Scheda bibliografica del volume Origini e diffusione della civiltà di P. Laviosa Zambotti (1947). Fonte: Biblioteca comunale Passerini-Landi. Piacenza - Fondo Comunale |
Ma che fine ha fatto Lakatos? Apologia pro blogo suo, tra spin-off e product placement
Quando le serie televisive hanno successo, capita che la rete televisiva decida di investire espandendo l’universo narrativo all’interno del quale si svolgono le interazioni tra i personaggi, dando vita a quelli che in gergo televisivo si chiamano spin-off. Queste serie parallele solitamente focalizzano l’attenzione su quei personaggi secondari che sembrano avere un potenziale inespresso ma che solitamente vengono relegati sullo sfondo della narrazione. Spesso lo spin-off è un mero pretesto per lucrare facendo leva sul richiamo della serie principale, ma talvolta capita che la serie nata da un ramo narrativo collaterale, maggiormente libera dai vincoli di costi, produzione e aspettative cui è sottoposta la serie principale, sia capace di ritagliarsi una nicchia interessante e di successo...
... beh, non è di quest’ultimo caso che ci occupiamo ora. Questo articolo è un vile e imperdonabile spin-off del post precedente dedicato a Lakatos e alla metodologia dei programmi di ricerca scientifici, scritto sfruttando un blando richiamo al falsificazionismo. Come nelle peggiori tradizioni della tv-spazzatura, il presente contributo ospita anche uno dei più beceri product placement della storia di questo blog, perché riprende una sezione del mio libro pubblicato un anno fa, aggiornandola e riadattandola all’uopo. Se volete sapere di più, accattatevillo (o date almeno un’occhiata su Google Books)! Se invece vi aspettavate la continuazione promessa, lamentatevi con chi si sintonizza su queste frequenze aumentando lo share della serie (siamo quasi a quota 105.000 visite, che per questo blog è davvero un successo insperato!), ma sappiate che, se resisterete fino alla fine del post, verrete ricompensati: alla fine tutto torna. Anche la filosofia della scienza.
Buona lettura!
Ars longa, vita brevis
Falsificare una tesi nel mondo umanistico è impresa ardua. Non tanto per il lavoro metodologico ed epistemologico spesso carente, antiquato o inadeguato che, ahimè, caratterizza molta storiografia più o meno recente, quanto perché nel marasma editoriale di interpretazioni storiografiche discordanti a volte le interpretazioni del passato non vengono nemmeno sottoposte a revisione dall’ambiente degli addetti ai lavori, ma continuano a galleggiare per inerzia, almeno fino a quando cambiano i paradigmi umanistici di riferimento, oppure vengono gelosamente custodite e tramandate dalle singole scuole di pensiero in competizione.
In effetti, uno degli sport umanistici preferiti è esclamare senza ritegno che l’interpretazione di X, vecchia di 95 anni, è antesignana di modelli ben più recenti e che tutti i ricercatori attuali son dei tromboni che l’han seppellita anzitempo nelle note a pie’ di pagina. Oppure che Y, in una notarella pubblicata 48 anni fa, aveva già visto più lontano degli sfaccendati studiosi dell’attuale area disciplinare, troppo pigri per capirne la portata innovativa o troppo impegnati nel seguire pedestremente le mode disciplinari attuali, tutte ovviamente fallaci. O ancora, che tutto il problema era già stato chiarito chiaro 165 anni fa, quando Z, blasonato precursore di discipline accademiche ancora di là da venire, stabilì i paletti in un’opera fondamentale stampata in una dozzina di copie.
Ecco, ora prendete questi schemi dello storytelling disciplinare, aggiungete un pizzico di revanscismo antiscientifico, un etto di gusto localistico e provinciale, una manciata di autocompiacimento nello scovare materiali polverosi e dimenticati. Moltiplicate poi questo quadretto per un numero congruo di pubblicazioni esemplificative e approssimato per difetto, nell’arco delle centinaia di migliaia a occhio e croce, e avrete un bell’esempio del marasma apocalittico e del rumore epistemico che può essere l’ecosistema delle ipotesi umanistiche da sottoporre adeguatamente a revisione.
Ars longa, vita brevis: riunioni, impegni, application, corsi, concorsi, ricorsi, peer review, pubblicazioni, vita quotidiana e tanti saluti alla disamina critica delle tonnellate di materiale accademico disponibile. Fare ricerca in modo scientifico significa svolgere una complessa operazione sociale, si diceva a suo tempo, i cui cardini fondamentali sono la revisione paritaria e la condivisione di saldi e chiari principi deontologici ed epistemologici. Per svariati motivi, alcuni dei quali certamente poco edificanti, non sempre è possibile passare al vaglio tutta la produzione in ogni campo accademico. Si fa quel che si può e molta produzione finisce nell’oblio senza che le ipotesi siano state giustamente testate o verificate.
