lunedì 10 settembre 2012

Dinosauri e tuatara. I fossili viventi nella biospeleologia di Emil Racoviţă

Henry, il tuatara in cattività più vecchio al mondo, ad Invercargill, Nuova Zelanda. Età dichiarata: 111 anni al 2009. Immagine: autore KeresH, fonte Wikipedia.
ResearchBlogging.org Biospeleologia e ortogenesi

Brian Switek, giornalista scientifico e blogger extraordinaire, ha recentemente offerto una sua vivace riflessione in occasione della pubblicazione di un articolo di Carlo Meloro e Marc Jones, nel quale viene smontato (nel caso non fosse ancora chiaro) l'argomento sempreverde dei tuatara come fossili viventi [1]. Dato che nell'articolo dei due autori citati la storiografia del caso in oggetto non trova molto spazio (e considerando che che le fonti storiografiche più risalenti citate da Meloro e Jones  risalgono solo agli anni '50 del Novecento), con questo contributo (che rappresenta anche un'anticipazione, opportunamente modificata e semplificata, di un mio libro all'ultima fase di preparazione revisione ricerca di contatti editoriali stasi editoriale ?!)*, cerco di scavare più a fondo nelle pieghe della storia per cercare le radici novecentesche della controversa definizione di «fossile vivente». Un’indagine che mi ha portato a concentrarmi su un nome in particolare, lo studioso di origine romena Emil Racoviţă (1868-1947) [2].
Promotore della biospeleologia (scienza che si occupa dello studio degli organismi che trascorrono la loro esistenza nelle caverne e nelle cavità ipogee, da lui battezzata biospeologia), Racoviţă si distingueva per un sistema eclettico all’interno del quale trovavano spazio una concezione neolamarckiana (comprendente l’ereditarietà dei caratteri acquisiti), un ridimensionamento della selezione naturale nel processo evolutivo e una visione ortogenetica [3]. Racoviţă non fu solamente uno studioso da poltrona: partecipò al viaggio di esplorazione antartica a bordo della nave Belgica (1897-1899), al quale prese parte tra gli altri il celebre esploratore norvegese Roald Amundsen (1872-1928). A partire dal 1920, Racoviţă fu a capo del primo istituto di biospeleologia al mondo, a Cluj in Romania.

*: Per la revisione della presente sezione del capitolo dal quale è tratto il seguente estratto devo ringraziare in particolare Simone Maganuco e Stefania Nosotti, entrambi afferenti al Museo di Storia Naturale di Milano.

Un modello di storia naturale

Per quanto riguarda le concezioni naturalistiche dello studioso romeno si rileva innanzitutto l’accettazione delle idee del naturalista tedesco Moritz Wagner (1813-1887) [4]. In «un’accanita discussione» con Darwin, Wagner sostenne (cito da Ernst Mayr) «che l’isolamento geografico era assolutamente indispensabile per la speciazione. Sfortunatamente Wagner rese confusi i termini della discussione affermando anche che la selezione naturale era inoperante se la popolazione non era isolata» [5]. Oggi l’idea della speciazione allopatrica, riveduta e corretta dai tempi di Wagner, è diventata parte integrante dell’evoluzionismo grazie anche alla conoscenza dei meccanismi genetici coinvolti in questo processo [6]. All’epoca però, Racoviţă, poneva in secondo piano l’importanza della selezione naturale e, sulla scorta della ricezione del lavoro di Wagner, attribuiva il processo della speciazione tout court all’isolamento: «Se l’isolamento venisse a mancare, i mutanti si abbandonerebbero a degli incroci tra di loro e il risultato sarebbe un ritorno al tipo primitivo» [7].
In secondo luogo, nell’opera di Racoviţă fu determinante l’influenza dell’ortogenesi formulata da un altro naturalista tedesco, Theodor Eimer (1843-1898), secondo la quale il principio di perfezione immanente nell’evoluzione traccerebbe un percorso obbligato in una direzione più o meno rettilinea [8]. Eimer, in particolare, pose l’attenzione sul fatto che le serie rettilinee della filogenesi si potevano tracciare anche per caratteri non utili o persino dannosi [9]. Infine, dato che in questo tipo di pensiero si riteneva che la storia evolutiva fosse guidata da leggi finalistiche che determinano lo sviluppo degli organismi, secondo Racoviţă – e altri studiosi dell’epoca – sarebbe stato inoltre possibile prevedere le direzioni evolutive del futuro, ossia «spiegare la vita di oggi tramite la trasformazione di quella di ieri, e […] dedurre ciò che sarà domani della direzione evolutiva della storia dei fenomeni attuali» [10].

Tuatara, caverne e dinosauri

Era opinione di Racoviţă che «[…] la correzione delle nostre idee sui relitti [ossia, i “fossili viventi”. NdA] [fosse] dovuta in gran parte alle ricerche speleologiche, e il ruolo di questa disciplina […] si annuncia della più grande rilevanza. Solo nelle caverne, negli anfratti, nei pozzi, nei dirupi […], esplorate dai collaboratori […] e da me, è stato scoperto un numero considerevole di relitti terziari e persino mesozoici. Le creature portate alla luce, studiate con spirito “storico” […], si sono dimostrate molto spesso “straniere” in mezzo ai loro contemporanei che vivono in superficie, benché alcune siano imparentate con specie che abitano ora in lontanissime zone biogegrafiche, contraddistinte da climi diversi, mentre altre con stirpi estinte da tempo più o meno lontano» [11].
Oggetto degli studi di Racoviţă erano difatti i troglobi, termine con il quale si definiscono tutti gli animali (crostacei, artropodi, pesci, anfibi urodeli, etc.) che trascorrono l’intera esistenza nelle caverne, in genere contraddistinti da scarsa pigmentazione cutanea e da vista ridotta o assente [12]. Racoviţă si era convinto che questi animali, in una forma (quasi) perennemente identica, risalissero sic et simpliciter al Mesozoico. La speleologia sarebbe quindi diventata «lo strumento per eccellenza che, tramite le “vestigia sotterranee”, testimoni di uno sviluppo che si estende per milioni di anni, [avrebbe permesso] di rintracciare il cammino e l’incontestabile evoluzione degli esseri viventi sulla Terra» [13].
Secondo la Weltanschauung evoluzionistica racoviţiana, dunque, alcuni organismi-relitti, che sono riusciti fino ad oggi ad attraversare il tempo profondo senza cambiamenti, sarebbero «testimoni per così dire oculari» dei diversi periodi che si sono succeduti nel corso della storia del pianeta. «Questi “relitti” sono, dal punto di vista cronologico e filogenetico, dei veri fossili a confronto dei loro attuali compagni di vita, ma “fossili vivi” […]» [14]. Nel passaggio riportato, tra gli esempi che l’autore elenca per dimostrare l’esistenza di «fossili viventi», viene citato il caso del tuatara neozelandese, che non appartiene al gruppo racoviţiano dei troglobi (Sphenodon punctatus, erroneamente ricordato come «specie australiana»). Secondo il biospeleologo, il tuatara sarebbe il testimone vivente e «non modificato di quei tempi fiabeschi» in cui dominavano i dinosauri: quasi invidiando il piccolo animaletto immobilizzato nel tempo, Racoviţă ritiene sia stato uno spettacolo tremendo per il piccolo tuatara assistere alla «lotta tra bestie come il Tirannosauro, con fauci giganti armate con centinaia di coltelli appuntiti, ed erbivori sgraziati come il Brachiosauro che superavano i 30 metri di lunghezza» [15].

Un modello sbagliato

Come già era noto all’epoca, i due generi di dinosauro appena citati non hanno convissuto e sono separati da almeno una settantina di milioni di anni circa [16], ma forse lo speleologo li volle appaiare per sortire un grandioso effetto scenografico. La visione biologica che regge il pensiero dello speleologo romeno è certamente di origine romantica, e sottende alcuni pregiudizi iconografici allora tipici e in seguito abbandonati. In un’epoca nella quale gli studiosi post-vittoriani consideravano i dinosauri come “rettili terribili” (fedelmente all’etimologia del neologismo coniato da Richard Owen nel 1842), animali grassi, enormi e impacciati, questi esseri erano invariabilmente immobilizzati in una visione dicotomica per cui, nella parole di Robert T. Bakker, o erano «mostri relegati nelle paludi, indolenti, arrancanti nel fradicio terreno dell’era Mesozoica con andature sonnolente» [17] oppure non facevano altro che divorarsi a vicenda, secondo lo stilema convenzionale sintetizzato da Stephen J. Gould, i cui canoni comprendevano un'«innaturale e affollata predazione per cui ogni creatura raffigurata rappresenta il partecipante al banchetto o il pasto stesso» [18]. In quell’ottica, se i dinosauri rappresentavano un esperimento fallito della storia della vita sul pianeta, estinti senza lasciare discendenti perché «sgraziati», ossia inadatti alla vita (sappiamo invece oggi che gli uccelli, una delle classi di vertebrati più diffuse al mondo, sono dinosauri), i mammiferi e in particolare l’uomo risultavano essere i “conquistatori” vincenti della storia: la medesima impostazione gloriosa e teleologica destinata a dominare all’epoca, mutatis mutandis, nella storia delle culture e delle religioni [19].
Per comprendere appieno il pensiero di Racoviţă, e chiarire la contestualizzazione storica dei punti attualmente non più sostenibili, non basta affermare che i troglobi sono in genere animali provenienti dalla superficie e adattatisi secondariamente all’ambiente (non sarebbero quindi né relitti né «fossili viventi»), né che esiste una complessa differenza a seconda del grado di frequentazione e di adattamento di questi organismi all’habitat ipogeo. Andrebbe invece sottolineato come il concetto di «fossile vivente», al pari del forse più celebre “anello mancante” o “di congiunzione”, fosse solitamente tradotto, e lo è ancora soprattutto nel mondo della comunicazione mediatica di massa, in un’iconografia convenzionale che stabilisce rapporti lineari tra gruppi tassonomici discreti (un insieme è discreto se ogni suo punto è “separato”, e perciò “isolabile”, dagli altri). Da questi deriva, in ultima istanza, la constatazione che «la posizione nel tempo si combina con un giudizio di valore» [20]. Detto altrimenti, «l’equazione secondo cui più antico equivarrebbe a meno complesso e meno diversificato è piena di eccezioni, proprio perché i fattori evolutivi influenti hanno agito in modo da produrre organismi complessi in tempi precoci, o viceversa hanno conservato per centinaia di milioni di anni soluzioni di sopravvivenza semplici e robuste» [21]. In estrema sintesi, gli schemi dell’evoluzione (ricavabili solo a posteriori dall'indagine umana) sono ramificati a cespuglio, non orientati (teleologicamente) verso l’alto come un tronco d’albero sviluppantesi in ramoscelli finali.
Inoltre i “fossili viventi”, e gli “anelli di congiunzione”, non esistono in quanto tali – anche i troglobi sono il frutto di un’evoluzione [22]. Essendo la variabilità individuale la base sulla quale si innesta il motore dell’evoluzione, qualunque organismo potrebbe benissimo essere un “anello di congiunzione” tra qualcosa di precedente e qualcosa di successivo: la concezione dell’anello mancante, frutto di un vetusto costrutto intellettuale, ha esaurito la sua funzione euristica ed è stata sostituita (per così dire) dalla ricerca paleontologica e genetica dell’ultimo antenato comune, un territorio esplorato dalla sistematica filogenetica [23]. Altra cosa, e ben diversa, sono le forme transizionali allo stato fossile tra due taxa viventi [24]. Considerare il tuatara come un “fossile vivente” (per quanto, come altri gruppi animali tra cui limuli, storioni, dipnoi, etc., manifesti una certa stabilità generale e apparente di Bauplan, dovuta ad un «tasso di speciazione così basso che ben poco materiale grezzo per tendenze di clade è stato generato nel tempo» [25]) è un luogo comune che minimizza i cambiamenti morfologici interni al suo gruppo di appartenenza (Sphenodontia) [26].
Infine, non c’è sempre equivalenza diretta tra le variazioni del genotipo (ovvero, relative all’insieme di geni che compongono il codice genetico) e del fenotipo (ossia l’espressione di un genotipo: «tutte le proprietà osservabili, strutturali o funzionali, di un organismo») [27], perché solamente meno del cinque per cento circa del genoma controlla la morfologia dei vertebrati: ad una più o meno grande stabilità fenotipica nel tempo profondo si può quindi associare una certa divergenza genotipica (difficilmente riscontrabile ad occhio nudo) [28].

