sabato 15 aprile 2017

Darwin Day 2017. Parte II: bullismo o bullismi?

Riassunto della puntata precedente

Nel post precedente abbiamo cercato di vedere quali potessero essere le cause evolutive a monte dei comportamenti bullistici, e ci siamo concentrati su due tesi: quella di Jonathan Gottschall, secondo la quale il bullismo rappresenta un adattamento evolutivo, e quella di Christopher Boehm, la quale prevede una modulazione socio-cognitiva dei comportamenti bullistici basata sul rapporto tra ravvedimento individuale e tolleranza sociale. Nel primo caso avremmo una competizione diretta che premierebbe l’esercizio della forza da parte dei bulli, nel secondo un allargamento delle maglie selettive del gruppo a patto che il free rider dominante si ravveda nel caso in cui questi abbia assunto comportamenti antisociali. Nel caso illustrato da Boehm, il passaggio dei geni del free rider dominante alla generazione successiva garantirebbe una certa variabilità fenotipica all’interno del gruppo.
Entrambe le tesi danno per scontati alcuni assunti molto importanti. Due di questi sono particolarmente importanti: il bullismo come entità sottoposta a selezione e l’uso della comparazione etnografica per tracciare analogie con un’ipotetica umanità ancestrale. In questo post ci occupiamo del primo punto e dei suoi corollari; al secondo sarà dedicato un breve post di prossima pubblicazione.

Critica della ragion (bullistica) pura

Immanuel Kant mentre sta pensando al motto, così spesso frainteso, secondo il quale «Da un legno storto, come quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto» (in Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, 1784). Il senso della frase, quando propriamente contestualizzata nel passaggio originale, era che nonostante tutto occorre comunque tendere al miglioramento. Un paio di sganassoni ben assestati gli avrebbero probabilmente fatto cambiare idea.
Fonte: ritratto di Kant da Wikipedia; ritratto di Nelson Muntz da Google Images ©  Gracie Films/20th Century Fox Television

Il bullismo, inteso come entità essenziale, discreta, può essere oggetto di selezione naturale? Dati alla mano, si potrebbe benissimo sostenere che il bullismo sia in realtà composto da un insieme eterogeneo di comportamenti che non possono essere disgiunti dal più vasto sottoinsieme di comportamenti umani generalmente aggressivi. Se l’unica peculiarità fosse quella di agire violenza contro i subordinati, in quale modo distinguere tale aggressività da altri tipi di aggressività? Se il bullismo è motivato dai medesimi presupposti neurofisiologici o endocrini dell’aggressività (legata, ad esempio, ai livelli di testosterone o all’azione di vari ormoni), a quale livello può la selezione isolare questo comportamento? Il risultato dell’impossibilità di operare una distinzione tra bullismo e aggressività sarebbe l’invisibilità di tale comportamento ai processi selettivi. In effetti, c’è chi ritiene che il bullismo sia un complesso multifattoriale che parte dall’interazione tra predisposizioni neurobiologiche ed eventi stressanti scatenanti, come notato da Susan M. Swearer e Shelley Hymel in un articolo pubblicato nel 2015 [1]. Ma questo non vuol dire che non ci siano comuni basi genetiche o neurofisiologiche. Semplicemente, il quadro è molto più complesso e, come spesso accede quando si tratta dei tempi profondi, molto più interessante di quanto non possa sembrare.

Singolare o plurale?

