(c) 2007, The Geological Society, London
Risale al 2007 la pubblicazione del primo volume collettivo peer-reviewed dedicato alla geomitologia (per ulteriori informazioni sull'argomento cfr. il link qui indicato), Myth and Geology, curato da Luigi Piccardi, ricercatore presso l’Istituto di Geoscienze e Georisorse (CNR) di Firenze, e W. Bruce Masse del Los Alamos National Laboratory (New Mexico, USA), per conto della Geological Society di Londra. Si tratta di un volume molto ricco, che si compone di un testo introduttivo curato da Dorothy Vitaliano, da una precisa introduzione al tema e da altri ventitré contributi, i cui temi trattati coprono grosso modo tutti i continenti. Si spazia dai fenomeni geologici mediterranei, ai terremoti lungo le faglie tettoniche attive nell’area pacifica tra Giappone e America del Nord, all’attività vulcanica nel continente sudamericano, agli tsunami nell’area oceanica, ai massi erratici piemontesi, ai fossili di proboscidati siciliani e alla litologia dell’isola d’Elba. L’abbondanza del materiale presentato ci vieta di prendere in considerazione tutti gli aspetti meritevoli di approfondimento. Ci concentreremo pertanto su alcuni punti di interesse generale proponendo alcune considerazioni generali tratte dal corposo secondo capitolo.
Il primo capitolo in esame porta la firma dei due curatori e di E. Wayland Barber e P.T. Barber, autori di un ambizioso testo pubblicato nel 2004 nel quale venivano elencati i principi cognitivi fondamentali grazie ai quali i miti si svilupperebbero e si conserverebbero [1]. Il capitolo propone una storia introduttiva essenziale dello studio accademico della religione, della mitologia e della nascita dei concetti geologici nell’ambito scientifico-occidentale. Viene innanzitutto proposta una griglia dei vari termini inerenti al tema trattato: le folk-tales, ossia storie fittizie non religiose e non storiche, la leggenda, cioè un racconto semi-storico preso per vero, dove vengono miscelati realismo e sovrannaturale (come nell’epica) e infine il mito, che contiene relazioni o resoconti culturali degli eventi più importanti che hanno avuto luogo nel passato remoto di una data cultura.
Nel corso del tempo i contenuti mitici vengono però sottoposti ad una distorsione sistematica, a causa della medesima struttura cognitiva che soggiace all’espressione del mito. In casi specifici questa struttura può essere risolta e ricostruita per giungere al substrato originario [2]. Una definizione preliminare di mito che viene avanzata nel capitolo è la seguente:
«il mito è un racconto articolato, derivato in generale dalla trasmissione orale, e tipicamente creato, o assemblato, e perpetuato da specialisti della conoscenza. Questi ultimi fanno uso di elementi e immagini sovrannaturali allo scopo di classificare e spiegare l’osservazione di fenomeni ed eventi naturali percepiti di vitale importanza, o di speciale rilevanza, per l’ordine sociale e il benessere di una data cultura» [3].
Per comprendere la mitologia nelle sue varie sfaccettature, che è una «funzione della trasmissione orale di dati cifrati linguisticamente» [4], è necessario fare riferimento ad una serie di discipline, ossia le scienze cognitive, l’antropologia, la psicologia evoluzionistica e la neuropsicologia. Ad ogni modo, il mito racchiude anche e soprattutto precetti fondamentali per l’esistenza, quando non addirittura cruciali per la sopravvivenza stessa del gruppo.
