Le Penseur, Auguste Rodin 1902 (Musée Rodin, Paris. Fonte: Wikipedia, autore: Daniel Stockman). |
Ultimo giro di boa prima della pubblicazione del mio volume, e ultime anticipazioni. A grande richiesta ho deciso di proporre un conciso vademecum su scienze cognitive e dintorni, rimodellando e semplificando alcuni estratti dal testo in modo tale da poter proporre un discorso generale sulla cognizione e i suoi rapporti con l'evoluzione. Il prossimo post (l'ultimo della serie di anticipazioni) sarà invece incentrato su alcuni aspetti salienti della psicologia evoluzionistica e dell'etologia cognitiva.
«Come è possibile che esista il cervello, un organo strutturato in modo da risolvere il problema di come sia possibile che esista un organo strutturato in modo da risolvere problemi? […] il problema deve essere qui, sulla Terra, e la soluzione al problema del problema deve essere anche lei qui, sulla Terra».
Michele Luzzatto, Preghiera darwinana [1]
Nell'ambito della cognizione umana una delle domande più interessanti dalle quali partire è "come e perché la gente possa credere in ciò in cui crede". Le prime risposte dotate di validità scientifica (così come della possibilità di ripetibilità sperimentale dei risultati), e che non fossero mere speculazioni filosofiche, sono giunte dalle scienze cognitive e dalla psicologia evoluzionistica.
In questi due ambiti disciplinari l'analisi delle credenze, di tipo religioso e non, si è sovente distinta come un campo privilegiato per studiare o spiegare determinati meccanismi soggiacenti alla cognizione umana.
Un primo confronto tra scienze cognitive e psicologia evoluzionistica
Le scienze cognitive vengono normalmente divise tra classiche o computazionali, con l’accento posto sul funzionamento della mente in quanto sistema di elaborazione di dati, e post-classiche, ossia maggiormente incentrate sul rapporto tra corpo e ambiente e sull’interazione delle reti neurali [2]. Abbiamo fatto riferimento all'esistenza della psicologia evoluzionistica. Rimarchiamo subito una differenza essenziale tra l’approccio cognitivista e quello psicologico-evoluzionista: semplificando, le scienze cognitive tendono a considerare la religione come un effetto secondario (by-product) delle naturali capacità cognitive, mentre la psicologia evoluzionistica la ritiene un adattamento funzionale sottoposto e modellato dalla selezione naturale a favore degli ipotetici benefici a livello di cooperazione sociale. In realtà la questione è molto più complessa; le posizioni degli studiosi di entrambe le discipline possono talvolta convergere oppure allontanarsi a seconda dei casi specifici [3]. Ad ogni modo, nella storia recente delle due discipline la psicologia evoluzionistica si è distinta per un approccio talvolta avvertito come troppo deterministico e difficilmente verificabile [4], mentre le scienze cognitive hanno tentato di offrire una spiegazione della religione come effetto secondario che si è prestato ad una modellizzazione maggiormente euristica [5].
Gli ostacoli principali che venivano rimproverati al programma della psicologia evoluzionistica corrente erano due: la difficoltà di rendere conto di caratteristiche non adattative (o malamente adattative) e il riferimento costante ad una preistoria durante la quale tutti i comportamenti umani oggi noti erano (positivamente) adattativi (qui sorge un problema tautologico: in che modo provare che qualcosa in merito al comportamento non ha mai avuto una funzione specifica e/o specificamente selezionata?).
Patternicity, Agenticity e credenze
Limitiamoci per il momento al contesto cognitivo. In questo ambito,
«le credenze religiose si innescano su alcune esperienze che, nella vita quotidiana, tutti possono aver provato, fedeli e infedeli. Meccanismi cognitivi ed emotivi condivisi generano quelle [possono essere chiamate] “esperienze prereligiose”. Si tratta di tutte quelle esperienze in cui noi ci domandiamo se l’uomo possa avere un destino trascendente» [6].