[1] Brian Switek, Unless They’re Zombies, Fossils Don’t Live, su Wired.com, 22 agosto 2012, http://www.wired.com/wiredscience/2012/08/a-rant-about-living-fossils/;  commento su Carlo Meloro e M.E. Jones, Tooth and cranial disparity in the fossil relatives of Sphenodon (Rhynchocephalia) dispute the persistent 'living fossil' label, in «Journal of Evolutionary Biology», Article first published online: 20 Aug. 2012, doi: 10.1111/j.1420-9101.2012.02595.x.
[2] Un quadro del suo pensiero è reperibile in Victoria Tatole, Notes on the Reception of Darwin’s Theory in Romania, in Eve-Marie Engels e Thomas F. Glick (eds.), The Reception of Charles Darwin in Europe, Continuum, London-New York 2008, vol. II, pp. 463-479; in part. pp. 477 e sgg. Il testo non è però esente da lacune storiografiche. Per un profilo biobibliografico restano fondamentali Constantin Motaş e Constantin A. Ghica, Emil Racoviţă: 1868-1947, Meridiane, Bucureşti 1968 e iid., Emil Racoviţă. Fondatorul biospeologiei, Editura Ştiinţifică, Bucureşti 1969, mentre per una sintesi della cultura antidarwiniana della zona all'epoca, influenzata dall'ortogenesi tedesca e dal neolamarckismo di area francese, si rimanda a T. Pievani, Introduzione a Darwin, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 149-150.
[3] C. Motaş e C.A. Ghica, Emil Racoviţă: 1868-1947, cit., pp. 37-38. L’ortogenesi implicava «soluzioni lamarckiane fin dal suo esordio» e si sarebbe rivelata priva di fondamento alla luce degli sviluppi in campo genetico ed evoluzionistico; cit. da Giulio Barsanti, Una lunga pazienza cieca. Storia dell’evoluzionismo, Einaudi, Torino 2005, p. 336.
[4] C. Motaş e C.A. Ghica, Emil Racoviţă: 1868-1947, cit., pp. 35-36. Su Wagner cfr. Richard Milner, Wagner, Moritz (1813-1887), in id., Darwin’s Universe: Evolution from A to Z, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2009, p. 433.
[5] Ernst Mayr, Un lungo ragionamento. Genesi e sviluppo del pensiero darwiniano, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 46 (ed. or. One Long Argument: Charles Darwin and the Genesis of Modern Evolutionary Thought, Harvard University Press, Cambridge 1991).
[6] R. Milner, Wagner, Moritz (1813-1887), cit.
[7] Cit. di Racoviţă proveniente da C. Motaş e C.A. Ghica, Emil Racoviţă: 1868-1947, cit., p. 36.
[8] Ivi, p. 38.
[9] Cfr. E. Mayr, Un lungo ragionamento, cit., p. 74; id., Storia del pensiero biologico. Diversità, evoluzione, eredità, Bollati Boringhieri, Torino 2011, vol. I,  p. 476 (19901; ed. or. The Growth of Biological Thought. Diversity, Evolution, and Inheritance, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge-London 1982).
[10] C. Motaş e C.A. Ghica, Emil Racoviţă: 1868-1947, cit., p. 40. La citazione proviene da un discorso tenuto da Racoviţă nel 1928.
[11] Cit. da  C. Motaş e C.A. Ghica, Emil Racoviţă. Fondatorul biospeologiei, cit., p. 164.
[12] Per una disamina più precisa del concetto si può vedere Thomas C. Barr, Jr. e John R. Holsinger, Speciation in Cave Faunas, in «Annual Review of Ecology and Systematics», 16, 1985, pp. 313-337; in part. pp. 314 e 316. Per approfondire si rimanda a David C. Culver e Tanja Pipan, The Biology of Caves and Other Subterranean Habitats, Oxford University Press, Oxford-New York 2009, e Aldemaro Romero, Cave Biology: Life in Darkness, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2009 (in part. la prima parte storiografica, A Brief History of Cave Biology, pp. 1-61).
[13] C. Motaş e C.A. Ghica, Emil Racoviţă. Fondatorul biospeologiei, cit., p. 164.
[14] Ivi, pp. 161-162.
[15] Ivi, p. 163.
[16] David B. Weishampel, Peter Dodson e Halska Osmólska (eds.), The Dinosauria. Second Edition, The University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2007, pp. 113 e 267 (2004; la prima ed. risale al 1990)].
[17] Robert T. Bakker, The Dinosaur Heresies, Penguin Books, London-New York 1988, p. 15 (ed. or. William Morrow & Co., New York 1986).
[18] S.J. Gould, Reconstructing (and Deconstructing) the Past, in id (ed.), The Book of Life: An Illustrated History of the Evolution of Life on Earth, W.W. Norton & Co., New York 20012, pp. 6-21; p. 9 (19931).
[19] Paul Semonin, Empire and Extinction: The Dinosaur as a Metaphor for Dominance in Prehistoric Nature, in «Leonardo», 30, 3, 1997, pp. 171-182.
[20] S.J. Gould, La vita meravigliosa. I fossili di Burgess e la natura della storia, Feltrinelli, Milano 2007, p. 39, nota n. 6 (19901; ed. or. Wonderful Life: The Burgess Shale and the Nature of History, W.W. Norton & Co., New-York-London 1989).
[21] Telmo Pievani, La vita inaspettata. Il fascino di un’evoluzione che non ci aveva previsto, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011, p. 23. Una sintesi sul concetto di storia nell’evoluzione è in ivi, pp. 93-96 e passim.
[22] Cfr. T.C. Barr, Jr. e J.R. Holsinger, Speciation in Cave Faunas, cit.
[23] Cfr. Pascal Picq, Lucy et l’obscurantisme, Odile Jacob, Paris 2008, p. 201 (2007).
[24] Cfr. Jerry A . Coyne, Perché l’evoluzione è vera, Codice edizioni, Torino 2010, pp. 40-42 (ed. or. Why Evolution Is True, Viking Penguin, New York 2009) e il par. L’ossessione dell’anello mancante in T. Pievani, La vita inaspettata, cit., pp. 22-23.
[25] S.J. Gould, La struttura della teoria dell’evoluzione, edizione italiana a cura di T. Pievani, Codice edizioni, Torino 2003, p. 1171 (ed. or. The Structure of Evolutionary Theory, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge-London 2002).
[26] Cfr.  Xiao-Chun Wu, Late Triassic-Early Jurassic Sphenodontians from China and the Phylogeny of Sphenodontia, in Nicholas C. Fraser e Hans-Dieter Sues (eds.), In the Shadow of the Dinosaurs: Early Mesozoic Tetrapods, Cambridge University Press, Cambrige 1994, pp. 38-69.[27] Cfr. Gabriella Sella, Genotipo e fenotipo, in Aldo Fasolo (a cura di), Dizionario di biologia, UTET, Torino 2004, pp. 476-479; p. 476.
[28] Guillaume Lecointre e Hervé Guyader, Classification phylogénétique du vivant, Belin, Paris 20013, p. 44.