Cerchiamo allora di seguire una pista differente per un momento, lasciamo per un attimo da parte il determinismo essenzialista del bullismo secondo Gottschall, e proviamo ad elencare brevemente i fattori che potrebbero aiutarci a collocare in una prospettiva più complessa la storia naturale del bullismo:
  1. lo sviluppo individuale è un mix inestricabile di fattori genetici, epigenetici, ed ambientali (dove per “ambiente” si intende anche e soprattutto l’ambiente sociale). In alcuni periodi particolarmente importanti, quali la gravidanza, le primissime fasi dello sviluppo, e durante la pubertà (specie per quanto riguarda la creazione delle reti neurali e la cablatura dei processi affettivi ed empatico-emotivi), questi fattori interagiscono dinamicamente tra di loro secondo differenti modalità. Si tratta di modalità guidate da una rete biunivoca di processi neurochimici ed ormonali: ad esempio, la privazione dei necessari stati affettivi durante alcune fasi cruciali per la costruzione di un circuito neurale adeguato influisce negativamente sulla gestione e sull’attivazione di comportamenti empatici e di altri stati emotivi nell’adulto [2].
  2. Sono diverse infatti le condizioni neurofisiologiche che possono essere alla base della violenza agita in chiave bullistica. La mancanza di empatia può essere annoverata tra queste. Ancora una volta, è bene ricordare che ci troviamo di fronte a diversi fattori che interagiscono e non a un elemento dotato di un’essenza immodificabile: l’empatia è il risultato delle interazioni di un intero circuito composto da ben dieci aree cerebrali interconnesse tra loro e dotate di diversi compiti a livello emotivo o cognitivo (anche se, probabilmente, ne esistono altre, ancora da mappare). L’empatia non sarebbe pertanto il precipitato di un solo sistema [3]. Per questo motivo, il settaggio individuale si pone su di un continuum che va dalla massima empatia alla sua totale assenza, e non su un semplice meccanismo ON/OFF, presente/assente. Anche in questo caso siamo ben al di là del semplicistico determinismo che vorrebbe facili e immediate soluzioni dietro a determinati comportamenti. Ora, ciò che mi interessa notare qui è che la mancanza di empatia, sia essa il prodotto di settaggi insufficienti di determinate aree cerebrali o di precise condizioni genetiche (ad es., personalità borderline, soggetti autistici o affetti da disturbo post-traumatico da stress), può scatenare, a livelli e intensità differenti, comportamenti potenzialmente aggressivi, violenti o crudeli dal punto di vista morale. Questo avviene perché il soggetto scarsamente empatico può non riconoscere il soggetto di fronte a sé come individuo dotato di emozioni e sentimenti, e l’oggettivizzazione dell’altro può condurre all’adozione di comportamenti antisociali [4].
  3. Allo stesso modo esistono dinamiche sociali specifiche, a livello di gruppo, che possono innescare comportamenti bullistici, senza che vi siano, a livello neurofisiologico e cognitivo, disfunzioni patologiche o deficit particolari. Vi possono essere free rider subordinati che, pur essendo potenzialmente privi delle caratteristiche neurofisiologiche dei soggetti dominanti all’interno del proprio gruppo, si accodano ai bulli dominanti per vari motivi legati all’esercizio del potere tramite violenza. Subordinati, sì, ma pur sempre un gradino più in alto rispetto agli abusati. E, magari, al riparo dalle continue vessazioni. Occorre inoltre prendere in considerazione le rappresentazioni culturali che vengono trasmesse verticalmente (perlopiù dai genitori e dalla famiglia) e orizzontalmente (cioè dai coetanei o da certi format di intrattenimento), le quali, tradotte in schemi comportamentali emulativi, possono avere un’importanza notevole nel modellare le eventuali risposte bullistiche.
  4. Sarebbe però assai ingenuo rinunciare a cercare le basi neurofisiologiche o genetiche del bullismo. Esistono difatti diversi candidati genetici dietro all’attualizzazione di dinamiche bullistiche. Mi limito ad un solo esempio illustrativo. Nel 2008, un gruppo di ricercatori guidato da Avshalom Caspi ha avanzato l’ipotesi che un allele legato all’espressione della catecolo O-metiltrasferasi (COMT), ossia un enzima deputato al metabolismo della dopamina nella corteccia prefrontale, predisponga chi soffre di deficit di attenzione e di iperattività (Attention Deficit/Hyperactivity Disorder, o ADHD) a un minore controllo delle funzioni esecutive con potenziali ricadute negative sui comportamenti sociali [5]. In particolare, il meccanismo presso il codone 158, messo in moto dalla presenza dell’aminoacido metionina (espresso in polimorfismo con la valina), ridurrebbe del 40% l’attività enzimatica nella corteccia prefrontale, producendo livelli più elevati di dopamina [6]. Tale meccanismo interferirebbe con «la capacità dei bambini di controllare il proprio comportamento, impendendo loro di considerare adeguatamente le implicazioni future delle loro azioni. Questi bambini possono avere difficoltà a comprendere le conseguenze negative del loro comportamento su terzi, possono non riuscire a immaginare idee astratte relative ai valori etici o a ricompense future, possono non essere in grado di inibire l’adozione di comportamenti inappropriati e, quindi, di non adeguare i propri comportamenti alle mutevoli circostanze sociali» [7]. Eppure, come indica la cautela espressa dai tempi verbali srotolati nella precedente citazione, i risultati sono provvisori e la correlazione tra base neurobiologica e l’adozione di comportamenti antisociali nei soggetti affetti da ADHD, per quanto affascinante, resta ancorata ad un livello speculativo: la «replicabilità non è perfetta, e un’associazione con falsi positivi non può essere esclusa con certezza» [8]. In effetti, variabili di genere, gruppo, famiglia, età, contesto economico, ecc., possono incidere notevolmente sullo scatenamento  di comportamenti bullistici (e sulla loro inibizione). Ma allora, le radici neurofisiologiche restano sempre le stesse o no? 
Forse, se espresso in questi termini ristretti, il problema del bullismo come entità sottoposta a selezione è mal posto. Come ricordato in un altro post, la psicologia evoluzionistica sostiene infatti che «la selezione naturale agisc[a] sugli output comportamentali, e non sui sistemi cognitivi responsabili di tali comportamenti» [9]. Quindi, in linea di massima, i comportamenti antisociali esercitati da free rider dominanti in età pre-riproduttiva e (pre-)adolescenziale – quale che sia la molla neurofisiologica – potrebbero benissimo rientrare tra gli oggetti di selezione da parte dei gruppi umani, garantendo nel contempo una certa variabilità fenotipica dietro ai comportamenti bullistici. Ma la psicologia evoluzionistica, si sa, è un campo ancora in fase di sviluppo, sottoposto a molte critiche e ad ancora più rinnovamenti. Il condizionale cautelativo resta pertanto d’obbligo. Magari tra qualche anno si avrà la conferma di una comune base neurofisiologica dietro alla variabilità fenotipica del bullismo (fatta comunque debita eccezioni per quei casi di opportunismo citati al punto (3) della lista precedente). Per il momento, riuscire a disincagliare dalla melma delle correlazioni spurie l’elemento maggiormente implicato nell’attuazione di comportamenti antisociali a base bullistica, sembra essere molto più difficile che spedire robot su Marte