L’esempio proposto dagli autori è in tal senso illuminante: quando il devastante tsunami del 26 dicembre 2004 si abbatté nell’Oceano Indiano, alcuni organi di stampa riportarono che certe piccole popolazioni nelle isole Andamane erano sopravvissute grazie ad un mito tramandato di generazione in generazione. Questo mito riguardava “un’onda che mangia la gente” (in realtà, sette onde nel mito) causata dalla rabbia degli spiriti degli antenati e che poteva essere evitata raggiungendo immediatamente un’altura non appena si fosse osservato l’oceano ritirarsi velocemente dalla battigia [5]. Il mito locale può quindi preservare notizie utili in determinate occasioni osservate su una scala temporale molto lunga e codificate secondo stilemi accessibili solo attraverso la struttura integrale della cultura originaria [6]. Non sempre però è possibile risalire all’informazione originaria in forma integrale che ha animato all’origine un mito, a causa di una serie di princìpi che costituisce il nucleo del contributo e che ci limitiamo ad elencare con brevi descrizioni, omettendo le discussioni e gli esempi forniti nel testo:
- principio del silenzio: ciò che si ritiene che tutti conoscano viene dato per scontato e perciò o non viene spiegato nei dettagli o viene omesso [7];
- invenzione cinematografica: si possiedono solo alcuni fotogrammi e da questi si (ri)costruisce un’intera pellicola. Ci si concentra cioè sulla spiegazione del fenomeno osservato solo a “spezzoni” piuttosto che sul suo sviluppo integrale [8];
- principio di analogia: «se due entità o fenomeni recano alcune somiglianze in un qualche aspetto allora queste devono essere collegate tra loro» [9];
- fallacia argomentativa dell’affermazione del conseguente: dall’asserzione di un effetto si evince l’esistenza di una causa (ma non è detto che l’implicazione sia sempre vera se inversa: “se piove il prato è bagnato” è senz’altro vero, ma lo potrebbe essere anche con la rugiada dell’alba, se nella notte un vicino affluente ha esondato, o se qualcuno ha innaffiato il prato, ecc.) [10];
- principio dell’intenzionalità: si tratta di un punto fondamentale stabilito dalla ricerca delle scienze cognitive, che assume l’esistenza di una volontà, più o meno latente, dietro un avvenimento indipendente ed esterno all’attività umana. In sostanza, poiché gli uomini agiscono volontariamente sulle cose, se qualcosa succede in natura deve essere stata voluta [11];
- principio di affinità o di parentela: «poiché i familiari si somigliano l’un l’altro, i fenomeni che si somigliano devono essere imparentati» [12];
- principio degli aspetti multipli: «un fenomeno può essere spiegato miticamente tante volte quanti sono gli aspetti differenti e significativi che lo compongono» [13];
- principio dell’angolo di ripresa: diretta conseguenza del precedente, in quanto per comprendere di che cosa tratta una storia bisogna osservare la situazione da uno o più punti di vista particolari [14];
- principio dell’attrazione: una volta che le storie riguardanti qualcosa o qualcuno raggiungono una massa critica sufficiente, quella particolare cosa o persona attrarrà altre storie, tramite qualsiasi punto di somiglianza significativa, per quanto vago possa essere (i punti di attrazione includono il medesimo tipo di evento, di luogo, di nome, di carica ricoperta [come i faraoni nella Bibbia, che tendono tutti ad essere riassunti in un’unica figura], ecc.) [15];
- principio della prospettiva: man mano che ci si allontana da un evento, la nostra prospettiva si schiaccia e non è più possibile distinguere cronologicamente in modo agevole gli eventi che hanno avuto luogo prima da quelli che sono successi più tardi (ad un certo punto tutto tende ad essere sussunto sotto l’etichetta “a quei tempi…”) [16];
- principio della foto istantanea: «talvolta la narrazione del mito viene creata durante o immediatamente dopo l’osservazione di un importante evento naturale» [17];
- principio della competenza: i miti sono stati probabilmente creati (e allo stesso tempo perpetuati) da esperti qualifi cati, professionali e capaci [18];
- principio della rappresentazione: la trasmissione del mito non si limita ad una comunicazione orale, ma viene condotta e guidata all’interno di una performance; la trama del mito viene sistematicamente recitata durante determinati rituali facendo appello ad una vasta gamma di mezzi espressivi, volti a rafforzare il messaggio negli spettatori per mezzo di accorgimenti mnemonici [19];
- principio di ridondanza: «aspetti chiave delle trame mitiche sono spesso ripetuti più volte per rafforzare l’importanza di una data parte della storia e la capacità degli spettatori di ricordarli» [20].
Come aveva già segnalato lo storico Jan Vansina, uno dei metodi per uscire dall’impasse cognitivo sarebbe quello di ancorare i dati mitici, nei casi ove ciò fosse possibile, alle conoscenze astronomiche e geologiche delle zone in questione [21]. Ad ogni modo, questi princìpi sono applicabili ovunque e in ogni caso? Come ammettono gli autori, la risposta non è così facile come potrebbe sembrare a prima vista. Essa può essere affermativa, perché questi criteri sono riferibili a numerose zone del globo le cui culture sono molto differenti tra loro, e possono aiutare a comprendere alcuni dei principali meccanismi che hanno agito nel passato. Eppure si potrebbe anche rispondere negativamente, perché esistono differenti modalità di trasmissione che agiscono contemporaneamente nel corso delle generazioni. Un conto è la trasmissione culturale verticale, a base familiare, di determinate popolazioni la cui religione è etichettabile come sciamanica (ammesso che lo siano sempre state in un determinato luogo), un altro sono le elaborazioni sociali orizzontali che si intrecciano e si rifrangono in una focalizzazione esterna multipla nella quale coesistono molti punti di vista. Come riconoscono gli autori, esistono oggettive difficoltà in determinati contesti, responsabili «almeno parzialmente della
mancata comprensione da parte della scienza occidentale dei fondamenti storici delle osservazioni raccolte e raccontate nel mito» [22]. Ad ogni modo gli autori ritengono anche che «gli antropologi, i folkloristi e altri studiosi del mito non abbiano esaminato con attenzione questo problema e che possono aver fatto confusione tra queste distinte tipologie di trasmissione mitica» [23] .