Ars longa, vita brevis: riunioni, impegni, application, corsi, concorsi, ricorsi, peer review, pubblicazioni, vita quotidiana e tanti saluti alla disamina critica delle tonnellate di materiale accademico disponibile. Fare ricerca in modo scientifico significa svolgere una complessa operazione sociale, si diceva a suo tempo, i cui cardini fondamentali sono la revisione paritaria e la condivisione di saldi e chiari principi deontologici ed epistemologici. Per svariati motivi, alcuni dei quali certamente poco edificanti, non sempre è possibile passare al vaglio tutta la produzione in ogni campo accademico. Si fa quel che si può e molta produzione finisce nell’oblio senza che le ipotesi siano state giustamente testate o verificate.
Dato che è diritto di ogni studio accademico pubblicato avere un giusto processo, ogni tanto vale comunque la pena di riprendere l’opera di qualche studioso del passato per vedere un po’ lo stato della questione e fare un po’ di ordine tra gli innumerevoli fascicoli accademici. Anche solo per testare quanto abbiano ragione o meno i sedicenti scopritori contemporanei di antiche e prestigiose verità accademiche. Chiariamoci subito: molto spesso ci si trova davanti a lavori semplicemente imbarazzanti che gridano alla falsificazione. Ma a volte ci si imbatte in studi assolutamente notevoli per vastità di vedute, il cui riesame critico può portare giovamento all’intera disciplina storiografica (se solo prestasse attenzione a questo lavoro di verifica: un giudizio, per quanto sensato possa essere, non basta e resta una mera opinione). E quand’anche si dovesse poi ammettere che da salvare c’è ben poco o niente, la storia degli errori, se sostenuti comunque da prove sufficienti,
«è non meno rilevante, e certo non meno interessante da studiare, delle affermazioni e delle scoperte della verità» [1].
Presentismo, omologia e diffusionismo nel 1947
Copertina di Laviosa Zambotti, P. 1947. Origini e diffusione della civiltà. Milano: Marzorati. |
Non mi soffermerò qui né sui particolari biografici né sui lavori della studiosa trentina (per questo c’è il mio libro). Lascerei da parte anche le relazioni professionali, i paletti metodologici, le radici intellettuali, le scuole di riferimento e gli scambi epistolari con alcuni tra i maggiori studiosi dell’epoca nel medesimo ambito (anche per questo ci sarebbe il mio libro). Vorrei invece soffermarmi sulla sua pubblicazione più audace, quella che le diede forse maggiore notorietà all’estero, grazie all’affascinante ritratto dei tempi profondi della storia umana (anche per questo, comunque sia, ci sarebbe tutto un capitolo del mio libro!). L’opera, intitolata Origini e diffusione della civiltà, pone nel 1947 le fondamenta per i lavori successivi dell’archeologa, ed è considerato tuttora il coronamento della sua opera. È la stessa autrice ad introdurre il tema della ricerca:
«si tratta […] del primo tentativo inteso a dimostrare l’origine monogenica della civiltà agricola universale seguendo un metodo storico ben definito, che speriamo valga ad orientare sempre più gli studi paletnografici ed etnografici internazionali [“scienze destinate a divenire indispensabili integratrici l’una dell’altra”, aggiunge poco oltre] verso il suo perfezionamento» [2].
Abbiamo di fronte nientemeno che l’ambizioso tentativo di rintracciare l’origine unica e comune della civiltà agricola, poi diffusasi in tutto il globo da un unico centro di origine. Il quadro di riferimento è enorme, e parte dalla preistoria per collocare lo sviluppo della cultura umana tout court in una chiave spaziale e temporale evolutiva. In pratica, un esercizio di evoluzione culturale ante litteram (ah, vedete che casco anch’io nei clichés umanistici delle etichette facili!).
Secondo la studiosa, sarebbero esistiti quattro epicentri principali nel processo di acculturazione dell’umanità:
- il primo viene individuato nel Vicino Oriente dei “Neanderthaliani” palestinesi del Paleolitico medio;
- il secondo, originatosi direttamente dal primo, dovrebbe essere quello dei cacciatori franco-cantabrici del Paleolitico superiore;
- il terzo epicentro avrebbe segnato il decisivo passo in avanti nel progresso culturale come principale depositario e promotore di miti, leggende, invenzioni e tecniche, ed è rintracciato in quello degli agricoltori sedentari mediorientali dell’area mesopotamica, con i quali entriamo nella storia scritta;
- questi ultimi, dopo seimila anni di propagazione culturale e sviluppo ininterrotto, avrebbero passato il testimone all’ultimo centro, ossia la civiltà tecnica dell’Europa occidentale [3].