La concezione di un «destino trascendente» (ovvero, la continuità della mente e della personalità in assenza del corpo) si basa in primo luogo sull’assunzione naturale (ma fallace) del dualismo corpo/mente (anima) [7], derivata da esperienze quotidiane come i sogni o determinate istanze neurofisiologiche. Se si vuole andare in profondità il primo nodo da sciogliere è invece la definizione stessa del “credere” (ad esempio nel caso citato, basare una serie di convincimenti sulla credenza nel dualismo tra mente/anima e corpo), ossia il fare affidamento su (e seguire incondizionatamente) fatti o convinzioni, senza pretendere necessariamente una verifica sulla quale poter basare la fiducia concessa, sospendendo il giudizio sull’attendibilità dell’eventuale convinzione o delle testimonianze in merito, oppure scartando le prove discordanti [8]. Quella che segue è la definizione di credenza proposta da Justin L. Barrett e da Jonathan A. Lanman: la credenza è
«lo stato di un sistema cognitivo che considera vera un’informazione (non necessariamente in forma proposizionale o esplicita) per la generazione di ulteriori pensiero e comportamento» [9].
La credenza così definita può essere classificata in due tipologie: riflessiva e intuitiva. La prima è il frutto della riflessione su certi fatti o argomenti, o dell’accettazione dell’autorità di qualcuno (non ha importanza ora la verifica fattuale o scientifica di tali credenze). La seconda «giung[e] automaticamente, non richied[e] un’attenta ponderazione e sembr[a] sorgere istantaneamente» [10]. Un processo che si compone dunque di un’azione inconscia (o automatica) che ha alle spalle la medesima evoluzione biologica e che, semplificando al limite consentito, si spiegherebbe con il reperire schemi soggiacenti e carichi di significato attraverso l’associazione di più elementi (quale che sia il significato, o la veridicità, risultante dall’unione di questi elementi: dal rilevare la presenza di un predatore nascosto nella foresta al credere all’esistenza degli alieni) e l’attribuzione di intenzionalità ad agenti esterni e naturali (o sovrannaturali).
Queste peculiarità cognitive sono state sinteticamente etichettate da Michael Shermer come patternicity, ossia la «tendenza a trovare schemi (patterns) carichi di significato in un contesto di disturbo significativo o insensato» [11], una propensione cognitiva non limitata agli esseri umani [12], e agenticity, ossia la «tendenza ad infondere i pattern con significato, intenzione e agency (o agentività)» [13]. Si tratta di impostazioni naturali dei meccanismi cognitivi, già presenti fin dall’infanzia [14]. Curiosamente, il processo cognitivo di riconoscimento di agenti si attiva anche in assenza di entità reali: come ha sintetizzato in modo efficace l’antropologo Pascal Boyer facendo riferimento ad uno studio di J.L. Barrett [15],
Anche se in realtà il quadro d’insieme offerto dalla ricerca cognitivista è più vasto e articolato, la cornice offerta rappresenta una sintesi sufficiente per orientarsi nei processi fondamentali che modellano ciò che noi comprendiamo della realtà – e il modo in cui la comprendiamo.
«in una specie che si è evoluta avendo a che fare simultaneamente con prede e predatori, il costo di falsi positivi (vedere agenti quando non ci sono) è minimo, se siamo in grado di abbandonare rapidamente queste maldestre intuizioni. Al contrario, il costo relativo alla mancata rilevazione di agenti quando sono realmente presenti (siano essi predatori o prede) può essere molto alto. In questo senso, i nostri sistemi cognitivi funzionano sul principio “meglio salvi che dispiaciuti” che conduce all’ipersensibilità del meccanismo di rilevamento dell’azione di un agente [Hyperactive Agency Detection Device, o HADD]» [16].
Data la propensione a creare falsi positivi riguardo all’attribuzione dell’intenzionalità di agenti intorni a noi, questo meccanismo non farebbe differenza nel valutare le prove a carico dell’esistenza di agenti sovrannaturali, nell’attribuire volontà ad un computer in panne oppure nell’identificare in un rumore (avvertito o reale) qualcuno che fa qualcosa nel cuore della notte. Come questo e altri pattern cognitivi interagiscano nell’ambito dinamico e sociopolitico delle realtà religiose, in particolare come collante nelle diverse connotazioni dell’organizzazione sociale, è argomento di indagine della cognitive science of religion (o CSR) [17].
