobilistiche e statistiche sportive») [8]. Come fanno quindi i soggetti affetti dalla sindrome di Asperger a comportarsi nel mondo sociale? Imparano, faticosamente e lentamente, osservando le regolarità presenti nei comportamenti delle altre persone, ossia ponendosi come obiettivo un compito che invece, per le altre persone, è perlopiù maturativamente intuitivo [9].

Anche con una ToM costruita nel tempo ad hoc, tali persone troveranno la religione un elemento faticoso da pensare, estraneo e straniante [10]. È interessante però notare che almeno alcuni elementi dell’organizzazione religiosa non sono in disaccordo con i presupposti cognitivi delle forme di autismo di cui sopra: la routine implicita nella ripetizione rituale e le sequenze di azioni nelle storie narrate non offrono alcuna difficoltà (ammesso che non si debbano prendere in considerazione gli stati intenzionali degli agenti). In alcuni casi, le persone che esibivano tratti marcatamente autistici hanno trovato una peculiare modalità di espressione proprio nella religione: Uta Frith ha notato che i protagonisti delle storie aventi per protagonisti i cosiddetti “Folli per Cristo” (ossia, coloro i quali nel mondo ortodosso bizantino prima e in quello russo-slavo poi, assumevano il pubblico ruolo di folle, compiendo atti eccentrici con effetti tragicomici e ignorando le regole della condotta sociale; lo scopo era quello di denunciare l’ipocrisia della gente e dei potenti) sembrano essere stati affetti da alcune forme di autismo. Altrove, invece, la situazione non sembra essere delle migliori: Scott Atran ha documentato che in Arabia Saudita e in Pakistan si pensa solitamente che le persone affette da autismo siano possedute da spiriti e che pertanto debbano essere sottoposte ad esorcismo [11]. Sulla medesima falsariga, vale la pena ricordare che nel 1926 un alto prelato anglicano aveva proposto che l’assenza di una qualche credenza religiosa fosse indice di anormalità fisico-biologica, in ultima istanza mentale. Da qui, il suggerimento di agire per contenere l’incremento di tali individui “anormali” secondo pratiche eugenetiche. Recentemente un sociologo turco ha affermato grosso modo la stessa idea, proponendo invece l’uso di terapie utili ad instillare nei soggetti autistici in età preadolescenziale i concetti religiosi [12]. Siamo ovviamente di fronte ai rischi espliciti delle pericolose teorizzazioni di un homo (naturaliter) religiosus – un concetto ideologico e fideistico che è scientificamente e umanisticamente insostenibile.

McCauley, a questo punto, propone un interessante quesito. Per comprendere appieno questo punto occorre partire da due ricerche. La prima è basata sulle correlazioni tra la credenza in Dio e la capacità di mentalizzare (mentalizing, ossia il porre in essere una ToM), che uno studio popolazionale su campioni casuali ha confermato essere in rapporto direttamente proporzionale) [13]; la seconda ha evidenziato l’esistenza di “persone che eccellono nel riconoscimento facciale” (in un test condotto su fotografie di persone in giovane età, e sconosciute, che sarebbero diventate poi note al pubblico da adulti), le quali si pongono ad un capo di uno spettro che giunge, attraverso varie abilità sfumate nel campione popolazionale, fino agli individui affetti da prosopagnosia dello sviluppo (ossia non derivante da incidenti o traumi) [14]. Ora, si domanda McCauley, se «le persone con disordini dello spettro autistico rappresentano l’analogo delle persone affette da prosopagnosia dello sviluppo, dovremmo aspettarci persone che rispetto alla ToM e alla sua distribuzione lungo uno spettro si pongono nello stesso modo in cui si pongono le persone che eccellono nel riconoscimento facciale […]», ovvero che riescano ad eccellere nel rilevamento e nella gestione delle inferenze sulle menti altrui [15]. Seguendo la teoria binaria di Baron-Cohen sulle menti empatiche e sistematizzanti, McCauley ricorda che in tale senso questi individui sarebbero degli «iper-empatici» (banalmente, ciò non esclude comunque capacità anche in senso sistematizzante) [16]. Se la sindrome di Asperger può essere compresa come l’espressione parossistica ed esagerata di tratti cognitivi che sono presenti mediamente nelle menti maschili, essa può essere descritta come «iper-maschile» (ossia, «che associa abilità sistematizzanti in forma estremamente elevata con capacità empatiche minime») [17]. La tipologia di maggior interesse per lo studio in questione è però quello definita «iper-femminile», ovvero «iper-empatica» [18], avente cioè un’elevata capacità di rilevare le intenzioni e gli stati mentali di terzi.