Sembra semplice, descritta così, ma le cartine che la studiosa acclude nel suo volume esemplificano la minuziosa quanto complessa ricostruzione spazio-temporale, in un susseguirsi di prestiti culturali e di “centri derivati”:
Il secondo argomento che contraddistingue la monografia è che alcune popolazioni umane siano costitutivamente destinate a rimanere bloccate nel loro stadio socio-culturale primigenio. Siamo all’interno di quel modello evolutivo teorico chiamato ortogenesi «coniato nel 1893 dallo zoologo tedesco Wilhelm Haacke, per significare […] che l’evoluzione è rettilinea e orientata» [4]. Non di rado, il modello ortogenetico prevedeva diverse velocità lungo l’asse temporale, e al progresso orientato si accompagnava la stasi (i celeberrimi “fossili viventi”) e il regresso devolutivo. Tutte e tre le istanze sono state falsificate dall’avanzamento delle conoscenze biologiche e paleontologiche.
Torniamo a Laviosa Zambotti. Ricapitolando i temi trattati nella monografia, otto anni dopo scrive quanto segue:
«fu un errore aver creduto che l’agricoltura razionale e le scoperte che ne sottolineano l’importanza (l’allevamento, la tessitura, la ceramica) abbiano potuto sorgere indipendentemente in più luoghi: sarebbe come asserire che il treno, l’automobile, l’aeroplano poterono scoprirsi al di fuori della sfera europea occidentale che è l’unica parte del mondo potenziata in senso tecnico (e dell’America da essa generata); così, è ovvio, la civiltà tecnica non avrebbe potuto nascere in Cina o al centro dell’Africa o in India e così via» [5].
Ora, in entrambi i temi, si può leggere in filigrana l’annoso problema tipico delle scienze storiche relativo alla distinzione tra analogia (sviluppo indipendente ma esito simile) e omologia (sviluppo simile dovuto a origine comune), che qui appare fortemente influenzato dai discorsi razziali ereditati dal primo Novecento.
Epistemologicamente e con il senno di poi, l’intera ricostruzione è un esempio di falso positivo: si individua un pattern tramite dati preistorici frammentari, si ritiene questi ultimi espressione di una realtà effettiva, e si re-immagina quest’ultima, colmando le lacune e unendo i puntini, interpretando il passato alla luce del presente, e ponendo in chiave teleologica l’Europa come apogeo della civiltà globale. Ignorando in modo abbastanza sciovinistico i vincoli geografici, la reale storia della tecnologia (quella cinese, ad esempio), e le contingenze storiografiche (temi studiati in modo ineccepibile da Jared Diamond). Su tutto ciò viene innesta un diffusionismo che annulla le innovazioni locali e subordina tout court la cultura umana a una storia di prestiti a partire da un unico, prestigioso centro di diffusione. Pur profondamente consapevole del fatto che cultura ed origine etnica non sono mai sovrapponibili, tanto da farne uno dei paletti fondativi dei suoi studi paletnologici (e per tutti i riferimenti vi rimando ancora al mio libro), Laviosa Zambotti cade insomma nella fallacia del presentismo, uno dei peccati capitali delle ricostruzioni storiografiche.
La pars destruens dell’articolo mi impone di notare puntigliosamente che la stessa idea di monogenesi culturale dell’agricoltura è stata falsificata da tempo. Difatti, è stata comprovata l’origine indipendente delle tecniche agricole (e dell’allevamento, che in Laviosa Zambotti rimane un po’ in ombra come mero corollario della tecnologia agricola) in nove principali centri geografici (probabilmente qualcuno di più) tra 11.000 e 3.000 anni fa circa [6].
Concludendo, Laviosa Zambotti aveva intravisto un’omologia in uno schema che però si è rivelato essere in gran parte analogico, perlopiù escludendo in modo drastico la potenziale coesistenza di diffusione dai centri principali e di successiva miscela lamarckiana, per così dire, delle conoscenze tecnologiche (soprattutto presso le zone di confine). A partire da questi schemi, aveva anche dato una chiara, quanto fallace, impronta determinista, Eurocentrica e teleologica al suo studio. Ad ogni modo, il fatto che le stesse conoscenze agricole si siano poi diffuse, unito all’osservazione che presso le zone di confine le conoscenze tecnologiche si sono comunque trasmesse e mescolate, dovrebbe contribuire a rendere almeno l’onore delle armi alla visione d’insieme della studiosa trentina.
