mercoledì 1 giugno 2016

Società e sessualità tra norma e natura. Una digressione antropologica e primatologica

Prima di andare avanti nella nostra breve carrellata di ipotesi sugli inizi della religione, dobbiamo fare piazza pulita della solita e trita solfa condita da ideologie striscianti che mettono in pausa il cervello e pensano per noi. Come fare per tornare sul più solido terreno della ricerca scientifica? Beh, se siete qui su Tempi profondi, suggerirei di ancorare la nostra discussione ai tempi profondi della storia! E quale modo migliore per farlo se non quello di rivolgerci all’antropologia e alla primatologia? Due discipline che, come vedremo tra poco, sono e restano inestricabilmente unite – nonostante i molti e spuri tentativi di segregazione disciplinare in chiave antiscientifica. In particolare, ciò che ci interessa in questa sede è indagare, senza alcuna pretesa di esaustività, l’organizzazione sociale di Homo sapiens, per poter poi vedere – nel prossimo post – in quale modo le credenze possano aver agito sulla base di tratti universali comportamentali.

I tempi profondi dell’antropologia

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Il primatologo Bernard Chapais ha decostruito la configurazione antropologica dell’esogamia (ossia la scelta del partner al di fuori del proprio gruppo familiare/locale) in dodici blocchi, ognuno dei quali andrebbe inserito in un passaggio contingente e culturale della storia del nostro clade (uomo compreso; un clade è un gruppo di organismi aventi un antenato comune), e ha concluso che sembra esservi una tendenza nel comune antenato ominine verso la discendenza agnatizia (cioè, dal padre ai figli di sesso maschile) [1].

Il ramo evolutivo della superfamiglia Hominoidea.
In giallo è sottolineata la sottofamiglia Homininae, della quale fanno parte i generi Homo, Pan (scimpanzé e bonobo) e Gorilla.
Immagine: Wikipedia (credit: EOD)
Più recentemente, uno studio condotto da Kim Hill e dai suoi collaboratori, paragonando i modelli di parentela e di residenza di cinquemila membri appartenenti a trentadue società di cacciatori-raccoglitori di oggi ai sistemi di parentela e di dispersione sessuale dei primati, è giunto ad identificare gli elementi culturali e sessuali comuni e basilari della società di H. sapiens. Questi sarebbero la filopatria (ossia il fatto di risiedere stabilmente ad un determinato luogo) e la dispersione bisessuale (ossia, il fatto che a lasciare il gruppo di appartenenza siano entrambi i sessi), due caratteristiche ritenute «tipiche» e derivanti dalla «frequente co-residenza del complesso formato da fratello-sorella adulti» [2]. «Tale pattern sociale», affermano gli autori nelle conclusioni del loro lavoro, «non è registrato per nessun primate o vertebrato, per quanto ne sappiamo. Ipotizziamo che il legame monogamo di coppia, il riconoscimento paterno all’interno di unità cooperative per l’allevamento sociale e la dispersione bisessuale abbiano facilitato sia relazioni frequenti e amichevoli tra i gruppi, sia la migrazione e la bassa vicinanza genetica dei co-residenti del gruppo» [3].

Certo, possiamo discutere sul fatto che spalmare sull’asse cronologico una serie di comparazioni sincroniche contemporanee basate su un gruppo di studio selezionato e assai ristretto equivalga semplicemente a rafforzare un bias di conferma. Per questo occorre allargare il quadro d’indagine e guardare ai nostri parenti filogenetici più prossimi. Chapais, sintetizzando i risultati dello studio di Kim e colleghi, ha sottolineato che a monte della variazione culturale di H. sapiens, rispetto alle formule dei nostri parenti filogenetici, sarebbe da porre l’evento chiave costituito dall’istituzionalizzazione delle relazioni di coppia.

