giovedì 29 maggio 2014

1958, o quando la storia cercò di diventare una scienza

Placca parigina commemorativa dedicata a Fernand Braudel, che non è in Rue Fernand-Braudel ma al n° 59 di rue Brillat-Savarin, Paris 13 (l'arrondissement è però lo stesso, nell'improbabile caso ve lo steste domandando).
Fotografia dell'utente Mu da Wikipedia.
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Cosa c’entrano il Brasile e la Francia con il 1958 e con l’idea di studiare quantitativamente i dati storici? No, la risposta non è il 5 a 2 subito dalla nazionale francese ad opera del Brasile di Didi, Garrincha e Pelé, durante la semifinale del campionato mondiale di calcio svedese di quello stesso anno e disputatasi presso il Råsundastadion di Solna alle h. 19:00 del 24 giugno (per la cronaca, e per la gioia dei 27.100 spettatori presenti, con tanto di tripletta di Pelé al 52’, al  64’ e al 75’).
Per rispondere dobbiamo partire da una citazione.

Come ha ricordato poco tempo fa Massimo Pigliucci, «La storia, dicono alcuni, è una dannata cosa dopo l’altra. Ma è davvero così? Di tanto in tanto vengono proposti tentativi per rendere la storia più scientifica attraverso l’introduzione di teorie generali che spieghino il suo sviluppo» [1]. Il bilancio del rapporto tra storia e scienza è però quasi tutto in negativo. I modelli “scientifici” risalenti al primo Novecento e applicati alla storia sono stati giustamente demoliti da Karl Popper: dati alla mano, tutte le teleologie ideologiche di stampo politico (per tacere dei fideismi teologici) e la psicoanalisi nelle sue varie reincarnazioni hanno sonoramente fallito come metodologie di analisi storiografica. Insomma, fermo restando la validità di alcuni assunti economici nello studio dei rapporti sociali, se prendiamo come discrimine il confine tra scienza e pseudoscienza questi metodi si sono collocati fermamente sul secondo versante. Alcuni modelli di analisi storiografica più recenti promettono comunque risultati ben più consistenti dal punto di vista scientifico, tra cui citiamo quelli portati avanti da Jared Diamond, Peter Turchin [2] e Daniel Lord Smail [3].

Alla fine degli anni Venti del secolo scorso, ben prima delle armi, dell’acciaio e delle malattie di Diamond, e ben prima della cliodinamica di Turchin e della neurostoria/storia profonda di Smail, però, c’era una rivista che si chiamava Annales d’histoire économique et sociale. E les Annales erano il regno della storia totale.
E la storia totale era l’ingegnoso tentativo di scavalcare la tradizionale scansione evenemenziale e nazionalista dei fatti storici come una sequenza interminabile e inossidabile di personaggi politici in bilico tra l’arte della diplomazia e l’esercizio della guerra. Per fare ciò, gli studiosi afferenti alla scuola delle Annales (in pratica il non plus ultra dei manuali di storia: Marc Bloch, Lucien Febvre e Fernand Braudel) chiamarono in soccorso geografia, sociologia, psicologia e, soprattutto, i dati quantitativi e la costruzione di modelli. Il tutto incentrato sullo studio della lunga durata, ossia sugli eventi a lungo e lunghissimo termine piuttosto che su sui singoli eventi, un “tempo antropologico”, secondo la definizione di André Burguière, «composto da sovrapposizioni, nuovi inizi e talvolta innovazioni improvvise» [4]. (2009: 61). Questa idea della storia come lunga durata è difatti una “storia della/delle mentalità”, come era in voga dire verso la metà del Novecento, e che oggi in parte potremmo tradurre con evoluzione culturale ed epidemiologia delle rappresentazioni. Chi più di tutti ha perfezionato teoricamente questo approccio è stato Braudel, il quale – come ha ricordato Immanuel Wallerstein – non aveva timore di impiegare il termine “scienza” per definire la sua idea di storia basata sull’analisi quantitativa dei dati allo scopo di individuare pattern e di costruire modelli euristici esplicativi [5].