Tutti questi meccanismi intervengono poi nella diffusione delle idee culturali. Sembra dimostrato sperimentalmente che, nella diffusione storica di contenuti e argomenti di carattere mitico-religioso, gli elementi minimamente controintuitivi inseriti in un contesto intuitivo (ossia contenenti alcune violazioni specifiche e categoriali delle aspettative intuitive riguardo ai domini di conoscenza, o il trasferimento di una caratteristica di un dominio ad un altro – ad esempio, un animale che parla o un parto miracoloso), hanno probabilmente favorito (e continuano a farlo) la memorizzazione e la trasmissione continua di racconti, prodigi, mitologie e credenze di qualunque tipo [18].Anche se in realtà il quadro d’insieme offerto dalla ricerca cognitivista è più vasto e articolato, la cornice offerta rappresenta una sintesi sufficiente per orientarsi nei processi fondamentali che modellano ciò che noi comprendiamo della realtà – e il modo in cui la comprendiamo.
La scienza come impresa controintuitiva
Ora, mentre il mito e le credenze religiose sono controintuitive rispetto alle conquiste della conoscenza scientifica, la scienza lo è rispetto al funzionamento normale della cognizione. La differenza è che le basi del pensiero religioso sono cognitivamente intuitive, mentre i criteri per l’indagine scientifica sono complessi e vanno (talvolta faticosamente) appresi. Da ciò consegue anche la fragilità della ricerca scientifica, che deve essere sostenuta dalle istituzioni in modo continuo [19]. È scontato affermare che il geocentrismo appaia evidente senza un ragionamento critico e una precisa educazione e attenzione scientifica. Valga l’aneddoto riportato da Maurizio Ferraris e riguardante uno «studente tolemaico» [20] presentatosi per sostenere un esame universitario di filosofia. Costui, a quanto riporta il filosofo, sembrava ignorare del tutto i contenuti della rivoluzione copernicana. Ferraris allora gli domanda «“Secondo lei, è la Terra che gira intorno al Sole o il Sole che gira intorno alla Terra?”» e la risposta, giunta dopo aver guardato alla finestra e averci «pensato un po’» è stata la seguente:
«“È il Sole che gira intorno alla Terra”. Lo diceva con il tono di dire “non ha gli occhi per vedere?” Era un caso spontaneo di fisica ingenua: lo studente non sapeva niente di niente (quasi un record) e descriveva il mondo a partire da quello che vedeva» [21].
La mente difatti funziona attraverso «vincoli cognitivi che riflettono la storia naturale della nostra specie» [22]. A questi vincoli non ci si può sottrarre (si pensi alle illusioni ottiche: il fatto di capire che cosa avviene e dove sta il trucco non ci impedisce di continuare a percepire quella specifica illusione). In compenso, quei vincoli possono essere studiati e compresi.
Come si sono riflessi tali vincoli sull’organizzazione e la trasmissione del sapere? Esiste tutta una serie di credenze ingenue (ossia, intuitivamente naturali ma perlopiù non sostenute dall’evidenza) che vanno dalla fisica alla psicologia e che rappresentano modi condivisi e fissati di rappresentare il mondo e la realtà. La “psicologia ingenua”, ad esempio, è la quotidiana e naturale (che non vuol dire autentica) spiegazione delle cose in base al senso comune, basata su determinate attribuzioni di stati mentali ad agenti esterni e sul criterio di somiglianza [23]. Allo stesso modo esistono una “biologia ingenua” (ad esempio la somiglianza dei parenti) e una “fisica ingenua” (ad esempio la solidità degli oggetti). Ci sono ovviamente altri criteri generali che soggiacciono all’organizzazione e al funzionamento delle credenze (religiose e non) oltre a quelli elencati, tra i quali si distinguono la diminuzione dell’ansia dovuta alla cognizione della morte, la presenza di riti particolari e di un’autorità morale. Ad ogni modo, si tratta di principi che vanno ancorati ad una prospettiva storica e sociale: tali criteri, in determinate circostanze, possono anche essere avvertiti come fortemente ansiogeni dalla comunità che condivide le medesime credenze [24].