Ora, il modello di accoppiamento promiscuo negli scimpanzé rende difficile per i maschi riconoscere con precisione la parentela maschile – al di là del fatto di essere tutti imparentati. La struttura genealogica, secondo Chapais, è dunque «socialmente silenziosa» [4] . Inoltre i maschi sono portati all’aggressione nei confronti degli estranei/stranieri. Seguendo questa linea di pensiero, con l’istituzionalizzazione del legame di coppia in Homo l’incontro dei gruppi non sarebbe più necessariamente sfociato in conflitti, in quanto il legame e il riconoscimento tra genitori e progenie (o tra padre e figlia, nel caso fosse il sesso femminile ad essere oggetto di dispersione sociale, come negli scimpanzé) avrebbero alleviato le tensioni tra gruppi estranei, così come il riconoscimento del compagno della figlia avrebbe portato a tollerare gli altri individui maschili. Secondo questo modello ipotetico,
«le prime entità collettive a essersi evolute successivamente alla promiscuità sessuale furono contraddistinte dal legame di coppia all’interno dei gruppi misti di ominini che mostravano residenza maschile e trasferimento delle femmine, un pattern che si ritiene omologo (ossia simile per discendenza comune) negli umani e negli scimpanzé» [5].
Successivamente si dovette assistere all’implementazione di alleanze tra gruppi basate sui legami matrimoniali – e quindi anche sullo scambio degli individui di sesso femminile. Paradossalmente, nota Chapais, tale modello portò ad un aumento di relazioni con individui imparentati alla lontana, oppure non imparentati – e quindi all’aumento di situazioni potenzialmente stressanti [6]. Avremo modo di tornare su questo interessante aspetto ambivalente nel prossimo post.
Il "la" all'organizzazione sociale umana, secondo Chapais: l'istituzionalizzazione del legame di coppia in un contesto esogamico. Nell'illustrazione qui sopra, il legame di coppia è indicato dal braccio in rosa, che unisce una figlia del gruppo di sinistra con un figlio del gruppo di destra, implementando nel contempo il riconoscimento tra suoceri appartenenti a gruppi differenti - ora (potenzialmente) alleati. Romeo e Giulietta possono aspettare.
Fonte: Chapais 2011: 1276.
Alle origini della monogamia

Un altro tassello della complessa storia profonda dell’organizzazione parentale e comunitaria umana è legato all’istituzione della monogamia sociale, che di fatto risulta essere più comune tra gli uccelli (90%) che nei mammiferi (3%). Il fatto forse più interessante è che nei primati la monogamia si è evoluta indipendentemente in tutti i cladi principali dove le condizioni ecologiche lo hanno permesso. Al contrario, se sussistono alti tassi di predazione in specifiche condizioni ecologiche, la pressione per mantenere coesi i gruppi sociali rende la monogamia una strategia non efficace; tale è la situazione per i gorilla e gli entelli (gen. Semnopithecus).

Tutti conoscono i gorilla, ma gli entelli? Eccone uno.
Immagine: Wikipedia (credit: Markus334).
Dato un contesto ecologico adeguato, le ipotesi messe in campo per spiegare l’evoluzione della monogamia sociale sono state:
  • cura (bi)parentale;
  • controllo del/della compagno/a onde evitare l’accoppiamento con terzi;
  • evitare il rischio dell’infanticidio: se la lattazione è più lunga del periodo di gestazione, uccidere i figli di un altro maschio può causare endocrinologicamente (ossia, per motivi ormonali) il ritorno dell’estro nella femmina e rendere pertanto questa pratica una strategia effettiva per promuovere i propri geni a scapito degli altri maschi.
I risultati delle ricerche condotte da un team guidato da Christopher Opie, e che comprendeva Robin Dunbar, Quentin Atkinson e Susanne Schultz, hanno dimostrato che tra questi tratti è l’ultimo quello potenzialmente più rilevante nel quadro dell’implementazione della monogamia [7]. Difatti, in presenza di uno schema di monogamia seriale, il tasso di infanticidio maschile è più basso. Sintetizzando, la presenza di un lungo periodo di allattamento e allevamento dei piccoli, con una lunga fase di apprendimento e dipendenza, comporta un alto rischio di infanticidio; la monogamia sociale associata alla cura biparentale permetterebbe pertanto di limitare e contrastare l’infanticidio maschile attraverso la riduzione del periodo di allattamento rispetto al periodo di gestazione. Negli scimpanzé, ad esempio, la gestione del rischio di infanticidio connesso ai vincoli temporali dell’allevamento dei piccoli avviene grazie a un sistema di poliginandria per cui «i maschi difendono le femmine e i piccoli all’interno del loro territorio, e le femmine garantiscono la confusione sulla paternità attraverso accoppiamenti multipli con la comunità di maschi» [8]. Ci troviamo pertanto di fronte ad una complessa dialettica tra violenza e sessualità come mezzi competitivi e cooperativi di gestione intersessuale delle società ominine nel corso della storia profonda.

