Stanchi di sentir dire che la scienza è il male assoluto che vuole distruggere la resistenza umanistica e ridurci tutti a bit e DNA? Stufi di lottare contro i cliché te(le)ologici in voga nella storiografia? Allora siete pronti a mettere via e riporre in cantina un bel po' di ciarpame storiografico. Immagine dell'utente HornM201 da Wikimedia Commons. |
Se avete letto gli ultimi due articoli della serie dedicata alla storia della storiografia, dovreste ormai aver cominciato a riporre in una scatolone di quelli da trasloco, grandi e capienti, le nostre intuitive limitazioni cognitive che individuano antropomorfismo e agentività nel mondo naturale e che assegnano senso e significato trascendente negli eventi umani. Forse vi siete già lasciati alle spalle le ovvie (e false) teleologie edificanti, i progressionismi trionfali, quei punti Omega verso cui tenderebbe il cammino dell’universo, o i fumosi fideismi che assegnano alla spiritualità mistica (qualunque cosa si voglia intendere) il senso dell’evoluzione umana.
Benissimo! Ora dovreste essere pronti a ritornare alla ricerca storica fatta come si deve. Con i documenti e con la minuscola, perché le maiuscole sono abusate e sottolineano troppo di frequente magniloquenti vaniloqui (che tra l’altro è una notevole allitterazione). Il problema principale – sul quale insisto – è che molti storici si sono opposti all’uso dei metodi scientifici nelle analisi storiche, sostenendo che questi non sono adatti per la comprensione del comportamento umano, troppo complesso per essere posto sotto la lente “riduzionista” della scienza [1]. Quante volte mi è capitato di sentire in dipartimento frasi come la seguente: “Ma la storia non si può mica fare in laboratorio!”. Oppure, “Ma la mente umana non si può mica ridurre al cervello! La storia è libera dalle imposizioni biologiche!” /facepalm/... Ci sono in ballo dei fraintendimenti su che cosa diamine è la scienza grandi quanto un kaijū di Pacific Rim. E forse la lezione delle Annales non è bastata. Via quindi con un breve vademecum di chiarimento ad uso e consumo storiografico.
Le scienze fisiche e la biologia molecolare studiano i rispettivi campi di indagine attraverso l’esperimento in laboratorio, uno dei metodi più efficaci mai escogitati nella storia dell’umanità per studiare le relazioni di cause ed effetto in un setting controllato e sottoposto alla ripetizione dei risultati. Ciò nonostante, altri campi chiaramente scientifici e che hanno a che fare con il passato non possono permettersi tale privilegio: come hanno sottolineato Jared Diamond e James Robinson «non si può manipolare il passato» [2]. Anche quando questo fosse possibile, i mezzi per ottenere i risultati desiderati sarebbero immorali o quantomeno discutibili (come fondere un ghiacciaio per uno studio geologico [3], oppure far esplodere una stella [4]). In tale situazione si trovano tutte quelle discipline che in un modo o nell’altro hanno a che fare con la storia, ossia «la biologia evoluzionistica, la paleontologia, l’epidemiologia, la geologia storica e l’astronomia» [5].
L’unico modo per ovviare a queste limitazioni e “fare scienza” è quello di «osservare, descrivere e spiegare il mondo reale, e includere le spiegazioni individuali in una cornice più ampia», attraverso «l’esperimento naturale», ovvero un rinnovato «metodo comparativo» [6]. innestato su coordinate scientifiche e biologiche [7]. Questo metodo, continuano Diamond e Robinson, «consiste nel confrontare – preferibilmente in modo quantitativo e con l’aiuto di analisi statistiche – sistemi diversi che siano simili fra loro sotto molti aspetti ma che differiscono in relazione ai fattori dei quali si vuole studiare l’influenza» [8]. Di fatto, in quest’ottica, le società umane del passato e del presente diventano esperimenti naturali in corso.