Fonzie, Biff e Cletus Kasady entrano in un bar e…

... e niente... come volete che vada a finire con quel piantagrane rossastro sulla destra? C'è ben poco da ridere, caro il mio Fonzie. Biff pare averlo già capito...
Fonte: Fonzie da Wikipedia; Biff da Wikipedia; Cletus Kasady/Carnage da Google Images (matite di Mark Bagley, chine di Randy Emberlin; da Amazing Spider-Man #361 © 1992 Marvel Comics).

Invece, quando Gottschall afferma che, a livello sociale, i bulli sarebbero «più popolari fra i compagni rispetto ai non bulli, e [avrebbero] più successo con le ragazze» [10], rischia di fare il passo epistemico più lungo della gamba metodologica. Riunire sotto un’unica etichetta tipologie comportamentali tanto diverse è semplicemente un rischio. Come se Asso Merrill, Biff Tannen, John Bender, Arthur Fonzarelli, Danny Zuko, Cletus Kasady (l’arcinemesi di Venom e dell’Uomo Ragno) e It potessero stare tutti assieme comodamente sotto lo stesso tetto. D’accordo, It non c’entra nulla e l’ho aggiunto io, ma era per rendere l’idea. Di certo, che personaggi quali Kasady o Biff siano popolari tra le ragazze quanto Danny Zuko o John Bender mi sembra un’idea tirata per le orecchie.