Indicizzazione su Research Blogging tramite:Meloro C, & Jones ME (2012). Tooth and cranial disparity in the fossil relatives of Sphenodon (Rhynchocephalia) dispute the persistent 'living fossil' label. Journal of evolutionary biology PMID: 22905810

venerdì 20 luglio 2012

Il naturalista e lo scrittore: Darwin secondo McEwan

Charles R. Darwin, presso il Natural History Museum di Londra. Fotografia dell'autore, estate 2012 [licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia (CC BY-NC-ND 3.0)]
ResearchBlogging.org Il parere dello scrittore

Lo scrittore britannico Ian McEwan, già apprezzato autori di romanzi (pubblicati in Italia da Einaudi e, ahimè, a me ignoti) nonché membro di Edge, scrive sul numero di luglio de Le Scienze [1]:
«Il pensiero scientifico del XIX secolo aveva indugiato per decenni al margine di idee evoluzionistiche, e se Darwin - o Wallace - non avesse espresso compiutamente l'idea dell'evoluzione per selezione naturale, altri lo avrebbero fatto. Le stesse realtà biologiche erano sotto gli occhi di tutti, e la tassonomia era in uno stadio avanzato» (ibid., p. 45)
Più avanti annuncia quanto segue: 
«Una teoria secondo cui tutte le specie sono imparentate, compresi gli esseri umani, era una sfida alla dignità, e all'inizio la chiesa trovò molto difficile accettare l'idea che le specie non fossero fisse, immutabili, create da Dio non molto tempo fa» (ibid., p. 46).
Ciò nonostante, secondo McEwan,
«la cosa più interessante sulla pubblicazione di L'Origine delle specie è la rapidità con cui venne accettata» (ibid.) [NOTA: come emerso durante una conversazione informatica con Andrea Cau, qui "accettazione" si riferisce all'approvazione del manoscritto da parte dell'editore o alla diffusione della teoria colà espressa? In entrambi i casi la frase è contenutisticamente e sintatticamente ambigua]
e poco oltre, associando la teoria della relatività a quella elaborata da Darwin, scrive che «l'accettazione accelerata dei lavori di Darwin e Einstein nel 1858 e nel 1915 non si può spiegare del tutto con la loro efficacia, o verità», quanto piuttosto - rifacendosi ad una definizione di E.O. Wilson - «con l'eleganza [...] [o] bellezza di una specifica generalizzazione scientifica» (ibid.).

I punti principali e i nodi del contendere

Sono affermazioni che disorientano per la loro leggerezza, e per il fatto di essere state ospitate sull'edizione nazionale di una delle più note e diffuse riviste internazionali di divulgazione scientifica, nonché uno dei periodici ad ampia tiratura più antichi e rispettabili degli Stati Uniti (Scientific American festeggerà il 26 agosto di quest'anno il 167° anniversario dalla fondazione). Anticipo immediatamente che non è mio interesse giudicare l'opera letteraria di McEwan, che non conosco.  Sottolineo inoltre che non rientra nelle finalità di questo post esprimere un giudizio sulla qualità letteraria dell'articolo da lui firmato. La sola preoccupazione del presente contributo è di fornire alcuni strumenti di base per contestualizzare e correggere alcune affermazioni di McEwan su Darwin e sulla storiografia dell'evoluzionismo biologico.
Dunque, i principali punti di nostro interesse contenuti nel saggio di McEwan  sono riassumibili come segue:
  1. la teoria di Darwin è implicitamente rappresentata come un insieme compatto e un modello monolitico piuttosto semplice; 
  2. per lo scrittore britannico, la teoria dell'evoluzione per selezione naturale di Darwin sarebbe stata accettata in toto quasi immediatamente dopo la comunicazione congiunta delle relazioni di Wallace e Darwin presso la Linnean Society nel 1858. Darwin, che stava lavorando privatamente al suo progetto da una ventina d'anni, «arriv[ò] prim[o]» e fu «travolt[o] dalla celebrità e da profondo rispetto», mentre «Wallace fin[ì] per languire in una relativa oscurità» (ibid., p. 45). Eccettuando una certa originalità di Darwin (non specificata), nessuna differenza viene delineata tra le proposte dei due studiosi;
  3. McEwan interpreta il processo che soggiace alla storia delle idee come unilineare, teleologico e quasi prestabilito: possiede una sola direzione (paradossalmente stabilita a posteriori) - ciò che è accaduto doveva accadere per forza, qualcuno avrebbe compiuto prima o poi quella particolare azione in quel particolare momento storico;
  4. secondo McEwan, «arrivare primi, essere originali, è di grande importanza nella scienza» come nell'arte (ibid., p. 45). Ciò nonostante, eccettuando il merito dell'originalità artistica anche nella scienza, «non dovrebbe [...] essere tanto importante, in termini di pura razionalità e di progresso scientifico, chi [...] arrivò per primo» alla formulazione di una teoria convalidata dai dati o da una particolare scoperta; detto altrimenti, «in termini del bene comune, potrà mai essere importante se sia stato Joseph Priestley o Antoine Lavoisier a scoprire l'ossigeno, se sia stato Isaac Newton o Gottfried Leibniz a inventare l'analisi matematica?» (ibid., p. 44).
Di seguito, quindi, trovano spazio le precisazioni storiografiche in merito alle opinioni espresse da McEwan.

Organizzazione del modello teorico darwiniano

Per quanto sia sostanzialmente vero che l'idea dell’evoluzione all'epoca non fosse né nuova né particolarmente innovativa di per sé (per quanto formulata sovente in chiave teologica), ciò che si rivelò essere determinante per la proposta darwiniana fu la sua configurazione particolare, che rappresentò effettivamente uno spartiacque storico. Lungi dal rappresentare una teoria monolitica, come McEwan sembra prospettare, il pensiero di Darwin si compone dall'articolazione di cinque tesi autonome, così sintetizzate dal biologo evoluzionista Ernst Mayr (1904-2005): 
  1. l'evoluzione in quanto tale, ossia la modificazione delle specie nel corso del tempo, 
  2. la discendenza a partire da una antenato comune, 
  3. la speciazione popolazionale, ossia la discendenza delle specie da specie preesistenti, 
  4. la gradualità dell'evoluzione e, infine, 
  5. la selezione naturale.
Questi cinque punti, combinati con il rifiuto dell'idea di progresso assoluto e con l'affermazione del ruolo dei processi stocastici (ossia casuali), rappresentarono una sfida nei confronti di un canone grosso modo omogeneo di filosofie teologiche e secolari che si rafforzavano a vicenda e che in alcuni casi erano antiche di almeno duemila anni. Tra le prime, le principali stabilivano l'esistenza di un mondo immodificabile, l'esistenza di una creazione (o di più creazioni indipendenti che facevano seguito a catastrofi naturali, a seconda delle interpretazioni geologiche), la fede in un creatore saggio e benevolo e l'antropocentrismo, secondo il quale il mondo intero sarebbe stato creato per l'uomo. 
Le ideologie secolari allora in voga, ed esplicitamente contrarie all'evoluzione darwiniana, erano invece l'essenzialismo (ossia l'esistenza di insiemi ideali e discreti che corrispondevano sic et simpliciter alle cose del mondo fisico), il fisicalismo e il determinismo tipico delle scienze fisico-matematiche, che si esprimevano per leggi immodificabili (perlopiù reinterpretate in un'ottica teologica), e la teleologia nelle sue varie formulazioni (in una chiave spesso teologica). Solo Darwin, e Wallace in maniera indipendente (e con alcuni distinguo teorici), erano arrivati a formulare quel campione di ipotesi che, a partire dalla constatazione dell'azione del tempo profondo in ambito biologico, avrebbe posto le basi per la futura indagine biologico-evoluzionistica e genetica, e solo nella formulazione darwiniana il tempo profondo della storia della vita sulla Terra scalzava definitivamente le antiche credenze sulla biologia dallo schema dell'immutabilità religiosamente stabilita [2].

«Più fischi che applausi»: un confronto con le idee di Wallace, l'indifferenza iniziale e i fraintendimenti ottocenteschi

Non è comunque corretto subordinare il pensiero di Darwin e quello di Wallace allo stendardo di un ipotetico "spirito del tempo dell'idea evoluzionistica", insieme a chissà quanti altri pensatori. Kevin Padian ha giustamente sottolineato come «l'idea che la teoria dell'evoluzione fosse "nell'aria", e che se Darwin non l'avesse pensata quando lo fece, qualcun'altro lo avrebbe fatto», non sia altro che uno dei molti miti presenti nella letteratura su Darwin [3]. Nonostante l'dea della trasmutazione delle specie avesse avuto sostenitori eccellenti tra i quali Buffon, Lamarck, Erasmus Darwin e Robert Chambers, «nessuno aveva proposto un meccanismo plausibile per spiegare come questa potesse aver luogo» [4].
Inoltre il pensiero evoluzionistico di Wallace possedeva peculiarità che lo distanziavano da quello di Darwin. Benché anche Wallace si fosse ispirato a Malthus e fosse giunto alla concezione della divergenza delle specie attraverso l'associazione della variazione alla selezione e alla lotta per l'esistenza, come ha sintetizzato recentemente Telmo Pievani, esistono comunque differenze significative già nel manoscritto presentato con l'abbozzo darwiniano  nel 1858: «[...] l'approccio è più funzionalista, gli inadatti sono eliminati direttamente dall'ambiente e meno dalla competizione con altri individui, l'evoluzione sembra avere una chiara direzione di progresso e di equilibrio, non vi è traccia del meccanismo di selezione sessuale e l'analogia con la selezione artificiale verrà dopo [...]» [5]. Non è nemmeno del tutto vero che Wallace «languì in una relativa oscurità» come ha scritto McEwan, ma in questo caso l'intreccio di contesto e storiografia ci porterebbe troppo lontano.
In secondo luogo, la teoria di Darwin non fu "accettata" dall'establishment accademico nel biennio 1858-'59: venne accolta con indifferenza prima e con «più fischi che applausi» poi, per citare il titolo di un capitolo della biografia di Desmond e Moore dedicata a Darwin [6]. Nel maggio del 1859 il presidente della Linnean Society poté affermare che l'anno era trascorso senza esser riuscito ad annoverare alcuna particolare scoperta rivoluzionaria [7]. Nei decenni che seguirono la pubblicazione dell’opera di Darwin, inoltre, furono rari i casi di adozione integrale del modello di ricerca stabilito da Darwin, e di gran lunga superiori in numero gli adattamenti, o i fraintendimenti, indirizzati verso filosofie ortogenetiche o finalistiche [8].
McEwan, isolando Darwin dal contesto scientifico dell'epoca e adottando un'anacronistica ottica contemporanea imperniata sul mondo dei media e dello star system, cade nella rettifica a posteriori quando scrive che all'epoca Darwin fu travolto da «celebrità e profondo rispetto». Nemmeno una parola per gli insulti, la violenza delle caricature e del giudizio morale che la cultura mainstream della seconda metà dell'Ottocento gli rivolse (e in particolare il nascente panorama dei quotidiani nazionali)? No. Eppure ancora oggi (r)esiste purtroppo un problema di ordine concettuale che riguarda l’uso e il giudizio di valore implicito nella desueta definizione di evoluzione in quanto “progresso” indefinito o te(le)ologicamente orientato.
Infine, l'affermazione astratta di McEwan secondo la quale la tassonomia fosse all'epoca ad «uno stadio avanzato» non significa nulla neppure nell'ottica della sua filosofia della storia: organizzare secondo principi discreti il regno del vivente (fino a tempi recenti secondo il discernimento del naturalista), non equivale a comprendere la storia e i legami evoluzionistici intrinseci. Detto in altri termini: se una data cultura possiede regole di classificazione biologica (quale non le ha?), ciò non significa che quella cultura abbia elaborato un concetto di filogenesi o che possieda una conoscenza sufficiente della documentazione paleontologica.