Contro natura? Sesso e potere in Homo sapiens

C’è però un’aggiunta necessaria da fare – ed è il nesso tra sesso e potere negli esseri umani, che rispetto agli altri primati rievoca constantemente un discorso pregno di una lunga e istituzionalizzata storia culturale. Siamo o non siamo diversi? Più che lecito allora chiedersi quanto questo complesso bagaglio culturale renda H. sapiens un’eccezione – oppure, riformulando i termini del confronto, una semplice variante. Secondo il paleontologo Niles Eldredge, lo sganciamento dell’attività sessuale dalla riproduzione sarebbe una prerogativa esclusiva di H. sapiens e l’attività sessuale andrebbe meglio compresa come un triangolo (il «triangolo dell’uomo») [9] al cui apice sta la sessualità vera e propria, mentre ai due restanti vertici si pongono economia (nel senso di gestione delle risorse) e riproduzione [10]. Questa posizione può ben rappresentare il punto di incontro tra la biologia e lo studio della società tipico degli studi poststrutturalisti (Bourdieu e Foucault in primis) ma è incompleto – e forse anche un po’ manicheo.
Il "triangolo dell'uomo" secondo Niles Eldredge.
Siamo davvero sicuri che negli  animali non-umani non sia così?
Fonte: Eldredge 2005: 137.
Perché non è vero che siamo così diversi. Basta dare un’occhiata ad un testo come Biological Exuberance: Animal Homosexuality and Natural Diversity di Bruce Bagemihl (primo di una lunga serie di approfondite indagini sulla sessualità e l’omosessualità in natura) [11] per dimostrare agli scettici che in natura non esiste alcuna norma vincolante che leghi sessualità a riproduzione e allevamento della prole; anzi, tutt’altro [12]. I trecento casi circa di attività sessuale slegata dalla riproduzione descritti da Bagemihl, che comprendono attività omosessuali, transessuali, eterosessuali, masturbatorie e quant’altro, documentati in mammiferi e uccelli (con un’appendice su anfibi, rettili, animali domestici, ecc.), e dove il triangolo di Eldredge è spesso una costante universale, rappresentano un buon incipit per cominciare a cambiare idea anche sulla storia profonda di H. sapiens e ripensare le categorie poststrutturaliste e antropocentriche del rapporto tra sesso e potere (ad esempio scambi di cibo, richieste di cooperazione, ecc.). Allora, una volta di più occorre ricordare il monito secondo cui gli animali indulgono in attività che non hanno benefici diretti se non quello – tautologico – di indulgere in quelle stesse attività: nemmeno in questo caso c’è completa discontinuità tra H. sapiens e i suoi parenti filogenetici, per quanto vicini o lontani possano essere [13].

No, le illustrazioni non ve le posto qui. Siamo in fascia protetta ;-).
Fonte: Bagemihl 1999: 263.
“Norme”, al plurale

Per ritornare allo studio di Hill e colleghi citato all’inizio del post, e seguendo una traccia fornita dallo storico Daniel Lord Smail, le categorie analitiche ottenute dalle comparazioni etnografiche sono oggi spesso condotte (purtroppo non sempre) sotto la guida di modelli che hanno fatto tesoro dei molteplici errori impliciti ed ideologici della comparativistica etnografica, antropologica e storico-religiosa del passato recente. Le nuove analisi possono rivelare interessanti pattern o tendenze di lungo corso, tenendo sempre presente che le caratteristiche familiari e sociali di base che contraddistinguono H. sapiens sono comunque malleabili e flessibili, che non esiste un modello normativo culturale “normale”, e che di fatto si può parlare di possibilità poste in essere dall’interazione di molteplici fattori contingenti. Ad esempio, si può certamente parlare di una sorta di vincolo tendente verso l'organizzazione monogama, ma occorre considerare altresì la «tendenza verso i legami di coppia mitigati, in una misura più o meno grande, da pattern di infedeltà sistematica» che caratterizzano anche i tanto sbandierati rapporti monogami di certe specie di uccelli ritenute fedelissime [14]. E tanto più dovremmo comprendere che, così come la riproduzione è di fatto slegata dalla sessualità negli animali e nell’uomo, così non esiste un modello di base “normale” o, peggio ancora, una Urkultur, né nelle società naturali dei nostri parenti più vicini, né nelle società umane:
«persino tra i babbuini non c’è un pattern sociale “normale”: ora sappiamo che le società dei babbuini variano sottilmente da località a località: qui un tipo di matrilocalismo creato da coalizioni femminili, là pattern di dominanza maschile [...]. Tra gli esseri umani, ogni società è allo stesso modo plasmata dalle circostanze ambientali e da particolari pattern culturali» [15].
Lo studio storiografico permette di collocare tutte queste tendenze allinterno di precise coordinate geo-temporali. E questo è importante perché, grazie al nostro macchinario cognitivo, possiamo immaginare molte più soluzioni (e problemi) di quelle che poi possono essere effettivamente realizzati. Pertanto, studiare lattualizzazione effettiva e limplementazione sociale dei vari sistemi sociali dal punto di vista storiografico può contribuire a scrollare di dosso dagli studi comparativi interdisciplinari quella patina di aleatorietà temporale che talvolta, nonostante tutti gli sforzi, rimane.