In conclusione, mentre il mito e le credenze religiose sono controintuitive rispetto alle conquiste della conoscenza scientifica, la scienza lo è rispetto al funzionamento naturalmente intuitivo della cognizione (si ricordi la distinzione fissata da Barrett e Lanman). I criteri per l’indagine scientifica sono naturali anch’essi, ma meno immediati: la ricerca scientifica è una
«modalità pragmaticamente efficace per spiegare fenomeni e risolvere problemi ricorrendo all’invenzione di modelli astratti della realtà, da sottoporre a esperienze controllate» [25],contraddistinta da rigore metodologico e dei criteri di definizione, sperimentazione, procedure di verifica, revisione del lavoro, diffusione dei risultati, ripetibilità dei risultati ottenuti (o, nel caso della ricerca paleontologica, conferma di determinate retrodizioni), rapporto e interazione tra spiegazione nomologica e contingenza storica, ecc. È quindi scontato affermare che il geocentrismo appaia evidente senza un ragionamento critico e una precisa educazione e attenzione scientifica: lo «studente tolemaico» dell’esempio citato ci ricorda l'azione di questi vincoli cognitivi per quanto riguarda la comprensione del mondo che ci circonda.
[2] Alfredo Paternoster, Introduzione alla filosofia della mente, Laterza, Roma-Bari 2010 (2002), pp. 26-47, 121-139. Sulle scienze cognitive classiche si rimanda alla silloge presentata in Massimo Piattelli Palmarini, Le scienze cognitive classiche: un panorama, a cura di Nicola Canessa e Alessandra Gorini, Einaudi, Torino 2008, pp. 25-29, 306-307.
[3] Un’interessante prospettiva che media e integra scienze cognitive e psicologia evoluzionistica è in Robert N. McCauley, Why Religion Is Natural and Science Is Not, Oxford University Press, Oxford-New York 2011.
[4] David J. Buller, Adapting Minds: Evolutionary Psychology and the Persistent Quest for Human Nature, The Massachusetts Institute of Technology Press, Cambridge 2005; Maurizio Cardaci, Psicologia evoluzionistica e cognizione umana, il Mulino, Bologna 2012, pp. 173-195. Una difesa della psicologia evoluzionistica è reperibile in Richard Sosis, The Adaptationist-Byproduct Debate on the Evolution of Religion: Five Misunderstandings of the Adaptationist Program, in «Journal of Cognition and Culture», 9, 2009, pp. 315-332.
[5] Cfr. Ilkka Pyysiäine e Marc Hauser, The Origins of Religion: Evolved Adaptation or By-Product?, in «Trends in Cognitive Sciences», 14, 3, March 2010, pp. 104-109; Pascal Boyer, Religion, Evolution, and Cognition, in «Current Anthropology», 45, 3, June 2004, pp. 430-433 (recensione dei seguenti volumi: Scott Atran, In Gods We Trust: The Evolutionary Landscape of Religion, Oxford University Press, Oxford-New York 2002; David Sloan Wilson, Darwin’s Cathedral: Evolution, Religion, and the Nature of Society, The University of Chicago Press, Chicago 2002).
[6] Paolo Legrenzi, Credere, il Mulino, Bologna 2008, p. 36.
[7] Cfr. Richard Dawkins, L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere, Mondadori, Milano 2011, p. 179 (2007 1 ed.; ed. or. The God Delusion, Bantam Press, London 2006), pp. 179-182.
[8] Cfr Justin L. Barrett, The Relative Unnaturalness of Atheism: On Why Geertz and Markússon Are Both Right and Wrong, in «Religion», 40, 2010, pp. 169-172; p. 170.
[9] Justin L. Barrett e Jonathan A. Lanman, The Science of Religious Belief, in «Religion», 38, 2008, pp. 109-124; p. 110.
[10] J.L. Barrett, Why Would Anyone Believe in God?, AltaMira Press, Walnut Creek 2004, p. 2.