La storia delle idee nel mondo di Pangloss

Darwin ha alle spalle generazioni di osservatori, scrittori, interpreti (religiosi e non) del mondo naturale, che arrivano fino alle primissime manifestazioni della volontà di spiegare i fenomeni naturali inscritte nelle mitologie del mondo. Ma ciò non equivale a dire che qualcuno al tempo di Darwin sarebbe arrivato a formulare una teoria equivalente per filo e per segno alla sua. Il naturalista inglese avrebbe potuto benissimo non pubblicare mai il suo testo fondamentale, e l'evoluzionismo moderno avrebbe potuto avere origine da una cornice storico-culturale completamente diversa, oppure restare ancorato ad una concezione teleologica del vivente, tanto in voga negli ambienti della teologia naturale.
Per una catena di (tragiche) contingenze storiche, così come non abbiamo, per esempio, uno stato mesoamericano nativo autonomo, erede diretto delle entità statuali precolombiane (il quale avrebbe potuto rappresentare oggi un esempio di statualità del Nuovo Mondo non colonizzata dagli europei), non abbiamo una completa teoria dell'evoluzione non darwiniana e non occidentale (anche se nel corso del tempo alcuni modelli geomitologici si sono avvicinati ad un concetto, per certi versi, evolutivo). Il merito di Darwin, catalizzatore di tutta una risalente tradizione europea, è stato quello di introdurre definitivamente il concetto di “storia” come concatenazione inscindibile di eventi contingenti, che si sviluppa sulla scala temporale del tempo profondo (un concetto mutuato dalla geologia, esteso oggi alla cosmologia e alla storia dell'universo), in un ambito in precedenza visto soprattutto come fissista e teologico, scardinandolo dai vincoli dogmatici.
La concezione della storia delle idee di McEwan, invece, risente di un soggiacente indirizzo teleologico della storia tout court. Nella sua ottica lo sviluppo delle conoscenze scientifiche è orientato dallo spirito del tempo che sembra essere sempre favorevole ad un progresso indefinito: i nomi di chi ha fatto ricerca in un dato periodo, per lo scrittore britannico, non hanno valore di per sé, perché comunque le scoperte sarebbero state effettuate in quel medesimo periodo, da altre persone. La svalutazione della casualità, delle storie individuali degli studiosi, dei loro percorsi scientifici che dettano le inclinazioni nella ricerca, il non riconoscere la contingenza degli sviluppi della storia delle idee (e nelle discipline storiche in generale), le intricate concatenazioni di spunti, vincoli, frequentazioni, vissuto e quant'altro dimostrano invece una scarsa attenzione al contesto della storiografia (e dell'evoluzione stessa) [9], e sembrano quasi suggerire un'apologia del plagio scientifico o artistico.
In fin dei conti, a posteriori è facile per tutti trovare i motivi (quali che siano, spesso errati) che hanno reso quella scoperta particolare, quell'evento sportivo, quell'elezione politica, quel disastro ambientale o addirittura la stessa evoluzione del vivente o dell'uomo, inevitabile e prevedibile, quasi orientata. Si tratta di una predisposizione cognitiva che Michael Shermer definisce come «hindsight bias», ossia «la tendenza a ricostruire il passato per farlo combaciare con le conoscenze presenti» [10].

Tra arte e scienza: originalità dell'autore come vezzo e massimo comune divisore?

A differenza di quanto affermato da McEwan, i nomi degli scienziati e degli studiosi non vengono ricordati per un mero vezzo in comune con l'arte,  per il lezioso riconoscimento della primogenitura e dell'originalità di una teoria (che comunque può avere il suo peso), ma perché quella particolare scoperta o idea o teoria avrebbe potuto non vedere mai la luce. Avrebbe potuto essere declinata in modo completamente differente, modificando quindi tutta la storia successiva, con ricadute a cascata sull'intera storia delle idee. Avrebbe potuto trovare espressione precoce o tardiva rispetto al contesto storico (è successo), o trovare espressione in riviste o circoli poco frequentati dal mainstream scientifico (è successo anche questo), mancando o ritardando in entrambi i casi l'incontro con la notorietà e la diffusione nell'ambito della ricerca (ammessa la sua validità). D'altra parte, lo stesso può dirsi per l'arte.
In ultima istanza, nonostante l'insistenza di McEwan sul parallelo tra arte e scienza basato sull'originalità, quest'ultima da sola non garantisce mai l'aderenza alle evidenze; è una delle basilari differenze tra pensiero deduttivo e induttivo (anche se i confini non sono mai così netti). Come scrisse nel 1918 l'astronomo britannico A.C. Crommelin in merito alla teoria degli universi-isola (in seguito convalidata): «[...] le nostre conclusioni nella scienza devono essere basate sulle evidenze, e non sul sentimento. Ma possiamo esprimere la speranza che tale sublime concezione riesca a passare le prove costituite da ulteriori esami» [11]. Sono questi «ulteriori esami» che vagliano il sapere e costruiscono il patrimonio scientifico. Grazie a questa incessante catena di controlli lo schema darwiniano, cambiato e migliorato nel corso del tempo, è ancora integro, sostenuto da sempre più ampie prove genetiche (a partire dagli studi coevi di Mendel, che Darwin non conosceva), paleontologiche e biologiche, a conferma della validità delle originarie supposizioni di Darwin.

«Il più grande storico che sia mai vissuto»

Il merito di Darwin va ben al di là del primato di una certa eleganza di scrittura, di un'abilità artistico-letteraria di esposizione o di una paternità teorico-scientifica. Frank J. Sulloway ha persino proposto di considerare Darwin come «il più grande storico che sia mai vissuto» [12]. Perché? Ci limitiamo in questa sede ad elencare due risposte. 
Innanzitutto perché, tra le altre cose, il naturalista di Shrewsbury (la sua città natale) era consapevole del processo cognitivo per cui tendiamo a minimizzare le prove e le evidenze che emergono come incongruità rispetto alle nostre aspettative, al pattern dominante, o anche alla visione del mondo condivisa e accettata (magari supinamente), tanto da annotare nella sua Autobiografia l'abitudine di segnare tutti i casi e gli elementi che sembravano contraddire le sue idee. Per questo motivo Darwin ha atteso due decenni raccogliendo materiale scientifico: per testare, verificare, costruire e sostanziare la sua idea.
In secondo luogo con Darwin, alla fine dell'epoca delle esplorazioni geografiche, le colonne d'Ercole della conoscenza venivano spostate più lontano di quanto si potesse mai immaginare: la storia dell'uomo, del pianeta e, più tardi, quella del cosmo si spalancavano così di fronte alla ricerca come nuove terre incognitae da esplorare, ma infinitamente più vaste di quanto il pensiero storico precedente abbia mai potuto immaginare. Le centinaia di milioni di anni della geologia (una misura presto corretta in miliardi) e gli anni luce del lookback time (ossia la distanza tra un punto di osservazione della volta celeste sulla Terra e il tempo che i fotoni emessi da una fonte luminosa nello spazio hanno impiegato a giungere alla nostra retina) si apprestavano a diventare la nuova frontiera del tempo profondo [13].
In tale modo, la storia naturale è uscita definitivamente dalle speculazioni naturalistiche tipiche dell'atteggiamento hobbistico e amatoriale tanto diffuso fino ad allora e dall'aderenza all'auctoritas dei testi antichi, sfociando in un rinnovato modo di procedere e in una nuova e straordinaria avventura scientifica.

[1] Ian McEwan, L'originalità della specie, in «Le Scienze. Edizione italiana di Scientific American», 527, luglio 2012, pp. 40-46 (art. pubbl. orig. come The Originality of the Species, presente on line sul sito del quotidiano The Guardian, 23 marzo 2012).
[2] Ernst Mayr, Un lungo ragionamento. Genesi e sviluppo del pensiero darwiniano, Bollati Boringhieri, Torino 1994, pp. 48-60 (ed. or. One Long Argument: Charles Darwin and the Genesis of Modern Evolutionary Thought, Harvard University Press, Cambridge 1991).
[3Kevin Padian, Ten Myths about Charles Darwin, in «BioScience», 59, 9, 2009, pp. 800-804; p. 803.
[4] Ibid.
[5] Telmo Pievani, Introduzione a Darwin, Roma-Bari, Laterza 2012, p. 68.
[6] E. Mayr, Un lungo ragionamento, cit., passim. Cfr. K. Padian, Ten Myths..., cit., p. 803: a differenza della discendenza comune (comunque declinata in modo diverso a seconda dei punti di vista), all'inizio il meccanismo della selezione naturale fu spesso osteggiato.
[7] Niles Eldredge, Darwin. Alla scoperta dell'albero della vita, Codice edizioni, Torino 2006, p. 59 (ed. or. Darwin: Discovering the Tree of Life, W.W.  Norton & Co., New York 2005); I. Bernard Cohen, Revolution in Science, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge-London 2001, pp. 286-287 (prima ed. 1985).
[8] Adrian Desmond e James Moore, Vita di Charles Darwin, Bollati Boringhieri, Torino 2009, cap. 33, pp. 557-571 (ed. or. Darwin, Michael Joseph, London 1991; Penguin Books, London 2009). Su Wallace cfr. ibid., in part. pp. 539-540.
[9] Cfr. su questo tema Susan Oyama, Il cordato accidentale: la contingenza nei sistemi di sviluppo, in ead., L'occhio dell'evoluzione. Una visione sistematica della divisione fra biologia e cultura, ed. it. a cura di T. Pievani, Fioriti, Roma 2004, pp. 116-128 [ed. or. Evolution's Eye: A Systems View of the Biology-Culture Divide, Duke University Press, Durham 2000; art. pubbl. or. come The Accidental Chordate: Contingency in Developmental Systems, in «South Atlantic Quarterly», 94, 2, 1995, pp. 509-526; ripubbl. in Barbara Herrnstein Smith e Arkady Plotnitsky (eds.), Mathematics, Science, and Postclassical Theory, Duke University Press, Durham 1997, pp. 118-133].
[10Michael Shermer, The Believing Brain: From Spiritual Faiths to Political Convinctions. How We Construct Beliefs and Reinforce Them as Truths, Robinson, London 2012, pp. 307-308 (ed. or. The Believing Brain: From Ghosts and Gods to Politics and Conspiracies. How We Construct Beliefs and Reinforce Them as Truths, Times Books-Henry Holt, New York 2011).
[11A.C.D. Crommelin, Are the Spiral Nebulae External Galaxies?, in «Journal of the Royal Astronomical Society of Canada», 12, 1918, p. 46; cit. da M. Shermer, The Believing Brain, cit., p. 371.
[12] Ibid., p. 400. La cit. di Sulloway proviene da F.J. Sulloway, Born to Rebel: Birth Order, Family Dynamics, and Creative Lives, Pantheon Books, New York 1996, p. 336 (ed. it. Ribelli nati. Ordine di nascita, dinamiche di famiglia e vite creative, Fratelli maggiori, fratelli minori. Come la competizione tra fratelli determina la personalità, Mondadori, Milano 1998).
[13] Cfr. M. Shermer, The Believing Brain, cit., pp. 359-360 e, in generale, i capp. 13 e 14.