La controparte di questa imponente e ambiziosa revisione dell’approccio storiografico d’antan è stata, nell’impostazione braudeliana, l’erezione di uno steccato deterministico, le note prisons de la longue durée, ossia i «quadri mentali» che bloccherebbero il tempo storico-culturale in una «semi-immobilità» intorno alla quale graviterebbero tutti gli altri livelli di analisi [6].
All’epoca, correva il 1958, l’espressione era stata utilizzata da Braudel per indicare una struttura, ossia
«una realtà che il tempo stenta a logorare e che porta con sé molto a lungo. Talune strutture, vivendo a lungo, diventano elementi stabili per un’infinità di generazioni: esse ingombrano la storia, ne impacciano, e quindi ne determinano il corso. Altre si sgretolano più facilmente, ma tutte sono al tempo stesso dei sostegni e degli ostacoli. Come ostacoli, esse si caratterizzano come dei limiti, in senso matematico, dei quali l’uomo e le sue esperienze non possono in alcun modo liberarsi. Si pensi alla difficoltà di spezzare certi quadri geografici, certe realtà biologiche, certi limiti della produttività, ovvero questa o quella costrizione spirituale: anche i quadri mentali sono delle prigioni di lunga durata» [7].
A queste prigioni mentali si assocerebbero i limiti imposti dalle condizioni fisico-geografiche (evidente nel suo magnum opus intitolato Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II) [8]. Ad esempio, lo storico francese afferma che il «condizionamento geografico» è un carcere fatto di «climi, di vegetazioni, di popolazioni animali, di culture, in un equilibrio costruito lentamente dal quale [l’uomo] non si può allontanare senza rischiare di rimettere tutto in discussione» [9]. Lo studio dei vincoli naturali con cui ciascuna società umana ha dovuto e deve confrontarsi è la strada percorsa anche nelle analisi di Jared Diamond (il quale non a caso cita Braudel nella bibliografia al termine di Armi, acciaio e malattie), e che in sostanza si ricollega alla vituperata questione della tabula rasa e dell’assoluta libertà umana in voga nel mondo umanistico e nelle scienze sociali. Pigliucci riassume molto efficacemente la questione:
«Gli esseri umani hanno certamente la capacità di decidere e alterare il corso delle proprie azioni, ma né le decisioni né le azioni possono essere indipendenti dalla costituzione genetica dell’umanità o dalle condizioni ambientali nelle quali gli esseri umani vengono a trovarsi. Per dirla altrimenti, gli esseri umani non sono esenti dalle leggi standard della causalità» [10].
Il problema grosso modo non è questo, bensì l’idea braudeliana dei vincoli mentali come prigioni, vale a dire i «vecchi modi di pensare e di agire», e «gli schemi resistenti, duri a morire, talvolta contro ogni logica» [11]. Allora, se l’accento cade sulla stasi culturale, quando, come e perché cambiano le idee, a parità di tutti gli altri vincoli? Dove trovare e come giustificare quelle «innovazioni improvvise» ricordate più sopra? Di fronte a una prospettiva storica di lunghissima durata non si può certo affermare che la stasi sia l’elemento caratterizzante. Siamo quindi ancora nei limiti degli altri modelli denunciati da Popper? Risposta difficile: sì, perché se intese in un senso assoluto queste idee di staticità assoluta e ingabbiante sono imprecise, e no, perché lo storico aveva comunque intuito una possibile strada da percorrere.

Arrivato a comprendere che «Ogni “attualità” racchiude dei movimenti di origine e ritmo diversi: il tempo di oggi risale nel contempo a ieri, ad un passato più lontano e ad uno remotissimo» [12], Braudel non poteva però trovare accordo con l’analisi del «tempo breve» condotta dalle sociologia, psicologia e economia del suo tempo [13] innanzitutto perché quelle discipline non erano scientificamente attrezzate all’epoca per poter sostenere il confronto desiderato, ma anche a causa dell’atteggiamento strutturalista condiviso dallo storico che in sostanza svalutava il singolo o l’evento per concentrarsi su lunghissime catene evenemenziali [14] (talvolta sposando le tesi psicologico-psicoanalitiche legate a una non meglio definita «psiche collettiva, presa di coscienza, mentalità o attrezzatura mentale») [15]. L’unica possibilità futura per l’analisi del «tempo breve» e delle sue interazioni con le «prigioni della lunga durata» era promessa della «scienza della comunicazione, una formulazione matematica di strutture quasi atemporali. Quest’ultimo procedimento, il più nuovo di tutti, è evidentemente l’unico che possa veramente interessarci» [16]. Ma che cosa intendeva Braudel con questo nuovo «procedimento» matematico caratterizzato da «strutture quasi atemporali»?