Epistemologicamente e con il senno di poi, l’intera ricostruzione è un esempio di falso positivo: si individua un pattern tramite dati preistorici frammentari, si ritiene questi ultimi espressione di una realtà effettiva, e si re-immagina quest’ultima, colmando le lacune e unendo i puntini, interpretando il passato alla luce del presente, e ponendo in chiave teleologica l’Europa come apogeo della civiltà globale. Ignorando in modo abbastanza sciovinistico i vincoli geografici, la reale storia della tecnologia (quella cinese, ad esempio), e le contingenze storiografiche (temi studiati in modo ineccepibile da Jared Diamond). Su tutto ciò viene innesta un diffusionismo che annulla le innovazioni locali e subordina tout court la cultura umana a una storia di prestiti a partire da un unico, prestigioso centro di diffusione. Pur profondamente consapevole del fatto che cultura ed origine etnica non sono mai sovrapponibili, tanto da farne uno dei paletti fondativi dei suoi studi paletnologici (e per tutti i riferimenti vi rimando ancora al mio libro), Laviosa Zambotti cade insomma nella fallacia del presentismo, uno dei peccati capitali delle ricostruzioni storiografiche.
La pars destruens dell’articolo mi impone di notare puntigliosamente che la stessa idea di monogenesi culturale dell’agricoltura è stata falsificata da tempo. Difatti, è stata comprovata l’origine indipendente delle tecniche agricole (e dell’allevamento, che in Laviosa Zambotti rimane un po’ in ombra come mero corollario della tecnologia agricola) in nove principali centri geografici (probabilmente qualcuno di più) tra 11.000 e 3.000 anni fa circa [6].
Concludendo, Laviosa Zambotti aveva intravisto un’omologia in uno schema che però si è rivelato essere in gran parte analogico, perlopiù escludendo in modo drastico la potenziale coesistenza di diffusione dai centri principali e di successiva miscela lamarckiana, per così dire, delle conoscenze tecnologiche (soprattutto presso le zone di confine). A partire da questi schemi, aveva anche dato una chiara, quanto fallace, impronta determinista, Eurocentrica e teleologica al suo studio. Ad ogni modo, il fatto che le stesse conoscenze agricole si siano poi diffuse, unito all’osservazione che presso le zone di confine le conoscenze tecnologiche si sono comunque trasmesse e mescolate, dovrebbe contribuire a rendere almeno l’onore delle armi alla visione d’insieme della studiosa trentina.
Le principali zone dove si sono sviluppate in modo indipendente la tecnologia e le conoscenze agricole, segnate in verde (in ordine grosso modo cronologico: Mezzaluna Fertile; Yang-tze e Fiume Giallo; altipiani della Nuova Guinea; Messico centrale; America meridionale; Africa subshariana; America del Nord). Le frecce blu segnalano la diffusione delle stesse e le relazioni culturali tra di esse. Si confronti con la mappa precedente, dove la diffusione prendeva le mosse da un unico centro (quello mesopotamico sopra tutti). Fonte: Wikipedia. Dati da Diamond & Bellwood (2003; vedasi bibliografia più sotto). |
«Il più perfetto tra i mammiferi»: Homo sapiens tra ortogenesi e ideologia
Come avevo annunciato nel paragrafo precedente, il quadro concettuale dell’opera laviosana va molto a ritroso nel tempo, dimostrando una vastità di vedute interdisciplinari che ben pochi colleghi/e potevano vantare a quel tempo. Purtroppo, questo aspetto mostra anche i limiti forse più evidenti della ricostruzione avanzata dalla studiosa trentina.
Abbiamo visto che Laviosa Zambotti inserisce la storia della cultura umana all’interno degli schemi del tempo profondo, ma si tratta di schemi dove l’origine coincide sic et simpliciter con giudizi di valore (una trappola intellettuale della quale ho trattato qui). Per la studiosa, il «centro steppico dell’Asia» sarebbe «il più probabile focolare dell’antropogenesi» [7]. Era un’idea assai in voga all’epoca, condivisa ad esempio dal paleontologo Henry Fairfield Osborn (1857-1935) [8], l’influente direttore dell’American Museum of Natural History di New York le cui idee antropologiche erano intrise un’ideologia razzista contraria all’identificazione dei parenti filogenetici dell’uomo nelle antropomorfe africane.