Articolo indicizzato su Research Blogging tramite: Kevin Padian (2009). Ten Myths about Charles Darwin. BioScience, 59 (9), 800-804 DOI: 10.1525/bio.2009.59.9.10

giovedì 5 luglio 2012

Epilogo: scienza è democrazia

Terza cultura italiana: storia di un incontro mancato. Parte V

Come ha scritto in un saggio recente Gilberto Corbellini, «la manipolazione e la censura della scienza» diventano parte integrante e concause (quando non fattori principali) del «processo di declino civile ed economico» dei paesi occidentali (Corbellini ha indagato il caso italiano), e che «in generale, quando qualche sistema di interessi e potere aspira a limitare le libertà individuali all'interno di un sistema liberale, esso interviene sulla scienza, e cerca di controllarne le informazioni e conoscenze che possono scaturire dalla libera ricerca» [1]. Questo ha luogo anche manipolando in chiave ideologica lo stesso processo scientifico, con risultati inefficaci per la ricerca e con ricadute infauste o terribili sulla società e sulla popolazione; si pensi al caso Lysenko in Russia o agli esperimenti scientifici condotti sotto il nazismo o anche, mutatis mutandis e su un piano differente, alle farneticazioni deliranti e offensive di R. De Mattei, l'ex vicepresidente del CNR, che non troppo tempo fa ha utilizzato fondi pubblici per finanziare un convegno creazionista e la pubblicazione dei relativi atti.
L'unico modo per permettere una maggiore condivisione della scienza, dei suoi risultati e dei suoi indirizzi di indagine e approfondimento, i cui risultati restano controintuitivi rispetto alla cognizione generale di tutti i giorni e difficili da comprendere ad un occhio scarsamente allenato, è lo stesso su cui prima C.P. Snow e poi il grande Carl Sagan (1934-1996; Cornell University) hanno insistito - e con loro tanti altri esponenti della ricerca e della divulgazione: un maggiore investimento nell'educazione scientifica dei cittadini, un ripensamento generale delle conoscenze al fine di permettere un'ampia diffusione degli strumenti di comprensione e una riorganizzazione delle materie impartite nelle scuole dell'obbligo (a quando un'ora di Biologia evoluzionistica e Paleontologia nelle scuole medie, sia inferiori che superiori?). Cittadini maggiormente preparati su questioni scientifiche potranno prendere parte attiva nei dibattiti culturali ed esprimere un voto informato (e non manipolato dalla longa manus di interessi politici, ideologici, teologici, corporativi, finanziari e industriali) in occasione di grandi impegni democratici, come può esserlo ad esempio un referendum su una qualsiasi pressante questione medica, ambientale o energetica.
Mi piacerebbe concludere questo excursus con una citazione esemplare da Il mondo infestato dai demoni di Sagan, opera che ritengo essere uno dei capolavori della divulgazione scientifica recente: «i valori della scienza e della democrazia concordano, anzi in molti casi sono indistinguibili [...]. La scienza conferisce potere a chiunque si dia la pena di impararla (anche se a troppi è stato sistematicamente impedito di farlo). Essa prospera sul libero scambio di idee, che ne è anzi una condizione indispensabile; i suoi valori sono antitetici al segreto. Essa non ha alcun punto di vista speciale o alcuna posizione privilegiata. Tanto la scienza quanto la democrazia incoraggiano opinioni non convenzionali e discussioni vigorose. Entrambe richiedono ragioni adeguate, argomentazioni coerenti, criteri rigorosi di prova nonché onestà. La scienza è un modo per denunciare i bluff di coloro che avanzano pretese infondate di sapere, contro la religione applicata a sproposito. Se siamo fedeli ai suoi valori, può aiutarci a smascherare la menzogna. Essa ci fornisce la possibilità di correggere i nostri errori cammin facendo. [...] Ma la democrazia può anche essere sovvertita per mezzo dei prodotti della scienza più di quanto abbia mai sognato alcun demagogo preindustriale» [2]. Per quanto riguarda quest'ultimo punto, la decostruzione, quasi come il falsificazionismo e la "società aperta" popperiana (per quanto la decostruzione operi soprattutto sul piano delle filosofiche convinzioni personali), rappresenta non solo un sano esercizio di smascheramento storiografico, ma anche un potente strumento di difesa contro chi tenta di imporre punti di vista non sostenuti da prove sufficientemente valide.

[1] Gilberto Corbellini, Scienza, quindi democrazia, Einaudi, Torino 2011, p. 155.
[2] Carl Sagan, Il mondo infestato dai demoni. La scienza e il nuovo oscurantismo, Baldini & Castoldi, Milano 1997, pp. 79-80 (ed. or. The Demon-Haunted World. Science as a Candle in the Dark, Random House/Ballantine Books, New York 1995/1997).