Per capire ci dobbiamo spostare nel Brasile. Non per i mondiali di calcio del 2014, ma negli anni ’30 del secolo scorso, e più specificamente in quel dell’Università di San Paolo, dove Braudel aveva conosciuto Claude Lévi-Strauss [17].
Laggiù Lévi-Strauss aveva iniziato a studiare le mitologie locali, i cui componenti avrebbe poi scomposto e ricondotto alla ricerca del soggiacente sistema elementare e atemporale, considerato dall’antropologo strutturalista come la manifestazione della cognizione umana funzionante con il minor numero di vincoli esterni e culturali e perciò, nella sua ottica, la più adatta a rivelare le strutture neurofisiologiche soggiacenti [18]. In pratica, a partire dagli output culturali, Lévi-Strauss intendeva comprendere la struttura neurocognitiva di base e universale (ossia, secondo l’ipotesi strutturalista, l’organizzazione dei codici binari elementari che starebbero a monte dello storytelling mitografico mondiale, del tipo arcinoto crudo/cotto, freddo/caldo, ecc.), e ciò era esattamente il contrario di quanto avrebbero fatto le neuroscienze a partire dalla metà del Novecento. Non a caso il modello proto-cognitivo binario lévi-straussiano è stato falsificato ma, come ha scritto di recente Pascal Boyer, i precursori delle scienze cognitive «possono essere curiosamente scorretti nelle loro conclusioni e del tutto ammirevoli nelle loro ipotesi. Lévi-Strauss è stato certamente entrambi» [19].
Ecco, oltre all’elaborazione statistica e quantitativa dei dati d’archivio, quando Braudel scrive dei quadri “matematici” egli si riferisce anche a simili modelli strutturalisti. Quindi, per riprendere la doppia risposta di poc’anzi: la teoria cognitiva a monte del modello strutturale braudeliano rischia di fallire come gli altri tentativi volti a spiegare la storia in modo scientifico, ma nel contempo ha fallito in modo interessante, per così dire, ossia indicando una intrigante possibilità. Lo stesso si può dire di Lévi-Strauss. Come ha scritto Darwin nel 1871 al termine dell’Origine dell’uomo, «Notizie false sono nocive ai progressi della scienza, poiché spesso si sono credute per lungo tempo; ma ipotesi erronee, se surrogate da qualche prova, fanno poco danno, in quanto chiunque si può prendere il piacere di dimostrare la loro falsità; e ciò fatto, si chiude un sentiero che porta all’errore, mentre contemporaneamente si apre spesso la via alla verità» [20].

Ora, appurato che il quadro braudeliano relativo alla cognizione umana è giocoforza desueto, si può dire che questa idea di studiare la stasi culturale sulla base della cronologia storiografica e delle costanti psicologiche delle menti umane con tutti  loro vincoli, abbia passato oggi il testimone (mutatis mutantis) alle scienze cognitive [21]. Queste discipline si fanno le moderne portatrici e innovatrici di quella longue durée che fu tipica dell’impostazione storiografica novecentesca delle Annales, le cui note “prigioni” potremmo tradurre oggi concettualmente, sulla scorta di un’intuizione di Anders Lisdorf, con “vincoli (co)evolutivi della cognizione umana” [22] e leggere come il livello mesostorico teorizzato da Jesper Sørensen di cui si parlava in quest’altro post.

Resta però da valutare attentamente un importate corollario del lascito braudeliano, ossia il fatto stesso che la storia possa essere considerata ipso facto una scienza. Ma di quale tipo sarebbe? Quale possibilità di fare previsioni scientifiche avrebbe un orientamento storiografico secondo la prospettiva braudeliana? La storia può fare previsioni sulla base di regole fisse? O, per dirla altrimenti, davvero tutte le scienze possono fare previsioni? E in quale modo? Di tutto questo, e di altro ancora, ci occuperemo nei prossimi post.

Insomma, quando inizieranno le partite di calcio del mondiale brasiliano, in televisione a orari impossibili (causa fuso orario), potrete fare gli snob, seguire questo blog e leggervi un bel post di questa serie, per di più con la coscienza calcistica a posto, sapendo che anche Lévi-Strauss ha commentato di pallone [23].