Nel caso di Carnage/Kasady, compagne psicopatiche quali Shriek non contano come falsificazione dell'argomento relativo alla popolarità, grazie.
Fonte: Google Images, da The Amazing Spider-Man #378, matite di M. Bagley, chine di R. Emberlin © 1993 Marvel Comics.
Pur trattandosi di esempi fittizi, quello che voglio dire è che anche ammettendo che il bullismo possa essere stato oggetto di selezione, avremmo una scala di modulazioni e di variabilità e non un bullismo ON/OFF, presente/assente. Data questa variabilità fenotipica, un idealtipo sociale del bullo sarebbe piuttosto difficile da identificare. E se davvero l’output comportamentale è stato filtrato indipendentemente dalle cause neurofisiologiche, attraverso le maglie selettive e l’azione tollerante della LPA ipotizzata da Boehm, allora il bullismo sarebbe quasi come la classe Reptilia, parafiletica, ossia composta da diversi cladi filogenetici che, per quanto sembrino condividere alcune caratteristiche superficiali, non condividono antenati filogenetici comuni e recenti: tanto per dirne una, i coccodrilli sono più vicini agli uccelli che ai serpenti.
Per darvi un’idea della variabilità fenotipica all’interno del bullismo (o, per meglio dire, dei bullismi), Swearer e Hymel hanno elencato i seguenti elementi: «insensibilità; tendenze psicopatiche; adozione di tratti mascolini; problemi di condotta; personalità antisociale; vulnerabilità alla pressione dei compagni; ansia; depressione […]. Almeno alcuni studenti che bullizzano i propri compagni hanno un’intelligenza sociale e uno status sociale superiori alla norma […]; pertanto, i ricercatori distinguono tra bulli socialmente integrati e bulli socialmente marginalizzati […]» [11]. Ci son abbastanza elementi da garantire una certa disomogeneità comportamentale: abbiamo casi di psicopatia palese, contraddistinti da narcisismo, mancanza di empatia, impulsività, violenza, ecc. [12], e ci sono casi in cui, in fondo in fondo, il bullo è davvero solo un bonario Fonzie, per capirci. Quindi no, mettere insieme tutto in un unico calderone non è buona pratica da seguire. Anche considerando il punto di vista amministrativo: Kasady potete tenervelo chiuso nel Ravencroft, grazie.

Un posticino carino e rassicurante, tra l'altro.
Fonte: Medium; da The Amazing Spider-Man 2, il film del quale nessun true believer della MArvel vuole sentire parlare. © 2014 Sony Pictures/Columbia
Quando andare a squola scuola diventa patologico

Gottschall forse ha in mente un’idea romanzata e patinata del bullo come di un simpatico buontempone, un carismatico estroverso. Ma il bullo può anche agire sulla base di quello che in primatologia è noto come “pattern di abuso casuale” attraverso il quale il bullo, rendendo gli episodi di violenza imprevedibili, riproduce un modello che mira implicitamente a mantenere costanti i elevati livelli di stress nei subordinati in una continua autoriproduzione delle proprie condizioni di dominanza [13]. E luogo di elezione di tale comportamento è la scuola.
Come ha scritto Daniel Lord Smail, l’esistenza del bullismo nelle scuole dell’obbligo è una conseguenza di scelte educative uniformi, imposte dall’alto e relative ad un’organizzazione orizzontale per classe di età, una scelta istituzionale tipica dei moderni stati nazionali che, evolutivamente parlando, è senza precedenti. E senza precedenti sono le condizioni che permettono in ogni classe, in ogni annata, in ogni locale scolastico, in ogni paese, in ogni regione, in ogni nazione, la perpetuazione dell’adozione di comportamenti antisociali e violenti, tra cui il succitato pattern di abuso casuale. Gli strumenti culturali che nel post precedente abbiamo visto essere efficaci per contenere e controllare le prevaricazioni bullistiche nelle società di cacciatori-raccoglitori (come il pettegolezzo e la ridicolizzazione), sono gli stessi che vengono maneggiati e autogestiti da comunità di coetanei adolescenti «mal equipaggiati, da un punto di vista neurobiologico, a gestire i picchi e i crolli emotivi di un corpo adolescente». Non è difficile immaginare le conseguenze di tale mancanza di controllo. L’implementazione di tali strumenti nel contesto scolastico rappresenta pertanto «un esempio [negativo] di ciò che può succedere quando le istituzioni prodotte dalle società postlitiche interagiscono con la neurofisiologia umana in modi imprevedibili. Nel caso dell’istruzione scolastica, le società occidentali hanno sperimentato per quasi due secoli con l’usanza senza precedenti di far socializzare i bambini secondo un’organizzazione abbastanza rigida e basata su divisioni di età anziché secondo i livelli intergenerazionali di una società basata sui nuclei familiari. Solo ora stiamo iniziando a renderci conto della natura straordinariamente patologica di tale pratica» [14]. Ma allora, e torniamo al nodo problematico del primo paragrafo, davvero quel bullismo originario, tipico delle LPA identificate da Boehm e questo bullismo scolastico e adolescenziale sono in fondo la stessa cosa? Probabilmente sì dal punto neurofisiologico, ma da quello del contesto sociale direi proprio di no.