Abbiamo visto che Laviosa Zambotti inserisce la storia della cultura umana all’interno degli schemi del tempo profondo, ma si tratta di schemi dove l’origine coincide sic et simpliciter con giudizi di valore (una trappola intellettuale della quale ho trattato qui). Per la studiosa, il «centro steppico dell’Asia» sarebbe «il più probabile focolare dell’antropogenesi» [7]. Era un’idea assai in voga all’epoca, condivisa ad esempio dal paleontologo Henry Fairfield Osborn (1857-1935) [8], l’influente direttore dell’American Museum of Natural History di New York le cui idee antropologiche erano intrise un’ideologia razzista contraria all’identificazione dei parenti filogenetici dell’uomo nelle antropomorfe africane.
Per Laviosa Zambotti l’antenato comune più recente di Homo è l’uomo di Neanderthal, che la studiosa descrive, secondo i cliché tardo-ottocenteschi, come un «individuo vigoroso, ma di mediocre altezza» [9], di «aspetto scimmiesco» e «particolarmente brutal[e]» [10] (ossia, primitivo) nelle caratteristiche del viso. A ritroso, nell’indagine laviosiana compaiono anche alcuni taxa un tempo cruciali, ma che oggi non hanno resistito ai progressi scientifici. Tra questi spicca, per l’importante ruolo di àncora filogenetica dello schema laviosiano, la frode del cosiddetto Uomo di Piltdown (noto con il binomiale linneano Eoanthropus dawsoni), che la studiosa include in buona fede, nonostante i primi dubbi sulla genuinità del reperto fossero già stati espressi agli inizi degli anni Quaranta. [11]. Eccolo quindi comparire con la sua associazione bizzarra tra «mandibola scimmiesca» e «calotta umana […] di gerarchia progredita» (difatti la mandibola apparteneva ad un orango e il cranio era quello di un uomo), e il Sinantropo o uomo di Pechino, attualmente considerato H. erectus, «stirpe possente, d’aspetto […] bestioide» [12]. Laviosa Zambotti chiude la serie fino ad allora nota di ominidi fossili con il Pitecantropo asiatico (taxon poi confluito anch’esso in H. erectus), definito l’ultimo dei «protoantropi», e pone l’uomo di Neanderthal sotto l’etichetta dei «paleoantropi» all’inizio della graduale conquista culturale (e religiosa) del mondo da parte del genere Homo [13].
Se il centro del continente asiatico è la culla dei blasonati progenitori culturali ed evolutivi, oggigiorno, scrive la studiosa, sarebbero l’Australia e l’Asia del Sud-Est ad aver conservato la cultura del Paleolitico superiore e del Mesolitico. Ipotizza persino che nel Paleolitico medio la zona di diffusione neanderthaliana si estendesse in tutta l’area dell’Asia meridionale dal Mediterraneo all’Indonesia [14]. Per Laviosa Zambotti l’Australia, in particolare,
Se il centro del continente asiatico è la culla dei blasonati progenitori culturali ed evolutivi, oggigiorno, scrive la studiosa, sarebbero l’Australia e l’Asia del Sud-Est ad aver conservato la cultura del Paleolitico superiore e del Mesolitico. Ipotizza persino che nel Paleolitico medio la zona di diffusione neanderthaliana si estendesse in tutta l’area dell’Asia meridionale dal Mediterraneo all’Indonesia [14]. Per Laviosa Zambotti l’Australia, in particolare,
«è il continente periferico meglio di ogni altro idoneo a ricevere e serbare il patrimonio della comune civiltà in uno stadio primordiale […] perché le arcaicissime culture situate nell’Asia sud-orientale vi si rifugiano abbastanza per tempo, grazie alla pressione di culture più giovani che si venivano ivi insediando» [15].
Il giudizio di valore e la scala naturæ sono qui palesi. Si tratta di posizioni razziali assai comuni all’epoca: i giudizi di valore tarati su un’ottica occidentale venivano spesso dati per scontati (come nel caso già esaminato dei «fossili viventi»), e le popolazioni considerate ai margini classificate come primitivi rimasugli di un’umanità preistorica. Tanto per renderci conto: un ipotetico albero della filogenesi umana di Osborn, risalente al 1926, ritraeva gli odierni Nativi australiani come ben distanti dall’uomo “occidentale”, graficamente rappresentati con una capacità cranica fittiziamente ridotta [16]. Nonostante si sapesse già dall’inizio del Novecento della fallace comparazione scientifica tra esseri umani preistorici estinti e determinate popolazioni moderne.