venerdì 30 marzo 2012

La sfida di Derrida: indecostruibilità, democrazia e scienza

Terza cultura italiana: storia di un incontro mancato. Parte IV
[Jacques Derrida; ritratto di PabloSecca - Wikipedia]
Uno dei pregiudizi più perniciosi in ambito filosofico (soprattutto nel campo della filosofia della scienza) è quello che grava sul decostruzionismo di Jacques Derrida (nato Jackie; 1930-2004). Come abbiamo visto per l'equivoco che confonde "evoluzione" con "progresso", persistente in modo implicito nella storia delle discipline umanistiche (e in modo esplicito in quelle teologiche) e nella storia della scienza, anche qui sussiste una sorta di malinteso generale, che vale la pena di porre in evidenza per constatare quanto la sua tenace (r)esistenza sia controproducente e dannosa per una migliore comprensione degli strumenti concettuali filosofici.
Sgombriamo subito il campo dai fraintendimenti: molti studi postmoderni hanno promosso e diffuso colpevolmente una deplorevole diffidenza nei confronti della scienza tout court. Il loro modello di riferimento? Eccolo: se le interpretazioni sono tutto ciò che si dire della realtà, allora la scienza è un'interpretazione. In quanto tale essa, nelle varie discipline che la compongono, si può demolire, rivelando così gli impliciti schemi composti da pregiudizi ideologici, sociali, androcentrici o quant'altro che la sostengono [1]. Questo tipo di pensiero è stato applicato indiscriminatamente e in modo assurdo, fino a giungere a considerare la teoria della relatività come sessualmente connotata in senso maschilista [2]. Tali eccessi però c'entrano ben poco con colui che è ritenuto il padre fondatore del filone decostruzionista/postmoderno, ossia Derrida. Non si può in effetti giudicare uno strumento dall'uso (improprio) che se ne può fare.
Innanzitutto, la decostruzione derridiana non equivale affatto ad un relativistico smantellamento concettuale [3]. Il decostruzionismo, nelle intenzioni originarie di Derrida, contemplava il «tentativo di esplicitare le contrapposizioni del discorso filosofico, mettendo in luce le rimozioni su cui si istituiscono, i giudizi di valore che incorporano spesso inavvertitamente o almeno implicitamente, e dunque, di rivelare la struttura totale della nostra razionalità» [4]. L'accento è sul "discorso filosofico", non  certo sull'uso del decostruzionismo come arma da rivolgere contro la ricerca scientifica.
La fase seguente è uno smontare quasi industriale dei vari pezzi che compongono le interpretazioni ideologiche e che le strutturano, per comprendere come funziona il meccanismo che anima quel particolare concetto. Per fare ciò si segue un modello, una progettazione alla rovescia (tema comune anche alle scienze cognitive) che a sua volta dovrebbe soprattutto mostrare «connessioni [e rivelare] cornici» [5]. In tal modo sarebbe possibile mantenere visibile la filigrana, per così dire, del quadro concettuale e rileggere il concetto specifico in esame, e la sua formazione, in modo psicoanalitico lato sensu: «se le strutture sono forme di rimozione, si rivelano attraverso delle resistenze, proprio come il profilo di una società e di una forma di vita si delinea nei tabù che la contraddistinguono» [6].
Ad ogni modo, esiste un punto in particolare sul quale vale la pena di insistere. Per Derrida esiste una sorta di limite di fronte al quale non si può procedere e tale è il concetto di «democrazia» («non c’è democrazia senza decostruzione, non c’è decostruzione senza democrazia» e, ancora, «La democrazia è l’autos dell’auto-limitazione decostruttiva») [7] o, nell’interpretazione di Maurizio Ferraris, il concetto di “giustizia”, ossia «l’indecostruibile […] di fronte alla realtà e al suo valore» [8]. Ferraris si distingue inoltre dall'esegesi postmoderna generale (secondo la quale il testo e le sue interpretazioni sono tutto ciò che si possa dire della realtà) per aver inserito nell'interpretazione del pensiero derridiano il concetto di inemendabilità riguardo all'esistenza fisica dei documenti: «inemendabile» è un concetto che Ferraris impiega per definire che «la cosa [la documentazione, a qualunque tipologia essa appartenga. NdA] non può essere corretta così come possiamo correggere le nostre credenze e i nostri saperi» [9]. Torneremo più avanti sull'importanza di questo concetto.
Ora, il concetto derridiano di democrazia interseca quello di scienza intesa come continua ricerca: entrambi  i temi rappresenterebbero «la condizione indecostruibile di ogni decostruzione, certo, ma una condizione a sua volta in decostruzione» [10]. Il filosofo francese parla di un vero e proprio impegno preso nei confronti della ragione o della democrazia, ossia «la critica, [la] messa in questione […] della sovranità (in quanto posizione performativa o potere) in nome della sua stessa condizione di possibilità (l’apertura all’evento, all’altro, ecc.)» [11], perché, nelle medesime parole di Derrida, «questa è l’unica possibilità per pensare, razionalmente una cosa come un avvenire e un divenire della ragione. È anche, non dimentichiamolo, ciò che dovrebbe liberare tanto il pensiero quanto la ricerca scientifica dal controllo e dal condizionamento da parte di vari poteri o istituzioni politici, militari, tecnoeconomici, capitalistici» [12]. E, aggiungeremmo, te(le)ologici.
Poiché il “presente” dello stato della democrazia, di ogni democrazia, rappresenta una conquista graduale e non assoluto dato una volta per tutte, così come non lo è neppure la scienza [13], Derrida considera la democrazia, e perciò per traslato, diremmo noi, la scienza, come «a venire», come agente in costante formazione. Insomma, la frantumazione di una sola ottica generale in nuove prospettive non può che essere salutare poiché, come nella ricerca scientifica, crea punti di vista relativi che fondano un nuovo punto di partenza per la ricerca: se la ricerca, come la democrazia, «venisse sostituita da una verità assoluta non avrebbe più ragion d’essere» [14]. Da questo punto di vista non possiamo che sottoscrivere l’affermazione per cui la «decostruzione [è] immediatamente costruzione di qualcosa di diverso» [15].
Ora, tirando le somme del discorso, cosa c'entra tutto questo discorso filosofico con la storia dell'evoluzionismo?
  1. Il decostruzionismo è uno strumento che può aiutare a porre sotto esame critico le presunte rivendicazioni metafisiche di determinate correnti filosofiche che agiscono anche nella ricerca scientifica, rivelando le reali ed implicite aspirazioni sociali o politiche; nel caso creazionista, può permettere la messa a nudo di un filtro religiosamente (o teleologicamente) connotato nell'interpretazione dei materiali scientifici - i quali invece sono eticamente neutri (si dovrebbe notare che la traduzione politica di uno schema creazionista può avere conseguenze sociali e ricadute sull'intera comunità: si pensi per ipotesi ai fondi stanziati per certi filoni della ricerca scientifica da un governo mosso da convinzioni creazioniste);
  2. l'accento posto sulla vigilanza derridiana di fronte alle manipolazioni teleologiche riecheggia anche in un simile appello di Stephen Jay Gould. Questi aveva auspicato una maggiore attenzione da parte della comunità scientifica nei confronti dei rischi connessi ad un uso distorto, estremistico e socio-politico di determinati concetti evoluzionistici. Di fronte al rischio sempre presente di appropriazioni ideologiche dei modelli scientifici, «la miglior difesa che uno scienziato possa opporre», ha ricordato Gould, «[…] risiede in una combinazione che sembra associare due caratteristiche eterogenee, ossia vigilanza e umiltà: vigilanza per combattere la minaccia di un uso improprio [dei concetti scientifici. NdA]; umiltà nel riconoscere che la scienza non può, in linea di principio, trovare le risposte alle questioni morali» [16]. [Edit] Ad ogni modo Gould, che scriveva in un periodo ancora non dominato dall’esplosione a livello mondiale del creazionismo e dell’Intelligent Design, credeva in una coesistenza rispettosa dei due magisteri separati della scienza e della religione. Alla luce della situazione contemporanea, forse potremmo oggi intendere l’appello all’umiltà escludendo che la scienza non possa fondare una morale (l’aumento delle conoscenze scientifiche permette di regolare in modo normativo il comportamento etico-sociale), e prendendo atto del fatto che, purtroppo, le manipolazioni sociali e politiche, le distorsioni mediatiche e le giustificazioni ed interpretazioni extra-epistemiche presenti nel campo della ricerca scientifica ed accademica in generale rendono il passaggio tra scienza e etica né automatico né palese [End Edit];
  3. l'enfasi sull'inemendabilità del documento è capitale nell'analisi dell'importanza della paleontologia all'interno del paradigma storico. I fossili sono un documento inemendabile della catena contingente di eventi evolutivi che ha segnato la storia della vita sulla Terra;
  4. Il decostruzionismo può essere utile anche in tutte le analisi critiche delle storiografie appartenenti al secolo appena trascorso e non solo (umanistiche e, soprattutto, scientifiche), cooperando per smascherare le narrazioni teleologiche e finalistiche spesso in voga in svariati ambiti disciplinari. Si pensi solamente all’idea di un progresso continuo verso l’uomo, e in particolare verso una determinata conformazione culturale euro-occidentale, in quanto «espressione confortevole dell’inevitabilità e superiorità umana» [17].
[Edit] L'associazione tra ricerca scientifica e tecnologia viene spesso data per scontata ma, a ben guardare, non appare fondata su valide giustificazioni. Come ha ricordato Telmo Pievani durante una recente lectio magistralis presso l'Aula Magna del Rettorato dell'Università di Torino, se pensiamo alla ricerca e alla produzione tecnologica cinese e alla situazione politica e sociale locale, viene naturale pensare che la "scienza" (qui intesa sovrapposta in toto all'etichetta "tecnologia") non equivalga a nessun concetto di democrazia proveniente dalla filosofia politica. Il problema risiede solamente nell'intrusione semantica di "tecnologia" all'interno del concetto di "ricerca scientifica", che sono e restano invece due ambiti differenti. Difatti, la ricerca scientifica e la tecnologia sono state dissociate sulla base di presupposti cognitivi, e presentando una serie di dati convincenti, da Robert N. McCauley nel suo recente volume intitolato Why Religion Is Natural and Science Is Not, (Oxford University Press, Oxford-New York 2011). Ai fini del nostro intervento, ci preme dunque sottolineare i punti in comune tra i modelli ideali di scienza e democrazia, sui quali torneremo nel prossimo (e ultimo) contributo della serie [End Edit].
L'equazione derridiana tra scienza e democrazia è non solo accettata (in modo implicito) ma vivificata dalla stessa attività di ricerca scientifica. Chi crede che l'attuale conoscenza evoluzionistica sia "solo" una teoria, che questa debba essere assolutamente rifondata sulla teologia naturale, sull'Intelligent Design o quant'altro, che la società sia piagata dall'assenza di senso trascendente a causa del darwinismo e dei suoi mali, si pone esplicitamente al di là di un discorso basato sui principi di verificabilità delle asserzioni, rifiutando per fede di fornire l'onere delle prove positive.
Si può fare scienza e ricerca anche senza condividere in toto determinati assunti per motivi di fede o di credenze personali; la scienza non richiede di aderire ad alcun dogma o credo, sia esso religioso o laico. Ciò che non si può fare è mettere in discussione gli ultimi secoli di ricerca scientifica, né imporre un filtro dogmatico o teologico alla ricerca. Ben vengano i contributi radicali e radicalmente critici, il dissenso costruttivo, il dubbio che contribuisce a chiarire. Sono tutti valori che una robusta democrazia dovrebbe incoraggiare, ma sia nella politica (almeno idealmente) sia nella ricerca scientifica queste proposte devono sempre presentare un contesto e le prove delle affermazioni che si vogliono sostenere. Se non pensate di poter porre fiducia nell'evoluzione (che certamente non necessita della vostra fiducia perché è un dato di fatto), allora potreste smettere tranquillamente di utilizzare gli antibiotici [18].

continua...