[11] Michael Shermer, The Believing Brain: From Spiritual Faiths to Political Convinctions. How We Construct Beliefs and Reinforce Them as Truths, Robinson, London 2012, p. 70 (ed. or. The Believing Brain: From Ghosts and Gods to Politics and Conspiracy. How We Construct Beliefs and Reinforce Them as Truths, Times Books-Henry Holt & Co., New York 2011).
[12] Per esempi e bibliografia cfr. M. Shermer, The Believing Brain, cit., pp. 73-78.
[13] Ivi, p. 102.
[14] Sul rapporto tra teleologia istintiva nei bambini (o “teleologia promiscua”, poiché si riferisce indiscriminatamente ad oggetti animati e inanimati) e giustificazione teleologica in età adulta (che può essere richiamata in causa in particolari condizioni) cfr. rispettivamente Deborah Kelemen, Functions, Goals and Intentions: Children’s Teleological Reasoning About Objects, in «Trends in Cognitive Sciences», 12, 1999, pp. 461-468, e ead. e Evelyn Rosset, The Human Function Compunction: Teleological Explanation in Adults, in «Cognition», 111, 1, 2009, pp. 138-143. Sull’insegnamento della religione ai bambini da parte degli adulti spunti interessanti sono contenuti in R. Dawkins, L’illusione di Dio, cit.
[15] Il riferimento è a J.L. Barrett, Exploring the Natural Foundations of Religion, in «Trends in Cognitive Science», 4, 1, 2000, pp. 29-34.
[16] Pascal Boyer, Why Do Gods and Spirits Matter After All?, in Ilkka Pyysiäinen e Veikko Anttonen (eds.), Current Approaches in the Cognitive Science of Religion, Continuum, London-New York 2002, pp. 68-92; p. 76. Nell’art. intitolato What’s HIDD’n in the HADD?, in «Journal of Cognition and Culture», 7, 3-4, 2007, pp. 341-353, Anders Lisdorf ha proposto, sulla base di precise istanze neurofisiologiche, di identificare piuttosto un «meccanismo iperattivo di rilevamento dell’intenzionalità» (Hyperactive Intentionality Detection Devide, o HIDD).
[17] Cfr. Joseph Bulbulia, The Cognitive and Evolutionary Psychology of Religion, in «Biology and Philosophy», 19, 2004, pp. 655-686; Luther H. Martin, Religion and Cognition, in Hinnells, John R. (ed.), The Routledge Companion to the Study of Religion, Routledge, Abingdon-New York, 2005, pp. 473-488.
[18] Cfr. l’efficace panoramica offerta in Anders Lisdorf, The Spread of Non-Natural Concepts: Evidence from the Roman Prodigy Lists, in «Journal of Cognition and Culture», 4, 1, 2004, pp. 151-173; pp. 150-154.
[19] Su questi temi è fondamentale R.N. McCauley, Why Religion Is Natural and Science Is Not, cit., un compendio esauriente sul rapporto tra scienza e religione dal punto di vista della cognizione.
[20] Maurizio Ferraris, Imbarbarimento del salotto derridiano, in id., Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a partire da Jacques Derrida, Bompiani, Milano 2010a, pp. 80-97; p. 89.
[21] Ivi, p. 90.
[22] P. Legrenzi, Prima lezione di scienze cognitive, cit., p. 43.
[23] Vittorio Girotto, Difficile da capire: scienza e senso comune, in Girotto, Vittorio, Pievani, Telmo e Giorgio Vallortigara, Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin, Codice edizioni, Torino 2008, pp. 39-61; pp. 49-51.
[24] Cfr. P. Boyer, Religious Thought and Behaviour As By-products of Brain Function, in «Trends in Cognitive Sciences», 7, 3, March 2003, pp. 119 -124, passim. Si veda anche Tomas Rees, Do traditional Chinese death beliefs increase superstition and anxiety about death?, in <http://epiphenom.fieldofscience.com/2012/12/do-traditional-chinese-death-beliefs.html>, 4 dicembre 2012.
[25] Gilberto Corbellini, Scienza, quindi democrazia, Einaudi, Torino 2011, p. xiv.
Artt. indicizzati in Research Blogging:
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