Le ideologie, purtroppo, sono sempre state più forti della ragione e delle prove empiriche, e tra queste l’indocentrismo e l’asiatismo, con il loro esotico richiamo religiosamente primordiale e prestigioso decantato dagli scrittori romantici come De Quincey e Leopardi, hanno sempre esercitato un fascino notevole sulla moderna cultura europea. Per essere chiari, no, i Neanderthal non c’entrano praticamente nulla con quelle che Laviosa Zambotti definisce le «arcaicissime culture» del Sud-Est asiatico, non erano diffusi dal Mediterraneo all’Indonesia, e non erano nemmeno antenati primordiali di Homo sapiens (tutt’al più, cugini di primo grado, in chiave filogenetica). Studi genetico-molecolari e paleoantropologici hanno confermato che le popolazioni di quelle zone sono le eredi attuali di una tra le molteplici migrazioni Out of Africa del moderno H. sapiens, giunte poi in Nuova Guinea e in Australia attraverso una serie di tappe asiatiche, come l’India meridionale, dove alcuni gruppi considerati autoctoni condividerebbero parte della loro storia genetica più recente con i Nativi australiani... [18] insomma, una direzione delle migrazioni umane contraria e opposta rispetto a quanto sostenuto da Laviosa Zambotti e altri suoi ben più blasonati colleghi.
Quando le ideologie sono forti, in buona o cattiva fede, persino a parità di prove si scelgono le tesi più accattivanti dal punto di vista emotivo. Nonostante le osservazioni di Darwin sulle antropomorfe africane come potenziali rappresentanti della linea evolutiva ominine, la corrente volta ad identificare un’origine asiatica per Homo sapiens, capitanata dal naturalista Ernst Haeckel e confortata dalle scoperte di Eugène Dubois, ebbe maggior fortuna e diffusione disciplinare (prima o poi torneremo su questi argomenti con un post dedicato... ma se proprio non potete aspettare, ci sarebbe sempre il mio libro, dove il tema è abbondantemente trattato). Questo nonostante il paleontologo australiano Raymond Arthur Dart (1893-1988) avesse descritto il dirimente taxon africano Australopithecus africanus nel 1924. Non si trattava quindi di lacune nella documentazione: il suo collega Robert Broom (1866-1951) quasi quindici anni più tardi, con la descrizione di Paranthropus robustus dal Sudafrica avrebbe portato nuove prove in merito ad un’origine africana, destinate a crescere esponenzialmente negli anni a seguire [19].
Comparazione osteologica tra H. neanderthalensis (a) e H. sapiens nativo austrialiano (b), che Marcelin Boule usò nel 1913 per dimostrare quanto fossero primitivi i Neanderthal. Siamo forse di fronte a una decostruzione delle comparazioni razziali che volevano le popolazioni native australiane come arcaici fossili viventi, vieta interpretazione pregiudiziale prodotta e/o sfruttata in ambito colonialista? Non proprio: il pensiero di Boule non era scevro da intenti razziali veicolati da una scala naturæ, anzi. Semplicemente, Neanderthal, come taxon ominide, era ritenuto più primitivo di qualunque popolazione vivente o passata di H. sapiens. Non fate troppo caso all’andatura gobba e alle gambe da cavaliere cosacco malato che si accompagna spesso alle raffigurazioni tardo-ottocentesche e primo-novecentesche dei Neanderthal; è una lunga storia fatta di bias tafonomici e contingenze interpretative, ma è stata falsificata anch’essa. Fonte dell’immagine: Boule 1913, p. 233, ripreso in Sommer 2006, p. 215 [17] (vedasi bibliografia più sotto). |
Quando le ideologie sono forti, in buona o cattiva fede, persino a parità di prove si scelgono le tesi più accattivanti dal punto di vista emotivo. Nonostante le osservazioni di Darwin sulle antropomorfe africane come potenziali rappresentanti della linea evolutiva ominine, la corrente volta ad identificare un’origine asiatica per Homo sapiens, capitanata dal naturalista Ernst Haeckel e confortata dalle scoperte di Eugène Dubois, ebbe maggior fortuna e diffusione disciplinare (prima o poi torneremo su questi argomenti con un post dedicato... ma se proprio non potete aspettare, ci sarebbe sempre il mio libro, dove il tema è abbondantemente trattato). Questo nonostante il paleontologo australiano Raymond Arthur Dart (1893-1988) avesse descritto il dirimente taxon africano Australopithecus africanus nel 1924. Non si trattava quindi di lacune nella documentazione: il suo collega Robert Broom (1866-1951) quasi quindici anni più tardi, con la descrizione di Paranthropus robustus dal Sudafrica avrebbe portato nuove prove in merito ad un’origine africana, destinate a crescere esponenzialmente negli anni a seguire [19].