[1] Cfr. ad es. Luigi Luca Cavalli Sforza, L’evoluzione della cultura, Codice edizioni, Torino 2010, p. 44 (1a ed. 2004).
[2] Per approfondire sugli eccessi antiscientifici che hanno caratterizzato certi studi postmoderni si rimanda ai seguenti testi: Alan Sokal e Jean Bricmont, Imposture intellettuali. Quale deve essere il rapporto tra filosofia e scienza?, Garzanti, Milano 1999 (ed. or. Impostures intellectuelles, Odile Jacob, Paris 1999 2a ed., 1997 1a ed.); A. Sokal, Beyond the Hoax: Science, Philosophy and Culture, Oxford University Press, Oxford-New York 20102 (2008 1a ed.). L'accusa rivolta alla teoria della relatività, secondo la quale la celebre equazione einsteiniana sarebbe sessualmente connotata, è espressa da Luce Irigaray in Parler n’est jamais neutre, Éditions de Minuit, Paris 1987, p. 110 (ed. it. Parlare non è mai neutro, Editori Riuniti, Roma 1991; cit. nel vol. di A. Sokal e J. Bricmont).
[3] Cfr. ad es. Giulio Giorello, Se ti spiegassi la scienza?, intervista di Marco Alloni, Aliberti editore, Roma 2011, p. 73. Nel vol. cit. emerge una posizione critica, un po' stereotipata, nei confronti di Derrida, secondo la quale «il relativismo sarebbe da considerare il nostro "punto d'arrivo"» (ivi; in nota il decostruzionismo derridiano viene anche indicato come un movimento filosofico «volto a mettere in evidenza l'assenza di una verità originaria»). In realtà, il giudizio dovrebbe piuttosto rivolgersi al vasto movimento postmoderno che esula, in una parte più o meno grande, dalle premesse derridiane.
[4] Maurizio Ferraris, Introduzione a Derrida, Laterza, Roma-Bari 2008 (3a ed.), p. 55 (1a ed. 2003). 
[5]  Ivi, p. 78. Per le scienze cognitive cfr. ad es. Paolo Legrenzi, Prima lezione di scienze cognitive, Laterza, Roma-Bari 2010 (2a ed. riveduta e ampliata; 2002 1a ed.).
[6] M. Ferraris, Introduzione a Derrida, cit., p. 56.
[7] J. Derrida, Politiche dell’amicizia, Raffaello Cortina, Milano 1995, risp. pp. 131 e 132 (ed. or. Politiques de l’amitié, Galilée, Paris, 1994).
[8] M. Ferraris, Spettri di Derrida, in id., Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a partire da Jacques Derrida, Bompiani, Milano 2010, pp. 15-42; p. 39.
[9] Id., Inemendabilità, ontologia, realtà sociale, in «Rivista di estetica», n.s., XLII, 19,1, 2002, pp. 160-199; p. 161.
[10] J. Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto, e la nuova Internazionale, Raffaello Cortina, Milano 1994, p. 40 (ed. or. Spectres de Marx. L’État de la dette, le travail du dueil et la nouvelle Internationale, Galilée, Paris 1993).
[11] M. Senatore, In nome dell’incondizionato o la congiura decostruttiva, in F. Vitale e M. Senatore, L’avvenire della decostruzione, Il melangolo, Genova 2010, pp. 125-146, p. 140.
[12] J. Derrida, Stati canaglia. Due saggi sulla ragione, Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 205; ripreso in M. Senatore, In nome dell’incondizionato…, cit., p. 142.
[13] Cfr. G. Giorello, Se ti spiegassi la scienza?, cit., pp. 76-77.
[14] Ivi, p. 73.
[15] M. Ferraris, Una recensione finta, in id., Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a partire da Jacques Derrida, Bompiani, Milano 2010, pp. 43-64; p. 60 (pubbl. or. come Jacques Derrida’s Writing and Difference, in «Topoi», 26, 2007, pp. 279-286).
[16] Sulla vigilanza derridiana cfr. J. Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1990, p. 42 (ed. or. L’écriture et la différance, Seuil, Paris 1967). Per la cit. di Gould cfr. Stephen J. Gould, The Most Unkidest Cut of All, in id., Dinosaur in a Haystack: Reflections in Natural History, Jonathan Cape, London 1996, pp. 309-319; p. 318 (pubbl. or. in «Natural History», 5, 1992, pp. 2-11).
[17] S.J. Gould, La vita meravigliosa. I fossili di Burgess e la natura della storia, Feltrinelli, Milano 2007, p. 22 (1990 1a ed.; ed. or. Wonderful Life: The Burgess Shale and the Nature of History, W.W. Norton & Co., New-York-London 1989). Un'interessante galleria illustrata e commentata riguardo il tema dell'antropocentrismo nelle sue varie manifestazioni paleontologiche si trova in Fabio Manucci,  Antropocentrismo e paleoillustrazione, 12 ottobre 2011, disponibile presso http://agathaumas.blogspot.it/2011/10/antropocentrismo-e-paleoillustrazione.html; un commento di Andrea Cau sul mammalocentrismo è reperibile al seguente linkhttp://ultrazionale.blogspot.it/2008/11/invidia-della-mammella.html.
[18] Telmo Pievani, Cialtroneschi attacchi di “L’Avvenire” contro MicroMega e la scienza, 24 feb. 2012, reperibile on line presso http://www.pikaia.eu/EasyNe2/Notizie/Cialtroneschi_attacchi_di_%E2%80%9CL%E2%80%99Avvenire%E2%80%9D_contro_MicroMega_e_la_scienza.aspx

mercoledì 29 febbraio 2012

La storia naturale come modello "disumano"? L'attacco all'evoluzionismo

Meccanismo di un orologio cronografo di fine '800. L'analogia dell'orologiaio è un luogo comune, ereditato dalla teologia naturale, per descrivere l'esistenza di un progetto intelligente (ortogenetico e/o teleologico) dietro l'evoluzione. Immagine da «Nature», 22 Sep. 1887, p. 485; modificata da un file disponibile su Wikipedia.
Terza cultura italiana: storia di un incontro mancato. Parte III

La volta scorsa abbiamo detto dell'errore che nasce quando si evoca l'equazione tra "evoluzione e "progresso", mentre prima ancora ci eravamo soffermati sull'influenza negativa di Croce sulla cultura scientifica italiana del primo Novecento.
Al quadro aggiungiamo ora la generale (con)fusione tra le lodevoli posizioni antifasciste e antirazziali, condivise da Croce, e la subordinazione dello studio delle scienze naturali ad un indirizzo filosofico e/o teologico. Si tratta di un punto basilare, sfruttato negli ambienti creazionisti. Semplificando un complicato intreccio di temi storiografico-ideologici, l'argomento cardine viene articolato come segue. Poiché il concetto di evoluzione è ortogenetico e implicitamente razziale, dalla religione (in genere abramitica) viene escluso il razzismo perché tutti gli uomini sono uguali di fronte a Dio. Dal mondo corrotto del darwinismo proverrebbero invece le genealogie culturali dell'esecranda politica razzista novecentesca [1]. Si tratta di un argomento ridicolo, che decontestualizza totalmente l'avversario che si vuole delegittimare e lo confonde con il suo contrario in campo sociale (la lotta spenceriana del più forte più il panselezionismo haeckeliano).  A partire da queste false premesse è logico confondere il modello scientifico di Darwin con il male della discriminazione razziale o di chissà quali altri turpitudini. Senonché tali presunte genealogie nulla possiedono di darwiniano, passano semplicisticamente sotto silenzio il groviglio dei motivi ideologici e religiosi che hanno troppo spesso alimentato i genocidi, la cancellazione e la distruzione di quell'altro individuo portatore di una cultura differente, e rivelano solamente le discutibili agende politiche che le animano. Troppo spesso ci si dimentica che il rifiuto darwiniano dell’idea di un progresso assoluto e l’affermazione del ruolo dei processi stocastici (ossia casuali) rappresentarono una sfida nei confronti di un canone grosso modo omogeneo di filosofie teologiche e secolari che si rafforzavano a vicenda e che in alcuni casi erano antiche quanto l'intera tradizione culturale occidentale. Inoltre, come ha sostenuto Roger Griffin, è fondamentale «l’idea elementare che “la nascita del fascismo” non [possa] essere espressa esclusivamente nei termini di una storia delle idee [biologico-evoluzioniste. NdA]: i movimenti e gli eventi nascono dall’unione di forze ideologiche con condizioni strutturali o “materiali”» [2]. In fin dei conti, si tratta di un’operazione ideologica e riduzionista perché si limita a sovrapporre macchiettisticamente al darwinismo il concetto di progresso ortogeneticamente orientato al "meglio" (ossia, l'uomo) e a ridurre il vasto dibattito scientifico interno ad alcune correnti che, se corrisponde bene alla costruzione identitaria dell'altro da sé in quanto "nemico" (semplificandolo e delegittimandolo), non è sostenibile in sede storiografica e documentaria. Merita una menzione l’icastico giudizio di Telmo Pievani: «la letteratura trash che cerca, ai limiti della decenza, di infangare la teoria dell’evoluzione associandola alla più cupa chirurgia sperimentale nazista e alla più cupa alienazione umana […], cade in realtà nello stesso errore del darwinismo sociale che condanna: sovrapporre presunte implicazioni morali, sociali e politiche di una teoria scientifica alla sua validità nel merito» [3]. Un panorama esauriente della critica religiosa secondo la quale l’evoluzionismo porterebbe alle più grandi sciagure morali dell’umanità (dal darwinismo sociale all’eugenetica alle politiche razziali) è stato di recente offerto e - soprattutto - completamente smantellato da Steve Stewart-Williams [4]. In ultima istanza, come ha proposto R.A. Peters, le teologie creazioniste si inscriverebbero sotto l’etichetta di «teodicea naturale» perché, secondo l’autore, tutte le varie branche che compongono il vasto movimento cristiano tenterebbero di riscrivere la storia naturale allo scopo di assolvere Dio dall’accusa di aver creato un mondo carico di estinzioni naturali, dolore o morte [5]. I problemi sorgono quando, come nei vari creazionismi letterali o improntati all’Intelligent Design, si vogliono oltrepassare i limiti disciplinari di un ragionamento teologico, legittimo nell'ambito della fede personale, per monopolizzare e indirizzare in chiave politico-sociale l’intero discorso scientifico ed evoluzionistico.

Schema di un confronto/scontro

Vale veramente la pena di rispondere a chi non conosce l'ambito scientifico che critica? D'altra parte anche Croce sembrava fondere in un unicum un certo pensiero evoluzionistico ortogenetico in voga all'epoca con un'idea assoluta di progresso discriminante e in fin dei conti moralmente disumana. Di fatto, dalla constatazione dell'inefficacia euristica dell'ortogenesi come ipotesi scientificamente sostenibile consegue anche il venir meno di qualunque considerazione crociana (ammesso, e non concesso, che l'opinione del filosofo di Pescasseroli possa avere un qualche valore scientifico). Fatto ancora più notevole, gli attacchi più virulenti rivolti contro la biologia evoluzionistica provengono spesso da ferventi credenti (molti recenti testi divulgativi si sono già occupati di questi temi [6]). In una splendida lettera congiunta che S.J. Gould e Richard Dawkins avrebbero dovuto inviare alla New York Review of Books (ma redatta solo da Dawkins; Gould era già gravemente malato) viene affermato che riconoscere una sfida storiografica o scientifica nelle rivendicazioni creazioniste significa riconoscere implicitamente che l'interlocutore sia portatore di una tesi valida da dibattere: «questo darà agli spettatori inconsapevoli l'idea che vi siano in ballo argomenti su cui davvero vale la pena di discutere e che in un certo qual modo i contendenti giochino ad armi pari» [7]. Così non è; per questo bisognerebbe evitare di fornire pubblicità gratuita che agli occhi del lettore possa inconsapevolmente presentare il punto di vista creazionista, nelle sue varie denominazioni, come avallato in modo esplicito dall’establishment accademico e scientifico. Ovvero, come una prospettiva che propone modelli validi e alternativi alla visione normativa in voga nell’accademia. Detto ciò, deve invece continuare la discussione in sede storiografico-critica delle accuse morali, siano esse creazioniste o più generalmente ideologiche. Ignorare significa abbassare la guardia. Solamente pochissimi anni fa si è assistito al tentativo di eliminare l'insegnamento dell'evoluzione dai banchi di scuola per imposizione ministeriale [8]. Mai dare per scontate le proprie conquiste culturali.
Prima di abbandonare il campo è necessario perciò smontare le critiche a Darwin e metterne in luce il rimosso, ossia le componenti extra-metafisiche.

continua...