Un passaggio tratto da un articolo di Robert Segal, che riportiamo in parte di seguito, introduce la sezione conclusiva del testo:
«[…] la principale sfida moderna al mito, comunque, è giunta dalle scienze naturali, le quali fanno benissimo ciò che il mito si riteneva facesse: spiegare le origini e il funzionamento del mondo fisico […]. Accettare la spiegazione scientifica del mondo equivale a rendere quella mitica sia superflua che apertamente falsa – superflua perché resa antiquata dalla spiegazione scientifica, falsa perché incompatibile con quella scientifica» [24].
La risposta articolata dagli autori elude in parte la dicotomia delineata da Segal, poiché il mito rappresenterebbe in primo luogo «la sorprendente opportunità di ricavare dalla documentazione storica e culturale di molte regioni un punto di vista straordinario sull’impatto di eventi e processi geologici e astronomici nel corso dei millenni passati» [25]. In conclusione, sono due i fattori positivi fondamentali che si impongono a seguito dello studio della geomitologia. Innanzitutto, i miti gettano luce su aspetti cognitivi, storici, sociali e letterari del pensiero umano, sui quali è necessario insistere maggiormente: ammesso e non concesso che il mito abbia rappresentato un vantaggio competitivo per certi gruppi culturali, per organizzare la propria esistenza rispetto ad altri gruppi, è compito delle scienze cognitive e di altre discipline scientifiche indagare il guadagno sociale, ossia i vantaggi psicologici, la riduzione della tensione emotiva o mentale, la migliore organizzazione riguardo una più complessa articolazione sociale, ecc. [26]. In secondo luogo, l’analisi dei fenomeni geologici codificati nel mito in zone scarsamente studiate dal punto di vista geologico, o nelle altre zone dove la documentazione scientifica in merito non può risalire oltre un certo limite cronologico, può aiutare a comprendere meglio e a prevenire i rischi geofisici di specifiche regioni.
[Estratto e modificato dall'art. dell'autore intitolato Tempi profondi. Geomitologia, storia della natura e studio della religione, in SMSR 79 (1/2013) 152-214]
[1] Wayland Barber, E. & P.T. Barber, When They Severed Earth From Sky: How the Human Mind Shapes Myth, Princeton University Press, Princeton - Oxford 20062 (20041).
[2] Masse, Wayland Barber, Piccardi & Barber, Exploring the Nature of Myth and Its Role in Science, in Piccardi -
Masse (eds.), Myth and Geology, cit., pp. 9-28: 10.
[3] Ibi, p. 17
[4] Ibi, p. 18.
[5] Ibidem.
[6] Ibi, p. 19.
[7] Ibi, p. 18.
[8] Ibi, p. 19.
[9] Ibidem.
[10] Ibi, p. 20.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] Ibidem.
[14] Ibidem.
[15] Ibi, p. 21.
[16] Ibi, p. 22.
[17] Ibi, p. 23.
[18] Ibi, p. 24.
[19] Ibidem.
[20] Ibi, p. 25.
[21] Cfr. J. Vansina, Oral Tradition: A Study in Historical Methodology, Aldine Transaction. A Division of Transaction Publishers, Rutgers - The State University, New York 2006 (19611); Id., Oral Tradition As History, University of Wisconsin Press, Madison 1985.
[22] Masse et al., Exploring the Nature of Myth and Its Role in Science, cit., p. 25.
[23] Ibidem.
[24] Ibidem. Cit. tratta da R.A. Segal, Does Myth Have a Future?, in Patton L.L. & W. Doniger (eds.), Myth and Method, The University Press of Virginia, Charlottesville 1996, pp. 82-106: 82.
[25] Masse et al., Exploring the Nature of Myth and Its Role in Science, cit., p. 25.
[26] Ibi, p. 26.
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