Per sgombrare immediatamente il campo da accuse malriposte di preconcetti sessuali e di genere: si tratta di tipologie mentali che si verificano nella popolazione «a dispetto del sesso di appartenenza» [19]. Sono etichette che rappresentano eminentemente caratteristiche cognitive presenti nella menti degli individui, coniate a partire dalle capacità rilevabili e distribuite nella media della popolazione, e non c’entrano in alcun modo con l’orientamento sessuale o con il sesso di appartenenza: esistono menti maschili empatiche e menti femminili sistematizzanti. Ad ogni modo, in media, la distribuzione di capacità sistematizzanti è più alta nei maschi (e nei test di sistematizzazione le performance delle persone autistiche è più elevata di quelle dei maschi), mentre abilità empatiche sono maggiormente presenti in media nei rappresentanti femminili della popolazione (e nei test riguardanti l’empatia le persone affette da autismo si classificano al di sotto dei maschi) [20]. La tesi di lavoro di Baron-Cohen, sposata da McCauley, è quella di studiare più approfonditamente la presenza di menti iper-empatiche nella popolazione.

McCauley, da ultimo, ricorda alcuni dati sociologici sostenuti da quasi un secolo di indagini ma comunque ad oggi non del tutto dirimenti, e in parte insoddisfacenti, a causa dell’infiltrazione dei precedenti modelli culturali e sociali relativi al ruolo sessuale [21]. Secondo questi studi le donne dimostrerebbero «una maggiore propensione alla religiosità rispetto alle controparti sociali di sesso maschile, nei termini di un’espressione di impegno personale, di frequenza di partecipazione ai rituali religiosi, alla lettura di materiale religioso, e alla frequenza della preghiera» [22]; ciò sarebbe associato al fatto che la religiosità, secondo tali analisi sociologiche, si accompagna a caratteristiche della personalità che sono statisticamente più rilevanti nei soggetti di sesso femminile (lo ricordiamo, a dispetto del fatto che possano trovarsi in maschi o femmine) [23] e che le donne tendono in generale ad assumere rischi minori rispetto agli uomini [24]. Solo ulteriori studi cognitivisti potranno contestualizzare in modo più chiaro e scientifico tale questione.