Occorrerebbe inoltre affondare le radici in una storia profonda milioni di anni, ed essere avvezzi allo studio primatologico e paleoantropologico per inquadrare evolutivamente la storia dei comportamenti umani, distinguendo attentamente (o ponendo l’analisi in termini critici in tutti i casi ove ciò sia possibile), tra omologia comportamentale veicolata dalla storia profonda in comune, e analogia dovuta all’attivazione convergente delle medesime risposte in ambienti simili. La comparazione scientifica del comportamento e della cultura degli esseri umani con l’universo primatologico, paleoantropologico e zoologico in senso lato modifica di per sé alcuni assunti disciplinari e umanistici ritenuti indiscutibili (quale una discontinuità più o meno assoluta tra uomo e animali), richiamando una rinnovata attenzione specifica nei confronti dei modelli e delle rappresentazioni culturali. Per essere adeguatamente spiegati, i pattern emergenti andrebbero quindi compresi in una più ampia cornice biologico-evoluzionista che si fondi sui presupposti delle ricerche cognitive (ma con la dovuta cautela, dato che «esistono tre o quattro specie idonee [al paragone] e queste sono filogeneticamente distanti sia le une dalle altre sia da noi» [9]). A loro volta, se inseriti nel contesto dei variabili network dell’organizzazione socio-politica, tali pattern possono rivelare peculiari strategie adottate dagli agenti storici e contribuire a chiarire la storia culturale, formando così l’oggetto di studio di una storiografia empiricamente verificabile grazie alle retrodizioni, ossia predizioni basate sul metodo scientifico e rintracciate in conseguenze già accadute nel passato (verificabili sulla base di nuovi documenti – o di dati già noti ma rianalizzati) [10].
Occorrerebbe inoltre affondare le radici in una storia profonda milioni di anni, ed essere avvezzi allo studio primatologico e paleoantropologico per inquadrare evolutivamente la storia dei comportamenti umani, distinguendo attentamente (o ponendo l’analisi in termini critici in tutti i casi ove ciò sia possibile), tra omologia comportamentale veicolata dalla storia profonda in comune, e analogia dovuta all’attivazione convergente delle medesime risposte in ambienti simili. La comparazione scientifica del comportamento e della cultura degli esseri umani con l’universo primatologico, paleoantropologico e zoologico in senso lato modifica di per sé alcuni assunti disciplinari e umanistici ritenuti indiscutibili (quale una discontinuità più o meno assoluta tra uomo e animali), richiamando una rinnovata attenzione specifica nei confronti dei modelli e delle rappresentazioni culturali. Per essere adeguatamente spiegati, i pattern emergenti andrebbero quindi compresi in una più ampia cornice biologico-evoluzionista che si fondi sui presupposti delle ricerche cognitive (ma con la dovuta cautela, dato che «esistono tre o quattro specie idonee [al paragone] e queste sono filogeneticamente distanti sia le une dalle altre sia da noi» [9]). A loro volta, se inseriti nel contesto dei variabili network dell’organizzazione socio-politica, tali pattern possono rivelare peculiari strategie adottate dagli agenti storici e contribuire a chiarire la storia culturale, formando così l’oggetto di studio di una storiografia empiricamente verificabile grazie alle retrodizioni, ossia predizioni basate sul metodo scientifico e rintracciate in conseguenze già accadute nel passato (verificabili sulla base di nuovi documenti – o di dati già noti ma rianalizzati) [10].
Daniel Lord Smail ha ricordato in un recente articolo imperniato sull’accumulo patologico (o disposofobia), che questa storia profonda è anche una neurostoria, ossia uno studio della plasticità del sistema nervoso e di quello endocrino umano su di un livello temporale di lunga e lunghissima durata. Una plasticità dovuta alla continua niche construction da parte di Homo sapiens volta a modulare e modificare, non sempre intenzionalmente, il sistema corpo/cervello secondo le coordinate socio-culturali [11]. Nelle icastiche parole di Telmo Pievani,
«Gli organismi cambiano gli ambienti, che a loro volta cambiano gli organismi. Questo intreccio vale soprattutto per la storia naturale degli ominidi, che a un certo punto della loro storia, nelle varie specie del genere Homo, cominciano ad avere e a trasformare una nicchia non più soltanto biologica ma anche culturale» [12].Questa è una posizione che evita le insidie delle storie a prova di falsificazione (che non è mai un bene) e ideate tautologicamente a tavolino dagli psicologi evoluzionisti della prima ora, senza rinunciare all’obiettivo di studiare il rapporto co-evolutivo tra natura e cultura [13].