Immortan Joe, il tuo nuovo compagno di banco

Oggi interroghiamo... Joe! ... anzi, meglio di no, va'.
Fonte: MadMaxWikia; ©2015 Warner Bros. Pictures 

Se le ricadute immediate possono premiare il bullo, limitare l’accesso dei subordinati alle risorse (quali che siano) non ne massimizza la fitness a breve termine, poiché il bullo in età (pre-)adolescenziale solitamente non mette al mondo figli né instaura un vero e proprio regno come avviene ne Il signore delle mosche. Inoltre, la sua rete sociale non è destinata a durare: il potere corrompe, e la dominanza crea tensione nel suo gruppo (quando presente). Anche se durasse, la divisione scolastica in scuole medie inferiori e superiori renderebbe difficile continuare il sodalizio bullizzante. Forse, in condizioni ambientali drasticamente differenti (ad es., un cataclisma planetario), la potenziale strategia-r del bullismo, che è facile immaginare essere contraddistinta da prolificità, mortalità elevata, competizione elevata, ecc., potrebbe anche rivelarsi premiante. (Per capirci, la strategia r predilige la quantità della prole alla qualità dovuta a cure parentali mirate. Siete figli unici? Ecco, Mick Jagger ha otto figli con cinque compagne diverse).
Magari immaginare che il bullismo lasciato libero di correre possa condurre al devastato mondo post-apocalittico di Immortan Joe in Mad Max: Fury Road, può sembrare azzardato. Ad ogni modo, l’adozione di strategie-r nel percorso di sviluppo e di vita dell’individuo (quello che oggi in ecologia e sociologia è noto come life history theory) è una conseguenza tipica delle condizioni ecologiche e ambientali nelle quali ci si trova a vivere: massimizzare la fitness su breve durata può essere una risposta non mediata di fronte a condizioni di sviluppo e familiari disagiate, le quali veicolano a loro volta l’idea che il mondo non sia un luogo sicuro. Siamo sempre all’interno di un loop neuroendocrino tra cultura e natura, shakerate e non mescolate. Ecco quindi l’adozione di risposte comportamentali dominate da «sfruttamento delle risorse altrui, accoppiamento precoce e scarsa cura nei confronti della prole» [15].
Eppure, nelle condizioni ultrasociali attuali, e non solo, è ragionevole ritenere il bullismo come una strategia maladattiva per le vittime bullizzate, per le famiglie nelle quali le vittime vivono, per quelle che le vittime formeranno, e infine per i sistemi sanitari nazionali che si dovranno fare carico delle spese legate alle patologie sviluppate dalle vittime (come ad esempio, «depressione, ansia, disordine post-traumatico da stress», deficit cognitivi, ecc.), condizioni che a lungo termine possono condurre ad altre e ben più gravi condizioni di salute [16]. Ed è facile capire il perché: il bullismo attiva una diatesi cognitiva, come la chiamano Swearer e Hymel, che sarebbe una «lente distorta attraverso la quale gli individui interpretano gli eventi della propria vita» [17]. Che, chiudendo il cerchio, è esattamente quello che le società di cacciatori-raccoglitori illustrate da Boehm cercano di evitare puntando su una gerarchia a dominanza inversa e su vari sistemi di controllo sociale per tenere a bada i maschi alfa.