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[1] Robert N. McCauley, Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford-New York 2011, p. 253.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. 254.
[4] Ivi, p. 255.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p. 256 (cfr. Simon Baron-Cohen, Autism and Asperger Syndrome: The Facts, Oxford University Press, Oxford-New York 2008, pp. 62-63).
[7] Ibidem. A cinque anni di età i bambini affetti da autismo con un intelligenza sopra la media non passano il test della falsa credenza (superato da bambini normali e da bambini affetti dalla sindrome di Down).
[8] Ivi, p. 257.
[9] Ibidem. L’esempio che riporta McCauley è il seguente: «benché un individuo affetto dalla sindrome di Asperger abbia ammesso che le lacrime di terzi non gli ispiravano alcuna risposta emotiva, aveva imparato quando e come “fingere” di averla» (il caso cit. proviene dal libro di Baron-Coehn, Autism and Asperger Syndrome, cit., p. 143).
[10] Ivi, pp. 258-259.
[11] Ivi, p. 261 (cfr. Uta Frith, Autism: Explaining the Enigma, Blackwell, Malden, MA-Oxford, 20032 [19891], pp. 19-23; Scott Atran, In Gods We Trust: The Evolutionary Landscape of Religion, Oxford University Press, Oxford-New York 2002, p. 194).
[12] Carlo Alberto Defanti, Eugenetica: un tabù contemporaneo. Storia di un’idea controversa, Codice ediizoni, Torino 2012, pp. 174-175; 
[13] Ivi, p. 264 (cfr. Ara Norenzayan, Will M. Gervais e Kali H. Trzesniewski, Mentalizing Deficits Constrain Belief in a Personal God, in «PLoS ONE», 7(5) 2012: e36880. doi:10.1371/journal.pone.0036880)
[14] Ibidem (cfr. Richard Russell, Brad Duchaine e Ken Nakayama, Super-Recognizers: People with Extraordinary Face Recognition Ability, «Psychonomic Bulletin & Review», 16, 2, pp. 252-257).
[15] Ivi, p. 264.
[16] Ibidem.
[17] A sostegno di tale ipotesi McCauley cita i seguenti fatti: «l’autismo è in parte ereditabile, l’autismo classico si verifica quattro volte di più nei maschi rispetto alle femmine, e la sindrome di Asperger colpisce i maschi nove volte di più rispetto alle femmine» (ivi, p. 264; dati da S. Baron-Cohen, Autism and Asperger Syndrome, cit., p. 33).
[18] Ivi, p. 265.
[19] Ibidem. La sottolineatura appartiene a McCauley.
[20] Ibidem.
[21] Ivi, p. 266 (cfr. R. Stark, Physiology and Faith: Addressing the ‘Universal’ Gender Difference in Religious Commitment, in «Journal for the Scientific Study of Religion», 41, 2002, pp. 495-507; p. 496).
[22] Ibidem (cfr. A.S. Miller e J.P. Hoffman, Risk and Religion: An Explanation of Gender Differences in Religiosity, in «Journal for the Scientific Study of Religion», 34, 1995, pp. 63-75; D.P. Sullins, Gender and Religion: Deconstructing Universality, Constructing Complexity, in «American Journal of Sociology», 112, 2006, pp. 838-880).
[23] Ivi, p. 267 (cfr. E.H. Thompson, Beyond the Sex Difference: Gender Variations in Religiousness, [sic: il tit. è in realtà Beneath the Status Characteristic: in Gender Variations in Religiousness] «Journal for the Scientific Study of Religion», 30, 1991, pp. 381-394; L.J. Francis e C. Wilcox, Religion and Gender Orientation, in «Personality and Individual Differences», 20, 1996, pp. 119-121; V. Saroglou, Religion and the Five Factors of Personality: A Meta-Analytic Review, in «Personality and Individual Differences», 32, 2002, pp. 15-25; D.E. Sherkat, Sexuality and Religious Commitment in the United States: An Empirical Examination, in «Journal for the Scientific Journal of Religion», 41, 2002, pp. 313-323; cfr. Miller e J.P. Hoffman, Risk and Religion, cit.; A.S. Miller e R. Stark, Gender and Religiousness, cit.).
[24] Ibidem (cfr. Miller e J.P. Hoffman, Risk and Religion, cit.; A.S. Miller e R. Stark, Gender and Religiousness: Can Socialization Explanations Be Saved?, in «American Journal of Sociology», 197, 2002, pp. 1399-1423).

Artt. indicizzati in Research Blogging:
Norenzayan, A., Gervais, W., & Trzesniewski, K. (2012). Mentalizing Deficits Constrain Belief in a Personal God PLoS ONE, 7 (5) DOI: 10.1371/journal.pone.0036880 Russell R, Duchaine B, & Nakayama K (2009). Super-recognizers: people with extraordinary face recognition ability. Psychonomic bulletin & review, 16 (2), 252-7 PMID: 19293090 Stark, R. (2002). Physiology and Faith: Addressing the "Universal" Gender Difference in Religious Commitment Journal for the Scientific Study of Religion, 41 (3), 495-507 DOI: 10.1111/1468-5906.00133 Miller, A., & Hoffmann, J. (1995). Risk and Religion: An Explanation of Gender Differences in Religiosity Journal for the Scientific Study of Religion, 34 (1) DOI: 10.2307/1386523 Sullins, D. (2006). Gender and Religion: Deconstructing Universality, Constructing Complexity American Journal of Sociology, 112 (3), 838-880 DOI: 10.1086/507852 Francis, L., & Wilcox, C. (1996). Religion and gender orientation Personality and Individual Differences, 20 (1), 119-121 DOI: 10.1016/0191-8869(95)00135-S Saroglou, V. (2002). Religion and the five factors of personality: a meta-analytic review Personality and Individual Differences, 32 (1), 15-25 DOI: 10.1016/S0191-8869(00)00233-6 Sherkat, D. (2002). Sexuality and Religious Commitment in the United States: An Empirical Examination Journal for the Scientific Study of Religion, 41 (2), 313-323 DOI: 10.1111/1468-5906.00119 Miller, A., & Stark, R. (2002). Gender and Religiousness: Can Socialization Explanations Be Saved? American Journal of Sociology, 107 (6), 1399-1423 DOI: 10.1086/342557 Thompson, E. (1991). Beneath the Status Characteristic: Gender Variations in Religiousness Journal for the Scientific Study of Religion, 30 (4) DOI: 10.2307/1387275