Andando ancora più in profondità, lo studio multicausale e scientifico dei fenomeni storici [14] farà emergere pattern sempre più peculiari. Ciò è possibile perché non cambiano solo le domande con le quali la scienza si deve confrontare, ma con l’incremento delle conoscenze possono cambiare anche «i tipi di domande attraverso i quali si definisce l’indagine scientifica», ed è questa ciò che Mauro Ceruti aveva definito come la «sfida della complessità» [15]. Alcuni pattern emergenti difatti richiederanno una ristrutturazione sostanziale delle premesse generali del quadro di indagine o, quanto meno, un’attenzione rinnovata nei confronti di certe basi euristiche date per scontate o scartate a priori. Come ha scritto il paleontologo Niles Eldredge in una sua profonda riflessione sul ruolo della storia nell’ambito dei processi scientifici,
«Eventi storici ripetuti, che accadono nell’ordine dei secondi o in quello dei milioni di anni, accomunati da incredibili similarità sono i pattern – i fenomeni, i dati reali – di tutta la scienza. Sono i pattern che pongono le domande. E forse, controintuitivamente, sono ancora loro che per molti aspetti suggeriscono le risposte – le ipotesi esplicative, le teorie – a quelle domande. La scienza è un modo di vedere il mondo materiale e la percezione dei pattern ne è il cuore» [16].
Solo da pochi anni si è cominciato a porre un’attenzione particolare nei confronti della storia che lega i nostri vincoli comportamentali e le contingenze storico-culturali alla profondità temporale dell’evoluzione, e da ancora meno tempo si è cominciato a insegnare la Big History (sì, ha le maiuscole, ma solo perché è un titolo ed è in inglese! Quando il termine verrà utilizzato in italiano allora una minuscola non gliela leverà nessuno), una cornice narrativa scientificamente coerente con le scoperte più recenti che sfrutta l’attrazione naturale di H. sapiens per lo storytelling allo scopo di raccontare la storia del nostro taxon come una piccola casella nella griglia cosmologica del tempo che ha avuto inizio con il Big Bang, tredici miliardi di anni fa. «I racconti del passato che si focalizzano soprattutto sulle divisioni tra nazioni, religioni e culture stanno cominciando ad apparire provinciali e anacronistici – persino pericolosi», ha scritto David Christian, il principale sostenitore della Big History, «[p]ertanto, non è vero che la storia diventa vacua se considerata su vaste scale temporali. Oggetti familiari possono svanire, ma nuovi e importanti oggetti e problemi diventano visibili. E la loro presenza può solo arricchire la disciplina» [17]. Poi, se gli astrofisici sono riusciti a venire a capo di immani problemi per studiare la loro materia senza far esplodere nemmeno una stella, non venitemi a dire che la storia umana è comunque più complessa! Senza contare che le stelle non lasciano nemmeno documenti scritti dietro di loro…
Purtroppo, come ha acutamente notato Massimo Pigliucci a proposito del programma di ricerca diamondiano basato sugli esperimenti naturali di storia (in parte erede, dicevamo, della lezione delle Annales), «la ricerca storica potrebbe non svilupparsi lungo le linee suggerite da Diamond non perché non si possa fare, ma perché gli storici stessi – perlomeno, quelli appartenenti alla presente generazione – sembrano essere ostili all’idea di testare le loro ipotesi su basi empiriche» [18].
Ovviamente dietro la mente c’è l’evoluzione a fare capolino, e come sappiamo biologia e scienze naturali vengono viste con il fumo (umanistico) negli occhi: le distorsioni in chiave progressionista (no! Evoluzione non equivale a progresso!), il sempre presente movimento anticognitivista denunciato da Rita Astuti e Maurice Bloch per quanto riguarda l’antropologia (di cui abbiamo parlato qui), la questione della tabula rasa culturale nel mondo umanistico (di cui si discuteva a queste coordinate), e il postmodernismo storiografico (le cui tracce avevamo individuato qui), forniscono al quadro tinte forse ancora più fosche e tristi.