Ma il ruolo paleoantropologico dell’Africa nell’opera di Laviosa Zambotti? Nella sua rassegna le scoperte africane di Dart e Broom passano inosservate, e negli anni a seguire la studiosa non modificò né aggiornò in modo sostanziale il suo quadro di indagine. Eppure, nello stesso anno della pubblicazione del volume laviosiano persino uno dei principali oppositori di Dart, Arthur Keith, l’uomo che fu uno dei protagonisti dell’impostura scientifica di Piltdown, asse portante degli ipotizzati origine e sviluppo eurasiatici dell’evoluzione umana, ammise di essersi sbagliato nel giudicare Australopithecus un taxon non dirimente per la filogenesi umana [20].
Riflessioni finali su Piltdown
Si può menare per il naso una generazione di valenti studiosi, ma con la scienza alla fin fine non la si fa franca. Uomo di Piltdown (Eoanthropus dawsoni); ricostruzione del suo cranio chimerico (ossia, frutto della fraudolenta unione di due reperti differenti). Da Thomson, A. 1922. The Outline of Science. Fonte: Wikipedia. |
Nonostante i fiumi di inchiostro già versati, mi piacerebbe concludere questo excursus spendendo due parole sulla frode di Piltdown. Abbiamo visto che esso ricoprì un ruolo basilare all’interno delle ricostruzioni laviosiane per centrare sull’Eurasia lo sviluppo ab origine del genere Homo. La storia della scienza è spesso legata a doppio filo a quella socio-politica, e l’esempio di Piltdown non fa eccezione. La scoperta di importanti fossili sul suolo britannico, come il reperto attribuito a Eoanthropus, nobilitava i natali dell’Impero inglese e azzerava i complessi di inferiorità scientifico-antropologica nei confronti di Francia e Germania. Nel contempo, sembrava vendicare certa antropologia dell’epoca, secondo la quale il volume cranico dell’uomo preistorico non poteva essere troppo dissimile da quello attuale e che solo alcuni suoi particolari anatomici restavano evoluzionisticamente “scimmieschi” e perfettibili. Una posizione utile anche per i fautori del “salto ontologico” tra uomo e animale, salvaguardando l’intelligenza come baluardo antievoluzionistico. In questo gioco di scatole cinesi, per cui politica, scienza, pregiudizi intellettuali e contraffazione dei reperti formano un insieme inestricabile, come ha scritto Stephen Jay Gould,
«[n]on possiamo semplicemente ridere e dimenticare. Piltdown assorbì l’attenzione professionale di molti bravi scienziati. Condusse milioni di persone fuori strada per quarant’anni. Gettò una luce sbagliata sui processi fondamentali dell’evoluzione umana. Le carriere degli scienziati sono troppo brevi e troppo preziose per poter considerare con indulgenza un tale spreco» [21].
Chiaramente, la frode di Piltdown e la ricostruzione di Laviosa Zambotti stanno su due livelli differenti. Ad ogni modo, e questo vale per entrambi i casi citati, la storia degli errori nella scienza e nella storia non è un futile gioco buono, al massimo, per riempire un vuoto nel CV, per ottemperare a un mero obbligo professionale e presentare qualche curiosità in un ozioso convegno accademico, ma è una necessità epistemologica inderogabile se davvero vogliamo costruire su quegli errori una conoscenza più salda e sicura e contestualizzare le carriere degli studiosi del passato. Testando e falsificando le tesi che contengono un qualche appoggio epistemico probatorio, come ricordava Darwin, «si chiude un sentiero che conduce all’errore e la strada del vero viene sovente nel tempo stesso dischiusa» [22]. Ovviamente per fare questo abbiamo bisogno di maggiore conoscenza scientifica, e su questo torneremo ancora - e sempre - ad insistere nei prossimi post.
Buon Darwin Day 2016!
Buon Darwin Day 2016!
[1] Rossi, P. (2003). I segni del tempo. Storia della Terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico. Milano: Feltrinelli (19791), p. 17.
[2] Laviosa Zambotti, P. (1947). Origini e diffusione della civiltà. Milano: Marzorati, p. vi.
[3] Ibi, 463.
[4] Barsanti, G. (2005). Una lunga pazienza cieca. Storia dell’evoluzionismo. Torino: Einaudi, p. 336.
[5] Laviosa Zambotti, P. (1955). Unità della storia e della preistoria. Nuova Antologia (1856, agosto): 541-550; p. 548.
[6] Diamond, J. & Bellwood, P. (2003). Farmers and Their Languages: The First Expansions Science, 300 (5619), 597-603 DOI: 10.1126/science.1078208. Per una panoramica aggiornata sui centri che videro le nascite indipendenti delle tecniche agricole cfr. Price, T., & Bar-Yosef, O. (2011). The Origins of Agriculture: New Data, New Ideas Current Anthropology, 52 (S4) DOI: 10.1086/659964.
[7] Laviosa Zambotti, Origini e diffusione della civiltà, cit., p. 82.