[1] Quest'ultimo punto è stato affrontato in numerosi contributi di Stephen Jay Gould; ci limitiamo a segnalare il magistrale The Most Unkidest Cut of All in Dinosaur in a Haystack, Harmony Books, New York 1995, pp. 309-319 (ed. it. Come un dinosauro nel pagliaio, Mondadori, Milano 1997 [Edit] La  traduzione italiana, pur annunciata all'epoca dall'editore, non ha mai visto la luce; cfr. Paolo Coccia e Marco Ferraguti, Bibliografia delle opere di S.J. Gould tradotte in italiano, 14 gennaio 2013, su Pikaia.eu. Il portale dell'evoluzione, p. 13 [End Edit]; nella più recente raccolta franc. Le coup le plus cruel in Antilopes, dodos et coquillages. Ultimes réflexions sur l'histoire naturelle, Éditions du Seuil, Paris 2008, pp. 411-427).
[2] R. Griffin, recensione di Haeckel’s Monism and the Birth of Fascist Ideology. By Daniel Gasman, in «English Historical Review», 116, 467, 2001, pp. 683-685; p. 685. Cit. in Matthew Day, A Spectre Haunts Evolution: Haeckel, Heidegger, and the All-Too-Human History of Biology, in «Perspectives in Biology and Medicine», 53, 2, Spring 2010, pp. 289-303; p. 298.
[3] T. Pievani, Creazione senza Dio, Einaudi, Torino 2008, p. 95.
[4] Steve Stewart-Williams, Il senso della vita senza Dio. Prendere Darwin sul serio, edizione italiana a cura di Maurizio Mori, Espress edizioni, Torino 2011, cap. 12, Ricostruire la morale, pp. 269-309 (ed. or. Darwin, God and the Meaning of Life: How Evolutionary Theory Undermines Everything You Thought You Knew, Cambridge University Press, Cambridge 2010).
[5] R.A. Peters, Theodicic Creationism: Its Membership and Motivations, in Martina Kölbl-Ebert (ed.), Geology and Religion: a History of Harmony and Hostility, The Geological Society, London 2009, pp. 317-328.
[6] Ad es., per restare in ambito italiano, Michele Luzzatto, Preghiera darwiniana, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009; in part. pp. 48-49. Si rimanda inoltre a Michael Ruse, Myth 23: That “Intelligent Design” Represents a Scientific Challenge to Evolution, in R.L. Numbers (ed.), Galileo Goes to Jail and Other Myths about Science and Religion, Harvard University Press, Cambridge-London 2009, pp. 206-214 e Ronald L. Numbers, The Creationists: From Scientific Creationism to Intelligent Design. Expanded Edition, Harvard University Press, Cambridge-London 2006 (1a ed. 1992), in part il cap. 17, Intelligent Design, pp. 373-398, e il cap. 18, Creationism Goes Global, pp. 399-431.
[7] R. Dawkins, Il cappellano del diavolo, Raffaello Cortina editore, Milano 2004, p. 298 (A Devil's Chaplain: Reflections on Hope, Lies, Science, and Love, Houghton Mifflin Harcourt, Boston 203). Il testo è stato richiamato di recente anche in Telmo Pievani, Perché non rispondiamo alle provocazioni, pubblicato su Pikaia.eu. Il portale dell'evoluzione, in data 28 dic. 2011.
[8] Cfr. T. Pievani, In difesa di Darwin, Bompiani, Milano 2007; id., Creazione senza Dio, Einaudi, Torino 2008.

sabato 4 febbraio 2012

Il grande equivoco: "evoluzione" non equivale a "progresso"

Terza cultura italiana: storia di un incontro mancato. 
Parte II [intermezzo sintetico]

Una variazione sul tema dello schema classico della direzionalità nell'evoluzione. Modificato da Human Evolution Scheme, reperibile su Wikipedia, opera di  M. Garde su un disegno di J.-M- Benitos.
Uno degli impieghi ordinari del vocabolo “evoluzione” nei secoli precedenti la rivoluzione darwiniana era la definizione di uno sviluppo ordinato, predeterminato. Da qui all'associazione con qualcosa di inevitabilmente progressivo e tendente alla maggiore complessità in senso assoluto il passo è stato storiograficamente breve. Il concetto ha una lunga e complessa storia, ma basti dire che quando Darwin pubblicò la prima edizione dell'Origine delle specie (1859), il concetto stesso del cambiamento evolutivo non era più così in voga nelle terre inglesi, soppiantato dalla notorietà della teologia naturale adattamentista di William Paley (1743-1805). Mentre la “trasmutazione” (così era nota in precedenza l'idea dell'evoluzione biologica) era stata à la page nel corso del '700 e in varie accezioni filosofiche, soprattutto nella Francia di Lamarck e dei tanti epigoni che si dedicarono al tema, nell'Inghilterrra del primo Ottocento l'attenzione nei confronti dell'argomento era scemata anche a causa dell'atmosfera controrivoluzionaria ispirata della rivalità politica anglo-francese [1]. In effetti, nella prima edizione del libro di Darwin il termine non compare (è utilizzato invece in quella del 1872). L'atmosfera e l'indirizzo della cultura generale dell'epoca è responsabile di questo pensiero che Darwin affidò ad una lettera datata Down, 11 gennaio 1844, e indirizzata al suo amico e corrispondente Joseph Dalton Hooker: «Alla fine, si è acceso un barlume di luce, e io sono quasi convinto (un’opinione opposta a quella che nutrivo all’inizio) che le specie non siano (è come confessare un omicidio) immutabili. Il cielo mi scampi e liberi dalle insensatezze di Lamarck di una  “tendenza al progresso”, di “adattamenti derivanti dalla lenta volontà degli animali”, eccetera – ma le conclusioni a cui sono indotto non sono molto diverse dalle sue – sebbene i mezzi del cambiamento lo siano completamente – io penso di aver scoperto (ecco la presunzione!) il semplice modo mediante il quale le specie si adattano mirabilmente a vari fini» [2]. Esporsi pubblicamente nello stesso ambiente culturale inglese che aveva accolto in modo feroce le Vestiges of the Natural History of Creation del 1844, il cui autore Robert Chambers (prudentemente celato sotto anonimato) era stato sovente tacciato di ateismo, significava per Darwin quasi confessare un delitto.
In secondo luogo, l'influenza del cosiddetto “darwinismo sociale” di Spencer nella seconda metà del secolo confuse maggiormente il panorama filosofico della biologia evoluzionistica. Per farla breve: in campo biologico, “evoluzione” è un concetto che non deve essere mai considerato equivalente o confuso con “progresso”. «Il darwinismo non solo non incentiva ma impedisce di porre le questioni evoluzionistiche in termini di arretratezza/progresso. […] L’evoluzione è adattamento (gli adattamenti più disparati), e se tutte le specie sono egualmente bene adattate alle loro condizioni di esistenza, nessuna però lo è perfettamente. Per cui […] nessuna specie può essere assunta come “migliore” di un’altra» [3]. Purtroppo nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, la tendenza culturale era quella di identificare il progresso biologico assoluto con l'“evoluzione” tout court. Perciò l’opera spartiacque di Charles Robert Darwin fu spesso assimilata, e ancor più spesso stravolta, secondo le deformanti griglie concettuali della cultura generale dell’epoca: «per ironia della sorte […] il padre della teoria dell’evoluzione rimase praticamente l’unico a insistere che il cambiamento organico conduce solo a un crescente adattamento degli organismi all’ambiente e non a un astratto ideale di progresso caratterizzato dalla complessità strutturale o da una crescente eterogeneità: mai dire superiore o inferiore» [4]. Lo stesso schema tipico dell'evoluzione umana, diretto in modo finalistico verso Homo sapiens come traguardo ultimo della storia biologica del pianeta, è stato smantellato negli ultimi tempi dall'aumento delle conoscenze paleoantropologiche: non una sfilata unidirezionale di forme sempre più progredite indirizzate verso l'uomo attuale, ma una pletora di forme che hanno convissuto fino a una cinquantina di migliaia di anni fa, una ramificazione a cespuglio piuttosto che un albero, della quale noi oggi siamo gli ultimi testimoni rimasti [5]. Riguardo poi alla purtroppo ben nota espressione della "sopravvivenza del più adatto", occorre segnalare che il senso e la paternità dell’espressione non sono darwiniane (Darwin «non si stancò mai di allontanare risolutamente la sua teoria da qualsiasi implicazione sociale e politica»): «l’espressione “la sopravvivenza del più adatto” fu coniata da Herbert Spencer (1820-1903) negli anni Sessanta dell’Ottocento e fu adottata prima da [Alfred Russel] Wallace [naturalista ed esploratore inglese (1823-1913), sviluppò una teoria evolutiva della selezione naturale indipendentemente da Darwin. NdA.] e poi, con qualche ritrosia, da Darwin nella sesta edizione dell’Origine delle specie (1872)» [6].

continua...

[1] Cfr. James A. Secord, Darwin globale, in J.A. Secord, Sean B. Carroll, Steve Jones, Paul Seabright e John Dupré, Darwin. L'eredità del primo scienziato globale, Zanichelli, Bologna 2011, pp. 11-48 [ed. ridotta dell'or. W. Brown e A.C. Fabian (eds.), Darwin (The Darwin College Lectures), Cambridge University Press, Cambridge 2010].
[2] Charles Robert Darwin, L'origine delle specie. Abbozzo del 1842. Lettere 1844-1858. Comunicazione del 1858. A cura di Telmo Pievani, Einaudi, Torino, 2009, pp. 69-71 [link al testo].
[3] Giulio Barsanti, L’uomo e gli uomini: lettura storica, in Giacomo Giacobini (a cura di), Darwin e l’evoluzione dell’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 2010, pp. 19-27, p. 25.
[4] S.J. Gould, Il dilemma di Darwin: l’odissea dell’evoluzione, in id., Questa idea della vita. La sfida di Charles Darwin, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 28 (ed. or. Ever since Darwin. Reflections in Natural History, W.W. Norton & Co., New York 1977; art. pubbl. or. come Darwin’s Dilemma, in «Natural History» 83, 1974, pp. 16-22).
[5] Cfr. per una sintesi esaustiva, Telmo Pievani, Il non senso dell'evoluzione umana, in «MicroMega. Almanacco della scienza», 1, 2012, pp. 3-15 e id . e Luigi Luca Cavalli Sforza, Homo sapiens. La grande storia della diversità umana, Codice edizioni, Torino 2011.
[6] T. Pievani, Introduzione alla filosofia della biologia, Laterza, Roma-Bari 2010 (1a ed. 2005), p. 8.