Ovviamente dietro la mente c’è l’evoluzione a fare capolino, e come sappiamo biologia e scienze naturali vengono viste con il fumo (umanistico) negli occhi: le distorsioni in chiave progressionista (no! Evoluzione non equivale a progresso!), il sempre presente movimento anticognitivista denunciato da Rita Astuti e Maurice Bloch per quanto riguarda l’antropologia (di cui abbiamo parlato qui), la questione della tabula rasa culturale nel mondo umanistico (di cui si discuteva a queste coordinate), e il postmodernismo storiografico (le cui tracce avevamo individuato qui), forniscono al quadro tinte forse ancora più fosche e tristi.
Come ha detto l’opossum Pogo, protagonista di una nota striscia a fumetti statunitense scritta e disegnata da Walt Kelly, forse un numero nutrito di storici dovrebbe cominciare a fare autocritica e ammettere che «abbiamo incontrato il nemico, e il nemico siamo noi».
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Epilogo sulla neurofobia
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L’ultimo numero di Isis, una blasonata rivista accademica peer-reviewed fondata nel 1912 e dedicata alla storia della scienza (per dire, al 2011 classificata ottava su 50 per Impact Factor nella categoria “History and Philosophy of Science”) [19], contiene una sezione speciale interamente dedicata alla neurostoria. Dei cinque contributi pubblicati (tra cui l’articolo di Daniel Lord Smail precedentemente citato), due assurgono a paradigma esemplificativo di quella patologia che potremmo definire come “neurofobia” [20], ossia il terrore umanistico (senza fondamento, sia chiaro) di essere ridotti, fagocitati ed eliminati dalle scienze cognitive e dalle neuroscienze.
Il primo, dall’eloquente titolo retorico Neurohistory Is Bunk? (La neurostoria è una fesseria?), decostruisce la storia della ricerca storiografica influenzata dalle neuroscienze rintracciandone le radici nei movimenti cibernetici californiani della seconda metà del Novecento – con l’attuale agente letterario John Brockman come maître à penser dietro le quinte dell’intera operazione, impegnato nel diffondere la sua ignominiosa agenda di conquista del mondo umanistico [21] – mentre il secondo, citando Foucault a spron battuto, conclude appellandosi in modo apocalittico alla comune levata di scudi contro l’ennesimo assalto scientifico e riduzionista alla cittadella umanistica. Riporto in extenso l’explicit perché è un eloquente esempio di quella storiografia post-strutturalista che vede la scienza come agente negativo da combattere senza quartiere:
Nessuno dei due articoli ricordati ha notato che Smail è uno storico di professione (specializzato nella medievistica di area franco-italiana), né che non si sognerebbe mai di ridurre o tantomeno di eliminare la ricerca storiografica (perché poi?). Nessuno dei due contributi alla discussione si è poi premurato di consolidare le posizioni critiche esposte con veemenza attraverso asserzioni scientifiche, e io non sono nemmeno riuscito a capire cosa c’entrasse Brockman (che nel libro del 2008 e nell’articolo di Smail pubblicato sulla stessa rivista non è nemmeno citato!). Ecco emergere quindi un doppio caso da manuale della fallacia dello straw man, o uomo di paglia: si prepara un feticcio da attaccare inventandosi nefaste ascendenze ideologiche, si confondono i piani (interpretazione dei documenti storici e storia contemporanea della storiografia), si collegano le asserzioni in modo non verificabile, si proietta il tutto sull’obiettivo da delegittimare, et voilà! Pronto per la rottamazione.
Pigliucci docet*. QED.