[1] Pigliucci 2010: 46
[2] Ibi: 54.
[3] Smail 2008.
[4] Burguièr 2009: 61.
[5] Wallerstein 2009: 169-170.
[6] Braudel 1973: 68.
[7] Ibi: 64.
[8] Wiebe 2011: 167-168.
[9] Braudel 1973: 64.
[10] Pigliucci 2010: 50.
[11] Braudel 1973: 67.
[12] Ibi: 69.
[13] Ibi: 71.
[14] Cfr. Wiebe 2011: 168.
[15] Braudel 1966: 35.
[16] Braudel 1973: 70.
[17] Wallerstein 2009: 159.
[18] Martin 2008: 313.
[19] Boyer 2013: 175.
[20] Darwin 2013: 1312.
[21] Cfr. Lisdorf 2011: 89.
[22] Ibidem.
[23] Lévi-Strauss 2010: 43.

Boyer, Pascal. 2013. Explaining Religious Concepts: Lévi-Strauss the Brilliant and Problematic Ancestor. In Xygalatas, Dimitris e William W. McCorkle Jr. (eds.). 2013. Mental Culture: Classical Social Theory and the Cognitive Science of Religion. Durham and Bristol, CT: Acumen, pp. 164-175

Braudel, Fernand. 1973. Storia e scienze sociali. La “lunga durata”, in id., Scritti sulla storia. Milano: Mondadori, pp. 57-74 (ed. orig. Braudel, F. (1958). Histoire et Sciences sociales : La longue durée Annales. Histoire, Sciences Sociales, 13 (4), 725-753 DOI: 10.3406/ahess.1958.2781 ; poi raccolto in 1969. Écrits sur l’histoire. Paris: Flammarion)

Braudel, Fernand. 1966. Il mondo attuale, vol. 1. Torino: Einaudi (ed. orig. 1963. Le monde actuel, en collaboration avec S. Baille, R.Philippe, Paris: Belin)

Burguièr, André. 2009. The Annales School: An Intellectual History. Ithaca: Cornell University Press (ed. orig. 2006. Lécole des Annales: une histoire intellectuelle. Paris: Odile Jacob)

Darwin, Charles Robert. 2013. L’origine delluomo e la selezione sessuale. In id., Lorigine delle specie, Lorigine dell'uomo e altri scritti sull'evoluzione. Roma: Newton Compton (1994 1a ed.; ed. orig. 1871. The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex. London: John Murray)

Lisdorf, Anders. 2011. Prisons of the Longue Durée: The Circulation and Acceptance of Prodigia in Roman Antiquity, in Martin, Luther H. e Jesper Sørensen (eds.), Past Mids: Studies in Cognitive Historiography. London-Oakville: Equinox, pp. 89-106

Lévi-Strauss, Claude. 2010. Il pensiero selvaggio. Milano: il Saggiatore. (1965 1a ed.; ed. orig. 1962. La pensée sauvage. Paris: Plon)

Martin, Luther H. 2008. Do Rituals Do? And How Do They Do It? Cognition and the Study of Ritual. In Braun, Willi e Russell T. McCutcheon (eds.), Introducing Religion: Essays in Honor of Jonathan Z. Smith. London-Oakville: Equinox, pp. 311-325

Pigliucci, Massimo. 2010. Nonsense on Stilts: How to Tell Science from Bunk. Chicago-London: The University of Chicago Press

Smail, Daniel Lord. 2008. On Deep History and the Brain. Berkeley-Los Angeles-London: University of California Press

Wallerstein, Immanuel. 2009. Braudel on the Longue Durée: Problems of Conceptual Translation. Review (Fernand Braudel Center) (32) 2: 155-170

Wiebe, Donald. 2011. Beneath the Surface of History?, in Martin, Luther H. e Jesper Sørensen (eds.), Past Minds: Studies in Cognitive Historiography. London-Oakville: Equinox, pp. 167-177

3 commenti:

  1. Analisi interessantissima. Una curiosità: a quale disciplina dobbiamo quindi affidarci per studiare e comprendere i grandi processi culturali della storia (origine e diffusione del Cristianesimo o del Buddhismo, la nascita della filosofia in Grecia, la rivoluzione scientifica o industriale, le grandi civiltà dell'Oriente antico ecc. ecc.), alle neuroscienze o all' antropologia, alla storia, alla sociologia, insomma alle scienze umane? Grazie !

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    1. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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    2. Innestare il metodo scientifico sulle discipline umanistiche e potenziarlo sulle scienze sociali, senza rinunciare né alle une né alle altre:

      1) http://tempiprofondi.blogspot.it/2014/05/et-voila-il-coniglio-dal-cappello.html
      2) http://tempiprofondi.blogspot.it/2014/06/ma-la-storia-non-si-puo-mica-fare-in.html

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