Il bullismo è maladattativo anche per i bulli stessi, essendo una strategia che viene implementata più o meno inconsciamente sulla base di stimoli neurofisiologici, ma che – a livello sociale ed individuale – non è premiante. In fondo, è un po’ come la contemporanea pandemia di obesità provocata dall’attrazione nei confronti di cibi fortemente energetici – un’attrazione che poteva essere adattativa quando tali cibi erano scarsi e la loro ricerca premiante ma che oggi, con la disponibilità di cibi e bevande iper-zuccherati, è fortemente maladattativa [18]. Come accennato in precedenza, la risposta bullistica viene talvolta adottata da soggetti che hanno subito gravi deficienze affettive o che hanno subito gravi traumi psicologici familiari durante l’infanzia. Che poi è anche un tropo sfruttato in molti ambiti della produzione pop di massa (la biografia fittizia di Carnage ne è solo un esempio). Pertanto, la cosa solo apparentemente paradossale, con la quale vorrei concludere questa seconda incursione nella storia profonda di questi fenomeni, è che il bullismo è un «evento stressante che mette a rischio i giovani vulnerabili nei confronti di una serie di esiti negativi […] a prescindere dal tipo di coinvolgimento (ossia, bullo, bullo-vittima, vitima)» [19, corsivo mio]. Indipendentemente dal ruolo, e fatte salve le gravissime conseguenze cognitive (quando non fisiche) subite dalle vittime, il bullismo avrebbe quindi ricadute negative su tutti gli attori sociali coinvolti. Il potere logora, e l’esercizio della violenza (agita, subita, o subita prima e agita poi) modifica a livello neurofisiologico ed endocrino gli individui, con pesanti ricadute a lungo termine sulle condizioni di salute mentale e fisica. E allora, se le vittime soffrono di più, possiamo dire che i bulli non ridono.

[1]Swearer, S., & Hymel, S. (2015). Understanding the psychology of bullying: Moving toward a social-ecological diathesis–stress model. American Psychologist, 70 (4), 344-353 DOI: 10.1037/a0038929.

[2] Orbecchi, M. (2015). Biologia dell’anima. Teoria dell’evoluzione e psicoterapia. Torino: Bollati Boringhieri.

[3] Baron-Cohen, S, (2011). Zero Degrees of Empathy: A New Theory of Human Cruelty and Kindness. London: Penguin. p. 20 (trad. in italiano nel 2012 come La scienza del male. L’empatia e le origini della crudeltà. Milano: Cortina).

[4] Ibi, passim.

[5] Caspi A, Langley K, Milne B, Moffitt TE, O'Donovan M, Owen MJ, Polo Tomas M, Poulton R, Rutter M, Taylor A, Williams B, & Thapar A (2008). A replicated molecular genetic basis for subtyping antisocial behavior in children with attention-deficit/hyperactivity disorder. Archives of general psychiatry, 65 (2), 203-10 PMID: 18250258.

[6] Ibi: 202-203.

[7] Ibi: 206.

[8] Ibi: 207.

[9] MCauley, R.N. (2011). Why Religion Is Natural and Science Is Not. Oxford: Oxford UNiversity Press. p. 53.

[10] Gottschall, J. (2012), Il professore sul ring. Perché gli uomini combattono e a noi piace guardarli. Torino: Bollati Boringhieri. p. 48 (pubbl. orig. nel 2015 come The Professor in the Cage: Why Men Fight and Why We Like to Watch. New York: Penguin Random House).

[11] Swearer & Hymel, Understanding the psychology of bullying, p. 345.

[12] Ibi: 348.

[13] Smail, D.L. (2008). On Deep History and the Brain. Berkeley, Los Angeles and London:
University of California Press. p. 178.

[14] Ibid.

[15] Brüne, M. (2016). Textbook of Evolutionary Psychiatry & Psychosomatic Medicine: The Origins of Psychopathology. Oxford: Oxford University Press. p. 87.

[16] Swearer S.M. & Hymel S., Understanding the psychology of bullying, cit., 348.

[17] Ibi., 349.

[18] McCauley, Why Religion…, cit., 54.

[18] Swearer, Hymel, Understanding the psychology of bullying, cit., 347.

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