Nel prossimo post vedremo quali tra quei «particolari pattern culturali» ricordati da Smail sono stati decisivi per creare le enormi società fatte di potenziali sconosciuti pronti a cooperare e tipiche di una buona parte della storia del peculiare animale Homo sapiens.

L'unica "Norma" della quale potete sempre fidarvi.
Immagine: pasta alla Norma, Wikipedia (credit: Paoletta S.)

[1] Chapais, B. (2008). Primeval Kinship: How Pair-Bonding Gave Birth to Human Society. Cambridge, MA: Harvard University Press, pp. 127-130. Vedasi inoltre Trautmann, T.R., Feeley-Harnik, G., & Mitani, J.C. (2011). Deep Kinship. In Shryock, Andrew e Daniel Lord Smail (eds.), Deep History: The Architecture of Past and Present. Berkeley, Los Angeles and London: University of California Press, pp. 160-188: 172-173, cui si rimanda anche per i legami di tali contestualizzazioni primatologiche con le classiche teorie antropologiche (in part. con Lévi-Strauss). Questi i dodici passaggi (ripresi da Chapais 2008): composizione mista del gruppo [presenza di molti maschi, femmine e prole]; esogamia legata alle parentele di gruppo; discendenza uterina (matrilineare); tabù dell’incesto; legami stabili di allevamento della prole; parentela agnatizia (patrilineare); affinità bilaterale [per cui un individuo è nello stesso tempo affiliato sia alla parte materna sia alla parte paterna]; tribù [il network sociale allargato]; pattern di residenza postmatrimoniale; complesso fratello-sorella [legato alla regolamentazione dei rapporti con/tra zii e cugini]; discendenza; scambio matrimoniale.

[2] Hill, K., Walker, R., Bozicevic, M., Eder, J., Headland, T., Hewlett, B., Hurtado, A., Marlowe, F., Wiessner, P., & Wood, B. (2011). Co-Residence Patterns in Hunter-Gatherer Societies Show Unique Human Social Structure Science, 331 (6022), 1286-1289 DOI: 10.1126/science.1199071. In part. p. 1288.

[3] Ibidem.

[4] Chapais, B. (2011). The Deep Social Structure of Humankind Science, 331 (6022), 1276-1277 DOI: 10.1126/science.1203281

[5] Ibidem.

[6] Ibidem.

[7] Opie, C., Atkinson, Q., Dunbar, R., & Shultz, S. (2013). Male infanticide leads to social monogamy in primates Proceedings of the National Academy of Sciences, 110 (33), 13328-13332 DOI: 10.1073/pnas.1307903110.

[8] Ibidem. Per una panoramica teorica più estesa sull’evoluzione della monogamia nei mammiferi si rimanda a Lukas, D., & Clutton-Brock, T. (2013). The Evolution of Social Monogamy in Mammals Science, 341 (6145), 526-530 DOI: 10.1126/science.1238677, ove invece si sostiene che questa sia una strategia di accoppiamento che dipende dalla bassa densità di femmine, dall’intolleranza territoriale nei confronti di altre femmine, e dall’incapacità dei maschi di controllare l’accesso a più femmine.

[9] Eldredge, N. (2005). Perché lo facciamo. Il gene egoista e il sesso. Torino: Einaudi, pp. 136-137. Pubblicato originariamente nel 2004 come Why We Do It: Rethinking Sex and the Selfish Gene. New York: W.W. Norton.

[10] Cfr. ibi: 136-137, 261.

[11] Cfr. Poiani, A. (2010). Animal Homosexuality: A Biosocial Perspective. Cambridge University Press: Cambridge and New York; Sommer, V. & Vasey, P.L. (eds.) (2011). Homosexual Behaviour in Animals: An Evolutionary Perspective. Cambridge and New York: Cambridge University Press.

[12] Bagemihl, B. (1999). Biological Exuberance: Animal Homosexuality and Natural Diversity. New York: St. Martin’s Press. Per alcuni doverosi ammonimenti riguardo le (non sempre identiche) cause prossime, i momenti dello sviluppo individuale, la funzione e la storia evolutiva che soggiacciono al comportamento omosessuale negli animali, e in particolare nei primati, cfr. Laland, K. N. & Brown, G.B. (2011). Sense & Nonsense: Evolutionary Perspectives on Human Behaviour. Second Edition, Oxford and New York: Oxford University Press, pp. 7-8 (1a ed. 2002).

[13] Balcombe, Jonathan Peter. 2011. The Exultant Ark: A Pictorial Tour of Animal Pleasure. Berkeley, Los Angeles & London: University of California Press

[14] Smail, D. L. (2008). On Deep History and the Brain. Berkeley, Los Angeles and London: University of California Press, p. 197.

[15] Ibi: 196. Cfr. Eldredge 2005: 160.

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