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Epilogo sulla neurofobia
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L’ultimo numero di Isis, una blasonata rivista accademica peer-reviewed fondata nel 1912 e dedicata alla storia della scienza (per dire, al 2011 classificata ottava su 50 per Impact Factor nella categoria “History and Philosophy of Science”) [19], contiene una sezione speciale interamente dedicata alla neurostoria. Dei cinque contributi pubblicati (tra cui l’articolo di Daniel Lord Smail precedentemente citato), due assurgono a paradigma esemplificativo di quella patologia che potremmo definire come “neurofobia” [20], ossia il terrore umanistico (senza fondamento, sia chiaro) di essere ridotti, fagocitati ed eliminati dalle scienze cognitive e dalle neuroscienze.
Il primo, dall’eloquente titolo retorico Neurohistory Is Bunk? (La neurostoria è una fesseria?), decostruisce la storia della ricerca storiografica influenzata dalle neuroscienze rintracciandone le radici nei movimenti cibernetici californiani della seconda metà del Novecento – con l’attuale agente letterario John Brockman come maître à penser dietro le quinte dell’intera operazione, impegnato nel diffondere la sua ignominiosa agenda di conquista del mondo umanistico [21] – mentre il secondo, citando Foucault a spron battuto, conclude appellandosi in modo apocalittico alla comune levata di scudi contro l’ennesimo assalto scientifico e riduzionista alla cittadella umanistica. Riporto in extenso l’explicit perché è un eloquente esempio di quella storiografia post-strutturalista che vede la scienza come agente negativo da combattere senza quartiere:
«[…] gli storici della scienza verranno marginalizzati se dovessero accettare in modo non critico questa neuro-svolta [neuro-turn], a causa della sua tendenza (in quanto prodotto e specchio dell’ordine neoliberale) volta a dissolvere gli esistenti confini disciplinari. Accettare la neuro-svolta equivale sia ad uscire da una prospettiva critica sia volgersi contro di essa (anche se impercettibilmente, poiché la neuro-svolta utilizza sia il linguaggio sia i vecchi tropi postmoderni). Pertanto, da tale prospettiva, la neuro-svolta è una tecnologia che lavora per rimodellare noi stessi, o per rimodellare il cuore delle nostre vecchie abitudini. Non dovrebbe essere respinta con leggerezza; coloro i quali possiedono l’esperienza per criticarla hanno il dovere professionale di farlo. Nessun impegno può essere considerato più vitale e urgente. La sopravvivenza della storia della scienza dipende da ciò» [22].Perché superare gli steccati disciplinari secondo una prospettiva scientifica sarebbe un male? Quale giustificazione empirica avrebbe l’evocazione di una vieta distinzione tra cuore (fuor di metafora, la vecchia affidabile storiografia) e cervello (ossia la fredda e calcolatrice macchina cognitivista)? Perché mai individuare fantasmi capitalistici all’opera come longa manus dell’apparato tecnopolitico? Perché poi accettare la scienza dovrebbe equivalere a gettare il diritto di critica alle ortiche? Molte domande, nessuna risposta. Non mi sognerei mai di usare un acronimo derisorio nei confronti di questi ranghi serrati contro quel comune male riduzionista reo di mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa della ricerca storiografica ma, dato che il Guardian ha da pochissimo dedicato un articolo speciale al quarto di secolo compiuto dall’acronimo LOL con il consueto understatement britannico [23], si potrebbe anche essere tentati di farlo. Invece no, perché se nel titolo ho adottato un tono scherzoso (riguardante la prima parte di questo post), qui invece la questione è molto seria, ma esattamente per il motivo opposto e contrario a quello vagheggiato nel contributo testé citato.
Nessuno dei due articoli ricordati ha notato che Smail è uno storico di professione (specializzato nella medievistica di area franco-italiana), né che non si sognerebbe mai di ridurre o tantomeno di eliminare la ricerca storiografica (perché poi?). Nessuno dei due contributi alla discussione si è poi premurato di consolidare le posizioni critiche esposte con veemenza attraverso asserzioni scientifiche, e io non sono nemmeno riuscito a capire cosa c’entrasse Brockman (che nel libro del 2008 e nell’articolo di Smail pubblicato sulla stessa rivista non è nemmeno citato!). Ecco emergere quindi un doppio caso da manuale della fallacia dello straw man, o uomo di paglia: si prepara un feticcio da attaccare inventandosi nefaste ascendenze ideologiche, si confondono i piani (interpretazione dei documenti storici e storia contemporanea della storiografia), si collegano le asserzioni in modo non verificabile, si proietta il tutto sull’obiettivo da delegittimare, et voilà! Pronto per la rottamazione.