[8] Si veda Beard, C. (2004). The Hunt for the Dawn Monkey: Unearthing the Origins of Monkeys, Apes, and Humans. Berkeley, Los Angeles and London: University of California Press, pp. 282-284.
[9] Laviosa Zambotti, Origini e diffusione della civiltà, cit., p. 85.
[10] Ibidem.
[11] Si veda Gould, S. J. (2009). Una nuova versione del caso Piltdown. Ne Il pollice del panda. Milano: il Saggiatore, pp. 99-114: 105 (prima ed. Editori Riuniti, Milano 1984; Pubbl. orig. in The Panda’s Thumb. London and New York: Norton & Co. 1980). Art. pubbl. orig. come Piltdown Revisited. Natural History. 1979: 86-97. Nonostante i molti dubbi che il reperto sollevò fin dalla sua scoperta, il presunto fossile venne scientificamente smascherato soltanto all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso. Si veda Weiner, J., & Oakley, K. (1954). The Piltdown Fraud: Available Evidence Reviewed. American Journal of Physical Anthropology, 12 (1), 1-8 DOI: 10.1002/ajpa.1330120115.
[12] Laviosa Zambotti, Origini e diffusione della civiltà, cit., p. 84.
[13] Ibi, pp. 85-89 .
[14] Ibi, p. 116.
[15] Ibi, p. 37.
[16] Cfr. Beard, The Hunt for the Dawn Monkey, cit., p. 284, fig. n. 47.
[18] Cavalli Sforza, L. L., Menozzi, P., & Piazza, A. (2009). Storia e geografia dei geni umani. Milano: Adelphi, pp. 654-695 (prima ed. 1997). Pubbl. orig. nel 1994 come The History and Geography of Human Genes. Princeton: Princeton University Press; Kumar, S., Ravuri, R., Koneru, P., Urade, B., Sarkar, B., Chandrasekar, A., & Rao, V. (2009). Reconstructing Indian-Australian Phylogenetic Link. BMC Evolutionary Biology, 9 (1) DOI: 10.1186/1471-2148-9-173; Tuniz, C., Gillespie, R., & Jones, C. (2010). I lettori di ossa. Prefazione di Giorgio Manzi e Telmo Pievani, Introduzione all’edizione italiana di Claudio Tuniz. Milano: Springer-Verlag Italia. pp. 201-204 (ed. australiana The Bone Readers: Atoms, Genes and the Politics of Australia’s Deep Past. Crows Nest: Allen & Unwin 2009; ed. statunitense The Bone Readers: Science and Politics in Human Origins Research. Walnut Creek: Left Coast Press 2009).
[19] Dart, R. (1925). Australopithecus africanus: The Man-Ape of South Africa. Nature, 115 (2884), 195-199 DOI: 10.1038/115195a0; ripubblicato in Garwin, L. & Lincoln, T. (eds.), A Century of Nature: Twenty-One Discoveries that Changed Science and the World. Chicago and London: The University of Chicago Press, 10-20; Broom, R. (1938). The Pleistocene Anthropoid Apes of South Africa. Nature, 142 (3591), 377-379 DOI: 10.1038/142377a0. Per un’analisi approfondita dello state of the art paleoantropologico si rimanda a Maclatchy, L. M. et al. (2010). “Hominini”. in Werdelin, L. & Sanders, W. J. (eds.). Cenozoic Mammals of Africa. Berkeley, Los Angeles and London: University of California Press, pp. 471-545.
[20] Ciò non impedì a Keith di sottrarsi, a ottantun’anni, ad un’ultima amara derisione nei confronti di Dart: Keith, A. (1947). Australopithecinae or Dartians. Nature, 159 (4037) PMID: 20295216; cfr. Thomas, H. (2002). Le mystère de l’homme de Piltdown. Une extraordinaire imposture scientifique. Paris: Belin.
[21] Gould, S. J. (2008). La cospirazione di Piltdown. In Quando i cavalli avevano le dita. Misteri e stranezze della natura, Feltrinelli, Milano, pp. 203-228; 228 (prima ed. 1984; ed. orig. Hen’s Teeth and Horse’s Toes. New York: Norton & Co. 1983). Art. pubbl. orig. come The Piltdown Conspiracy. Natural History (89) 1980: 8-28.
[22] Darwin, C. R. (1872). L’origine dell’uomo e la scelta in rapporto col sesso. Prima traduzione italiana col consenso dell’autore. Trad. it. di M. Lessona. Torino e Napoli: Unione Tipografico Editrice. p. 567. Pubbl. orig. nel 1871 come The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex. London: John Murray. http://dx.doi.org/10.1037/12293-000.
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