Pigliucci docet*. QED.
*: ve la ricordate questa citazione, vero? La ripetiamo? Ripetiamola: «La ricerca storica potrebbe non svilupparsi lungo le linee suggerite da Diamond non perché non si possa fare, ma perché gli storici stessi – perlomeno, quelli appartenenti alla presente generazione – sembrano essere ostili all’idea di testare le loro ipotesi su basi empiriche » [24].
[1] Sulloway 1998: 326.
[2] Diamond e Robinson 2011: 3.
[3] Ibidem.
[4] Sagan 2001: 310.
[5] Diamond e Robinson 2011: 3. Cfr. Sulloway 1998: 326-327.
[6] Diamond e Robinson 2011: 3.
[7] Sagan 2001: 309-310.
[8] Diamond e Robinson 2011: 3.
[9] Pigliucci 2010: 45.
[10] Eldredge 2002: 252, nota n. 13. Cfr. Turchin 2008: 35.
[11] Smail 2014: 113-114.
[12] Pievani 2014: 167.
[13] Ibi: passim.
[14] Diamond e Robinson 2011: 4-5.
[15] Ceruti 2009: 39.
[16] Eldredge 2002: 18.
[17] Christian 2011: 8.
[18] Pigliucci 2010: 53.
[19] Journals Ranked by Impact: History and Philosophy of Science. 2011 Journal Citation Reports. Web of Science (Science ed.). Thomson Reuters. 2012.
[20] Cfr. Macleod, Simpson e Pal: Preface, dove la neurofobia è descritta come il timore condiviso dagli studenti e dai neo-medici in neurologia riguardo al fatto di dover valutare le malattie neurologiche dei propri pazienti.
[21] Stadler 2014.
[22] Cooter 2014.
[23] Heritage 2014.
[24] Pigliucci 2010: 55
Ceruti, Mauro. (2009). Il vincolo e la possibilità. Milano: Raffaello Cortina Editore
Cooter, R. (2014). Neural Veils and the Will to Historical Critique: Why Historians of Science Need to Take the Neuro-Turn Seriously Isis, 105 (1), 145-154 DOI: 10.1086/675556[15] Ceruti 2009: 39.
[16] Eldredge 2002: 18.
[17] Christian 2011: 8.
[18] Pigliucci 2010: 53.
[19] Journals Ranked by Impact: History and Philosophy of Science. 2011 Journal Citation Reports. Web of Science (Science ed.). Thomson Reuters. 2012.
[20] Cfr. Macleod, Simpson e Pal: Preface, dove la neurofobia è descritta come il timore condiviso dagli studenti e dai neo-medici in neurologia riguardo al fatto di dover valutare le malattie neurologiche dei propri pazienti.
[21] Stadler 2014.
[22] Cooter 2014.
[23] Heritage 2014.
[24] Pigliucci 2010: 55
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Pigliucci, Massimo. (2010). Nonsense on Stilts: How to Tell Science from Bunk. Chicago-London: The University of Chicago Press
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Smail, Daniel Lord. (2008). On Deep History and the Brain. Berkeley-Los Angeles-London: University of California Press
Stadler, M. (2014). Neurohistory Is Bunk?: The Not-So-Deep History of the Postclassical Mind Isis, 105 (1), 133-144 DOI: 10.1086/675555
Sulloway, Frank J. (1998).
Fratelli maggiori, fratelli minori. Come la competizione tra fratelli determina
la personalità. Milano: Mondadori (ed. orig. 1996. Born
to Rebel: Birth Order, Family Dynamics, and Creative Lives. New York: Pantheon
Books, New York)
Turchin, Peter. (2008). Arise ‘Cliodynamics’. Nature 454: 34-35
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